– Vediamoci alle Belle Aurore, un bar di Milano che amo molto. –

Questo sarebbe stato l’appuntamento di Giorgio Fontana, se avessimo potuto incontrarci dal vero nella città sua e dove lavorano entrambi i protagonisti dei suoi due ultimi romanzi, Roberto Doni e Giacomo Colnaghi.

giorgio fontana

Mi piace pensare che la nostra chiacchierata per mail conservi il tono che avrebbe avuto se ci fossimo incontrati in un bar per un caffè… dopotutto il bar è un luogo importante nell’ultimo romanzo.

Parto con la prima domanda.

Ormai tutti conoscono il tuo anno di nascita: il 1981, l’anno che hai scelto per ambientare le vicende del magistrato Colnaghi, che non è un personaggio del tutto fittizio. Per chi come me ti segue con attenzione dall’esordio, sa che nel precedente romanzo c’è ancora un magistrato, Doni, che si reincontra, giovane, accanto a Colnaghi. Mi aveva molto colpito di “Per legge superiore”(QUI per la mia recensione al libro) la scelta di un personaggio così avanti con gli anni ed ero ammirata dalla lucidità e precisione con la quale gli prestavi la tua voce di scrittore di molto più giovane.

Anche Colnaghi, seppure non di molto, ti è maggiore. Perchè questa scelta di guardare al di là dei tuoi anni?

Sia Colnaghi che Doni sono personaggi maturi, con una grande consapevolezza di sè. Per Doni è una maturità anche anagrafica, per Colnaghi di vita e di esperienza. Non so se per influenza del romanzo precedente, in cui il protagonista, Doni appunto, era vicino alla pensione, ma il Colnaghi che si era fatto largo nella mia mente era un personaggio di ben maggiore maturità dei suoi quarantanni. Insomma tu lo immagini mio coetaneo e io invece lo facevo più vecchio, più navigato, vi ho visto una compostezza e un vissuto che non riconosco nei miei coetanei di oggi. Mi chiedevo se era voluto questo stridore tra generazioni o se invece sono io da lettrice che vi ho letto qualcosa che non c’è.

Morte di un uomo felice

Credo che non ci sia nulla di “voluto” (soprattutto in termini di stridore generazionale) nella scelta di un personaggio molto più avanti con gli anni di me, come Roberto Doni, o di un personaggio comunque più maturo e in ogni caso lontano da me, quale Giacomo Colnaghi. Ti confesso che mi è sempre molto difficile rispondere a domande riguardanti il perché di una scelta letteraria o dell’età di un personaggio (o anche solo del perché una storia invece di un’altra): banalmente, credo non ci sia una risposta. Quando lavoro a una storia non penso ad altro se non alla storia stessa; poi è inevitabile che ci finiscano dentro, inconsciamente, alcuni elementi cui tengo o anche solo delle coincidenze come la questione del 1981. Ma, in tutta onestà, non saprei. Se un personaggio bussa con insistenza alla mia porta lo accolgo, che abbia vent’anni (come i protagonisti del mio primo romanzo) o sessantacinque. So che può sembrare un po’ deludente, ma è davvero così!

Non è deludente, Giorgio, tutt’altro. Come lettrice sarà per me sempre oscuro il miracolo della scrittura di un personaggio, soprattutto ricco e complesso come i tuoi.

Di Colnaghi ho amato in particolare il desiderio così umano e personale di capire le ragioni dei terroristi. Lo stesso che immagino abbia guidato anche la tua scrittura. Il dialogo tra il magistrato e il capo della cellula terroristica è un momento centrale del tuo racconto. Perché credi che sia importante ancora oggi indagare e analizzare cosa ha mosso alla violenza tanti giovani di ieri? È ancora importante capirne le ragioni? E Giorgio Fontana da cosa è stato mosso ad affrontare questa pagina tuttora così incerta e dibattuta della nostra storia?

