Se fossi andata ad un appuntamento reale con Sandra Petrignani, ci saremmo viste in un baretto di piazza Trilussa, in Trastevere, che si chiama Friends. La sensazione di scorgere da un momento all’altro Ninetta con il sorriso e l’incedere elegante, sarebbe stata forte. Sandra Petrignani in “Addio a Roma” (Neri Pozza, 2012) ha la capacità di rendere con grande vividezza e vivacità un periodo storico, quello della metà del Novecento, con tutti i suoi straordinari interpreti, dal punto di vista letterario e artistico. Ma forse ho davanti a me la “vera” Ninetta , ed è con lei, nella veste della sua autrice, che affascinata e incantata comincio a chiacchierare. Mettere ordine nelle tante domande è forse la cosa più difficile. “Addio a Roma” è un libro che mi ha sedotta e conquistata sin dalle prime righe.

Da dove nasce un libro dalla struttura così composita e originale come “Addio a Roma”?

Nella mia idea di narrativa, ogni libro, ogni storia, cerca la sua forma. La forma non è data una volta per tutte, insomma, e la sfida è conservare la propria voce, uno stile se vuoi, pur adottando forme di racconto differenti ogni volta. In questo caso la sfida era l’affresco storico, dovevo raccontare un’élite oggi scomparsa, farne rivivere le personalità diversissime, le relazioni fra le persone, rendere viva un’epoca morta (gli anni ’50 e ’60 a Roma) attraverso la loro società artistico-letteraria. Siccome non sono né una saggista né una storica, ho scelto una struttura da memoir. Il problema era però che io non sono una testimone diretta, se non in minima parte, quella della coda finale di quel periodo. Ecco allora l’invenzione di un alter ego, Ninetta, una me invecchiata di dodici anni che attraversa quei salotti come una Cenerentola che poi diventerà principessa: anche lei scrittrice, sia pure alle soglie di un’epoca tutta diversa: la nostra.

Tu intrecci il mondo dell’arte con quello della letteratura tra loro più strettamente che con le altre forme artistiche, come il cinema la musica il teatro. Perché?

Perché non potevo raccontare tutto. Così ho messo a fuoco soprattutto gli scrittori e subito accanto a loro gli artisti, lasciando in secondo piano le altre forme d’arte. E’ anche vero che il cinema di quegli anni ha già una statura mitologica cui potevo aggiungere poco. A me interessava di più rendere omaggio a scrittori che per tanti italiani, soprattutto i giovani, sono solo nomi sui libri di scuola. Restituire loro una biografia, sangue e passioni è servito in molti casi ad avvicinare i miei lettori alla nostra tradizione letteraria e artistica e a farla amare.

Oltre a Ninetta, che è lo sguardo giovane con cui io avrei voluto vivere e guardare quel periodo, ci sono due donne importanti che sembrano tenere in mano le fila delle tue storie: Palma Bucarelli, carismatica e fragile insieme, ed Elsa Morante, ossimoricamente sensibile e scontrosa. Perché proprio loro?

Perché sono sicuramente, a torto o a ragione, le figure più autorevoli del periodo. Due figure femminili che hanno esercitato vero potere, più manifesto quello della Bucarelli, regina dell’arte contemporanea da una posizione di grande prestigio (la direzione della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea a Roma), più sotterraneo – e per interposta persona attraverso il marito succube Moravia – la Morante.

Tra gli intellettuali uomini sono Moravia e Pasolini ai quali mi è sembrato da lettrice che tu dessi più spazio, più defilato Calvino; per gli altri, numerosi, fulminanti ritratti ricchi di dettagli illuminanti. Anche per loro si tratta di una scelta di importanza o di gusto?

