I Middlestein

Forse nulla più del cibo è metafora che meglio illustra i nostri tempi moderni, con i suoi eccessi e contraddizioni, esagerazioni e diseguaglianze. Chi ne ha troppo e chi non ne ha. Chi muore per essersi ingozzato e chi al contrario per fame.

Dinnanzi al cibo, più che a ogni altro oggetto di culto del nostro presente, scattano feticismi e sensi di colpa, in un’oscillazione tra estremi opposti tipici della nostra epoca.

Jami Attenberg in I Middlestein (Traduzione di Rosanella Volponi, Giuntina, 2014) si serve dell’ossessione per il cibo, declinata nell’obesità patologica di Edie ma anche nella maniacalità di Rachelle e nell’alcoolismo alternativo di Robin, per illustrare le complicate e complesse dinamiche che si istaurano tra i membri di un’agiata famiglia ebrea della provincia americana.

Il pensiero corre spedito e immediato a Franzen, che ha osannato il romanzo e la maestria della scrittrice. Se Franzen con Le correzioni conquistava il lettore con il cinismo del suo sguardo e la claustrofobia in cui stringeva i rapporti familiari, Jami Attenberg invece usa l’arma, raffinata e seducente, dell’ironia. Rispetto alle Correzioni, in I Middlestein si respira un’aria più fresca, più positiva, più ottimistica. Attenberg non giudica i suoi personaggi, ma si immedesima in ciascuno di loro. Non prende le distanze, ma si cala nei panni di ciascuno. Con Franzen, Attenberg condivide l’abilità di scrivere un romanzo coinvolgente, da leggere tutto d’un fiato, innovando ma senza stravolgere la struttura del romanzo tradizionale.

Su tutti i membri della famiglia giganteggia Edie, (come poteva essere diversamente vista la sua stazza?), e da lei prendono vigore e forza le altre donne che ruotano intorno, mentre gli uomini, dal marito Richard al figlio Benny al nipote Josh, non possono che essere nascosti dalla sua mole, incerti e inconsapevoli.

Divario e unione del tessuto familiare il cibo, che diventa il tema nevralgico e il campo di forza in cui dimostrare attenzione e affetto, all’altro e a se stesso.

Edie notò che a Robin era rimasta solo una fila di biscotti da mangiare e avrebbe voluto averne da tre a cinque sul tavolo davanti a lei.

Senti, ma non ti disgusta?” disse Robin

Cosa mi dovrebbe disgustare?”.

Non sei disgustata da questo?” disse Robin e agitò le mani davanti al suo corpo.

Edie la fissava con uno sguardo assente.

Non ti disgusta essere grassa? Dai, mamma, tu ed io. Siamo grasse.”

Non mi piace quella parola” sussurrò Edie.

Se da questo confronto con la madre Robin smetterà di ingozzarsi di cibo, per passare all’alcool, Edie rimarrà fino alla fine, pervicacemente, nel suo insano desiderio di cibo. Fino a scoppiarne. Letteralmente, quasi.

Nel rapporto di Edie con il cibo, Jami Attenberg traccia una parabola, anzi un cerchio. Edie da bambina mangia per eccesso d’affetto. I suoi genitori, emigrati dall’Ucraina e sulla soglia della povertà, dopo aver patito la fame, non possono che dimostrarle il loro amore incondizionato offrendole del cibo, nonostante la bimba sia grassa per la sua età. Al cibo Edie tornerà da moglie e madre, per un vuoto incolmabile, un buco nero che si apre a voragine dentro di lei e che la spinge ad ingozzarsi, in solitudine, di tutto ciò che le capita. Ma dopo la separazione da Richard, l’uomo che ha sposato forse con una certa superficialità, in un momento difficile della propria vita, rimasta orfana, si abbandonerà al cibo nuovamente con amore e per amore.

Se Richard capirà in negativo l’ossessione della moglie per il cibo, è la nipote Emily l’unica ad aver chiara percezione che non c’è nessuna speranza che la nonna si metta a dieta come esigono i medici e come tutti i familiari, capeggiati dalla volitiva ed esasperante Rachelle, moglie di Ben, il primogenito di Edie, si sono imposti di farle accettare. Il cibo, attraverso Kenneth, ritorna ad essere per Edie irrinunciabile pegno di amore.

Jami Attenberg non sceglie un’ottica per raccontare la sua storia, ma intreccia i diversi punti di vista, sia interni al nucleo familiare che esterno ad essi, cedendo la parola verso la fine del romanzo agli amici di vecchia data della coppia Richard ed Edie. In questo mi ricorda la Egan di Il tempo è un bastardo. Anche se nel premio Pulizer la rottura con la narrazione tradizionale era di assoluta originalità, mentre Attenberg rimane in un solco di maggiore aderenza al dettato tradizionale.

Pur nella molteplicità dei punti di vista con cui viene narrata la storia, Edie rimane il baricentro della narrazione, sulla quale convergono gli sguardi di ognuno. In questo scorgo delle somiglianze con Olive Kitteridge di Strout. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a figure femminili complesse, dai tratti contraddittori, verso le quali il lettore non può che provare un miscuglio umanissimo di antipatia e amore. A lettura terminata, le due donne entrano con prepotenza nel cuore, per assurgere a modelli di sensazioni e sentimenti.

Ancora una volta, come già Franzen, Egan e Strout, anche Attenberg nel raccontare l’America che vede intorno a sé, riesce a descrivere dati esistenziali che travalicano i limiti geografici in cui la storia e i personaggi sono calati. Lo fa con lucidità ma senza la spietatezza dei precedenti, anzi con empatia e compassione, come certi dipinti fiamminghi in cui gli scenari domestici assurgono a dimensione ontologica e universale dell’umano.

I Middlestein