Comincio rispondendo all’ultima domanda: sono stato mosso unicamente dalla volontà di seguire il mio personaggio, Giacomo Colnaghi. Prima di iniziare a scrivere questo romanzo avevo una conoscenza abbastanza superficiale di quel periodo, e non ne sono mai stato ossessionato. Ancora una volta, le ragioni di tutto sono puramente narrative – ci tengo sempre a sottolinearlo, perché è davvero questo e questo soltanto il mio metodo di lavoro. Quindi, per rispondere alle altre domande: è senz’altro importantissimo analizzare e studiare quel periodo in modo laico e attento, cercando di ricostruirlo in tutta la sua complessità; anche per evitare di commettere quegli errori così tragici. Credo però che sia il compito degli storici, non dei romanzieri. Come ti dicevo, dal lato mio ho fatto di tutto per evitare di disegnare figurine, o appiattire i personaggi in una dimensione bidimensionale – ascoltando appunto anche le ragioni di chi colpì, per quanto aberranti possano essere. Forse è solo così che possiamo svolgere la matassa di quegli anni. (Ancora una volta mi sembra di avere dato una risposta un po’ riduttiva, ma come amo dire spesso: io sono soltanto uno scrittore).

 

... un grande scrittore, che sa dare risposte chiare perché consapevole della sua scrittura. Forse questo è uno dei pregi che più mi ha colpito sin dalla prima pagina letta. Consapevolezza e maturità, che il lettore scorge e apprezza.

Morte di un uomo felice” (Sellerio, 2014) sembra condividere con “Per legge superiore” (Sellerio, 2011) un grande tema, quello della Giustizia. Ma se nel precedente romanzo l’interesse era volto a una giustizia “umana”, quasi burocratica, pur vissuta in maniera intima e personale, conflittuale quasi da Doni, in questo nuovo è declinata maggiormente sullo spigolo della “vendetta”, sul senso che la vendetta può assumere per le vittime e in un certo senso anche sul senso che la “vendetta” ha potuto avere per i terroristi. Un tema difficile, che tu, a mio avviso, tratti emotivamente da scrittore ma anche problematicamente da pensatore.

Quanto c’è dei tuoi studi filosofici nella tua narrativa? C’è un intellettuale, un pensatore-scrittore, come io definisco la categoria, di cui ti senti figlio?

Per legge superioreGià, i miei studi filosofici. Questo è un problema, perché da un lato senz’altro influiscono molto sul modo in cui tratto certo materiale narrativo – ma dall’altro devo sempre stare attento che non travalichino la storia vera e propria. In altri termini: non sacrificare mai la narrazione rispetto alla riflessione (altrimenti scriverei un saggio). Dicevo che è un problema perché a volte sento di scivolare verso l’astratto, o di non essere in grado di bilanciare come vorrei questi due aspetti. E’ una cosa su cui devo lavorare: benché sia parte del mio stile e del mio approccio alle storie, può anche essere controproducente. Dopotutto, a costo di ripetermi, l’importante in un romanzo non è l’universale – è l’individuale, l’esistenziale.

Quanto alla seconda domanda: ci sono diversi intellettuali cui mi ispiro per il mio lavoro di non-fiction (articoli, saggi, eccetera): specie quelli della grande area libertaria, come Camus, Chiaromonte, Caffi, Carlo Rosselli, Berneri eccetera. Ma ancora una volta, cerco di distinguere questo lato del mio lavoro da quello narrativo – per cui i miei innamoramenti sono Kafka, Dagerman, Joseph Roth, DeLillo eccetera.

Sai, Giorgio, da lettrice cosa mi sembra eminentemente “filosofico” nella tua narrativa? Il tono disteso e meditato della scrittura, che mi ha affascinata e incantata da subito. Non cerchi la suspence, non (at)tiri il lettore nelle pagine con l’adrenalina delle scene, ma lo accompagni con calma e attenzione nelle pieghe dei personaggi e nei grovigli emotivi delle storie. Il lettore vede, ascolta, sente come doveva avvenire agli allievi di Socrate tra le strade di Atene o a quelli di Aristotele nel Peripato.