Sicuramente Moravia e Pasolini sono stati, per motivi diversi, i dominatori della società letteraria del tempo, e anche forse i più internazionali. Ma a me interessava particolarmente raccontare la loro amicizia, così rara, così generosa. Così strana in fondo, date le profonde differenze di personalità, età, gusti, orientamento sessuale. Calvino, negli anni Cinquanta e Sessanta non era molto presente a Roma. Fra l’altro non l’ha mai amata. Un’altra amicizia, ma più complicata e finita male, che mi è piaciuto raccontare, è quella fra Fellini e Flaiano: tipi totalmente diversi da Pasolini e Moravia. Lo dico perché m’interessava soprattutto far capire i legami fra le persone, le dinamiche di quella società letteraria e artistica. I rapporti fra Irene Brin e Palma Bucarelli, per esempio, e il loro ruolo nel mondo artistico sono stati una sorpresa prima di tutto per me.

A voler incrociare i nomi che abbiamo fatto, anche l’amicizia, poi in qualche modo spezzata, tra Fellini e Pasolini. Per loro hai usato accenti molto profondi. Fortemente in sordina Natalia Ginzburg, per me che la amo molto. L’ho ritrovata interamente e intensamente nelle pagine sulla ricerca della casa. Pagine molto ginzburghiane.

Non mi sembra che Natalia Ginzburg, che reputo anch’io una scrittrice di primissimo piano, sia stata sacrificata. Appare in momenti importanti e il suo incontro con Ernst Bernhard, per esempio, è fondamentale per capire l’atteggiamento che aveva verso la psicanalisi e quanto questa figura carismatica contò per lei (come per tanti altri intellettuali e artisti, Rosselli, Fellini, Vandor, Manganelli per dirne qualcuno). Scrivendo non mi sono preoccupata dello spazio da assegnare a ogni protagonista, ma piuttosto di rendere le loro “apparizioni” significative. Così è per Bobi Bazlen, per Amelia Rosselli, per Ingeborg Bachmann, per Burri, per Schifano, Sandro Penna, e moltissimi altri.

Tante le letture che ricamano il racconto di “Addio a Roma”. Quanto hai letto per scrivere questo romanzo oppure sono tutte letture già tue che hai intrecciato all’intimità degli scrittori? Perché il fascino grande del tuo libro è il tuo sguardo penetrante sulle persone, sui loro gesti e le loro reazioni nella socialità più familiare, ed è come incontrarli dal vivo, senza più separatezza di vita. Nelle tue pagine c’è tanta passione colta e raffinata. L’attenzione e la ricchezza dei dettagli presuppone una grande conoscenza dell’intero quadro. Qual è stata la “fatica” di scrivere un libro come “Addio a Roma”?

Quanto alle letture, certo, sono state moltissime. Mi ha aiutato avere già una discreta conoscenza dei testi degli autori che racconto e, soprattutto, aver respirato l’aria dei loro tempi, almeno nella parte finale come dicevo all’inizio, quando io ero molto giovane e loro già i testimoni affascinanti di un mondo perduto. E’ stata una grande scuola osservarli vivere, qualcuno di loro almeno. Ero affascinata dai loro rapporti, dal modo in cui stavano al mondo. E molto, moltissimo mi hanno aiutato i ricordi di chi è ancora vivo e mi ha regalato qualche aneddoto che ha reso tutto in qualche modo più “contemporaneo” e presente. Non volevo che fosse un cimitero il mio libro, ma semmai uno di quegli album per bambini che, quando li apri, le pagine si animano nelle forme che ci stanno disegnate e diventano paesaggi a sbalzo, meravigliosi.

Addio a Roma

Ed è così. Molto più di un album. Un mondo ricreato con le parole e una scrittura passionale, in cui il lettore ha l’impressione di aggirarsi, inoltrandosi tra vicoli e palazzi, osterie e saloni sontuosi, case borghesi e stanzini. Stringere mani, origliare discorsi, fare incontri preziosi. Grazie, Sandra Petrignani, di questo viaggio eccezionale.

Chiacchierando con… Sandra Petrignani