Quanto sono importanti i personaggi in un romanzo? Senza voler generalizzare, credo almeno per il mio gusto di lettrice che sono fondamentali per la persistenza del libro nella memoria e nel cuore.

Una notte soltanto, Markovitch

In “Una notte soltanto, Markovitch” di Ayelet Gundar-Goshen (trad. di Ofra Bannet e Raffaella Scardi Giuntina, 2015) i personaggi ti entrano nel cuore sin dai particolari fisici: la bellezza mozzafiato di Bella, i baffi affascinanti di Zeev Feinberg, la mancata avvenenza di Yaakov Markovich, gli occhi troppi distanti di Sonia con il suo profumo di arance, il seno prosperoso di Rachel Mandelbaum, la mole gigantesca del marito, Abraham e le lunghe gambe  del vicecapo dell’Irgun. La vita dei personaggi si intreccia e si complica all’interno delle loro relazioni, e le vicende scaturiscono dai sentimenti e dalle reazioni agli stessi. Amori impossibili e amori perduti, desideri  irrealizzabili e bisogno di attenzioni, in un gioco delle parti lirico e sentito. Ogni personaggio combatte la propria guerra emotiva, in particolare i due amici che tengono il bandolo della matassa da cui si sbroglia e imbroglia la narrazione: Zeev Feinberg, tormentato dall’aver ucciso una madre con un bimbo durante la guerra, e Yaakov Markovich, in guerra con la moglie Bella a cui non ha voluto concedere il divorzio, nonostante il matrimonio fosse solo un espediente per poter portare un gruppo di donne in Israele dall’Europa. In sottofondo la guerra politica, di un paese in attesa del proprio destino e con una lunga difficile strada da attraversare. Ma la guerra reale non è che lo specchio di quella emotiva, o anche fondo immanente di uno stato ontologico di attesa e di lotta interiore:

Arrivato a Giaffa, dovette setacciare tutti i quartieri per trovare un arabo. Lo prese per il collo e lo appiccicò al muro. Sotto il pallido lampione gli esamino gli occhi. Se solo ci avesse trovato del timore. Ma l’uomo gli restituì uno sguardo diverso, che lui conosceva bene. Gli tolse le mani di dosso e lo lasciò andare. Adesso sapeva che, come lui avrebbe sempre sentito il profumo delle arance di Sonia ovunque, così quelle persone avrebbero fiutato, per generazioni e generazioni, le loro arance, i loro alberi, gli ulivi e le viti che erano loro appartenuti.

Per tutta quella notte, il vicecapo dell’Irgun vagabondò per le strade di Giaffa. La notte era così lunga, e le strade così tortuose, che arrivò a pensare che il sole fosse tramontato per sempre, che avrebbero vagato in eterno per i vicoli stretti, svoltando prima a destra poi a sinistra, per ritrovare dietro ogni angolo un altro angolo e la stessa oscurità. Finchè dopo l’ennesima curva s’imbattè nel sole. La guerra era finita. Avrebbe dovuto rallegrarsi, invece si spaventò. Per la prima volta in vita sua, ebbe paura. Il sole che sorgeva illuminò i marciapiedi, l’intera via fu inondata d’oro. Regnava il silenzio. Niente cannonate, niente mitragliate, nel cielo silenzio di aerei e di sirene di allarme. Nessun comandante che abbaiasse ordini, nessun soldato che mormorasse preghiere. In quel silenzio, in quel silenzio spaventoso, terribile, il vicecapo dell’Irgun udì quello che la guerra gli aveva fino allora pietosamente risparmiato.

Una trama evanescente, che si ricama addosso ai personaggi. Un tempo sospeso in cui tutto accade ed è accaduto, ma è ancora da accadere. Una prosa melodiosa, che disegna ghirigori preziosi sulle situazioni ma ancora di più sui personaggi. Parole che respirano e profumano, di arance e di pesca; parole che feriscono perché raccontano la distanza di uno sguardo o la freddezza di un mano; parole che tormentano perché raccontano la perdita e la morte, lo strazio dell’assenza; parole che suonano di canti nostalgici, ma anche di suoni sinistri, come il rumore di un cranio che si frantuma sul marciapiede. Infine parole mute, che raccontano in silenzio l’amore che non sa dirsi, perché “Una notte soltanto, Markovitch” è soprattutto un lungo, disteso canto d’amore da quello travolgente a quello inevitabile a quello incolmabile.

Sarebbe un grave errore credere che Abraham Mandelbaum non scrivesse lettere a sua moglie. Nessuna fu mai spedita, nessuna arrivò mai a essere scritta, eppure Abraham teneva un assiduo epistolario. In tasca conservava dei bigliettini per la moglie, e svariati oggetti utili a raccontare la sua storia e a dimostrare il suo amore. Un sasso violetto ridipinto di rosso. La chela di uno scorpione trovata nella sabbia. Un rametto di acacia in fiore. La notte, mentre i suoi compagni erano intenti a scrivere le loro lettere, Abraham Mandelbaum ne tirava fuori uno e lo fissava. Il sasso violetto, ad esempio, era contemporaneamente un tramonto di porpora nel cielo del villaggio, un palpitante cuore rosso e un misterioso puntino sulla fronte di una donna indiana. Abraham Mndelbaum lo guardava e si emozionava di fronte alle molteplici possibilità nella sua mano. Poi chiudeva le dita intorno al sasso e immaginava le dita di Rachel che aprivano la carta con cui l’aveva avvolto, scoprendolo. Avrebbe capito?

Più importanti tra tutte le parole della poesia, ma forse sembra adombrarsi nelle pagine anche le più inascoltate. Non è forse questo il senso di un personaggio come Bella, nella sua affannosa ricerca del poeta, nelle ustioni di una mano per salvare un diario che scopre contenere poesie dell’amica morta, nel rogo a cui destinerà la traduzione in ebraico delle stesse che sembrano per un periodo dare un senso alla sua esistenza?

Forte è l’impressione che dietro l’ordito narrativo si nasconda un significato metaforico e simbolico, pregnante e impellente, e che i personaggi, pur così vividi nelle loro storie e sentimenti, nascondano anche un forte necessità allegorica di idealità e significati. Ma lascio che siano i lettori, senza voler rovinare la magia di una scrittura così densa, a rintracciare strade e sentieri di senso, chiudendo le mie impressioni, intime e personali, in uno scrigno prezioso da conservare gelosamente nel cuore.

Una notte soltanto, Markovitch