Nelle mie orecchie rimbomba ancora il grido di stizza di Colnaghi: – Voi non siete i partigiani!-

Disegni un triangolo nel tuo romanzo: Colnaghi e il suo senso di giustizia, il terrorismo e la Resistenza. Lo intrecci e lo recidi in quel grido di rabbia che sancisce l’impossibilità personale di Colnaghi di poter comprendere chi crede di continuare il progetto resistenziale con la violenza e la vendetta.

Da cosa nasce questo punto fondamentale della tua storia?

Be’, è uno dei nodi del libro: Colnaghi per tutto il romanzo si tormenta perché vede espropriata la memoria paterna, ma non può parlarne con il padre stesso – non sa nemmeno cosa il padre avrebbe pensato di lui. Alla fine la questione, che diciamo così è tenuta in sordina fino quasi al termine del libro, viene alla luce nel dialogo fra il magistrato e il giovane brigatista – un dialogo volutamente aporetico, dove l’esposizione delle ragioni reciproche non porta da nessuna parte. Ma quando Colnaghi sente nominare i partigiani, esplode: ed è l’unico momento del libro in cui esplode.

 

Il padre, Ernesto, una figura carica, ricca, bellissima. “Morte di un uomo felice” è anche un romanzo sul senso profondo della paternità. In proposito scrivi delle pagine piene e dense, in tutta la complessità del tema.

Giacomo Colnaghi è un personaggio fittizio, ma ricalca le figure di Emilio Alessandrini e Guido Galli, entrambi citati nel romanzo a più riprese. La morte di Galli rappresenta anzi un momento in cui Colnaghi ci appare in tutta la sua umanità, fragile e dolorosa, ma anche profondamente lucida.

Quali sono i modelli, invece, per la figura di Ernesto? Padre e partigiano, che risalta nelle tue pagine con straordinaria vivezza.

Grazie della disponibilità, Giorgio, immagino che sia un periodo intenso per te. Dopo questa, un’ultima domanda e poi ti lascio andare!

Dunque: per quanto riguarda Ernesto Colnaghi mi sono basato sulle testimonianze raccolte nei volumi che cito nella bibliografia in fondo al romanzo, e un po’ su certi aneddoti di mio nonno, che fu partigiano bianco a Garbagnate in quegli anni. (Una cosa che gli capitò è riportata pari pari nel romanzo, fra l’altro). Ma per il resto ho lasciato libero sfogo all’immaginazione. Diciamo che non ci sono modelli o figure particolari.

 

Li lascerai andare via Doni e Colnaghi, oppure permarranno in qualche modo nella tua produzione? Sappiamo che la letteratura ha il dono di superare la morte. Inoltre Colnaghi ha un figlio, che potrebbe mettersi sulle tracce del padre, come Giacomo ha fatto con Ernesto.

La morte, un altro dei temi forti del tuo romanzo, sin dal titolo, perfetto con quell’apertura su un termine negativo (morte) e la chiusa in positivo (felice) con al centro l’uomo, con tutto il suo carico di positività e negatività. L’uomo del titolo è Colnaghi, il protagonista? o non solo lui? In che senso è felice, nella morte o nella vita?

Allora: lascerò sicuramente andare Doni e Colnaghi. Il dittico sulla giustizia si chiude qui, quel che avevo da dire su di loro l’ho detto, non ci saranno altri romanzi al riguardo. Anzi, credo che il prossimo libro parlerà di tutt’altro.

Quanto alla felicità, il titolo contiene un elemento ambiguo: l’uomo felice può essere sia Giacomo che Ernesto; e per me sono entrambi – così diversi e così simili. Nel dettaglio, la felicità di cui parlo ha volutamente un tono minore. E’ fatta di cose apparentemente di poco conto, e posso capire che Colnaghi non sembri un uomo “felice” come a volte ci immaginiamo questo stato. E tuttavia è un aggettivo che rivendico.

 

Grazie, Giorgio, grazie davvero! Sei stato generoso ed eccezionale.

Ti auguro ogni, grande, successo perché hai talento, cultura, generosità e consapevolezza.

Chiacchierando con … Giorgio Fontana