Ho incontrato Francesca Serafini nel Paese dei balocchi (in questo modo chiarisco subito, con un certo rammarico, che i nostri incontri sono solo virtuali e non ancora reali). Galeotto, come sempre succede per gli incontri più interessanti, è stato un libro: Tuttissanti di Teresa Ciabatti (Il Saggiatore, 2013). Francesca Serafini, con l’attenzione che solo una linguista di razza, come lei è, poteva dimostrare, mi cita nella sua coltissima lettura del romanzo apparsa su Minima&Moralia.

Questo è il punto

Avevo già avuto modo di conoscere Francesca Serafini nella sua veste di eclettica studiosa, con Questo è il punto (Laterza, 2012) e con curiosità, mediata anche dall’onore ricevuto della citazione, mi sono addentrata nel suo nuovo lavoro Di calcio non si parla (Bompiani, 2014) rimanendo definitivamente sedotta non solo dalla scrittura raffinata, ma dal sapere enciclopedico ed eterogeneo, mai scontato e su più e diversi registri, sapientemente mescolati. (QUI la mia recensione al libro)

Di calcio non si parla

Ammetto subito, cara Francesca, che sono una di quelle per le quali c’è una grande differenza, quasi un’inconciliabilità, tra la Veronica di Pontormo e quella di Zidane (di cui ignoravo l’esistenza prima di leggere il tuo libro). Nello stesso tempo sono una che ascolta e apprezza i discorsi pieni di passione e di senso, come è quello che tu tracci in Di calcio non si parla. Immaginavi di conquistare con le tue pagine sul calcio anche chi come me del calcio potrebbe fare tranquillamente a meno?

Più che altro ci speravo. E uno dei sottintesi del titolo è proprio rivolto a loro (a voi, a questo punto…). D’altra parte vengo da una scuola – quella di Luca Serianni – che scherza sul fatto che “la forma non è tutto ma un buon 95%”. Come lettrice, pur essendoci molti argomenti che mi interessano, poi a interessarmi di più è proprio il modo in cui viene trattato qualunque argomento: anche uno che sulla carta mi è lontano. Lo sguardo e la lingua scelti per affrontarlo: sono questi per me gli elementi che contano e che possono rendere appassionante qualunque cosa. Nella scrittura cerco solo un’altra declinazione di questo punto di vista. E scrivendo di calcio (che però è un amore autentico) e di punteggiatura ho provato a fare questo: a trovare una forma mia per sviluppare questi temi, mettendoli insieme ad altre mie passioni, come la letteratura, il cinema, la tv.

Per chi condivide la passione per il tifo l’immedesimazione è quasi scontata, al di là della maglia, perché con Di calcio non si parlatu attingi all’universalità del tifo, tingendo solo parzialmente le tue parole dell’amore specifico per la tua squadra. Ti sorprende trovare tra i più entusiasti, lettori come me, asportivi fin nel midollo?

La sorpresa – sempre – è trovare qualcuno che si appassioni alle cose che scrivo; di qualunque tipo. Appena un libro esce, mi muovo in quel terreno dissestato in cui la sensazione di aver fatto qualcosa di buono e quella opposta di aver fallito nell’obiettivo si alternano continuamente, senza possibilità di un equilibrio intermedio. E questo almeno fino al giorno in cui arriva qualcuno come te, adesso, a tracciare un sentiero per cominciare a muovermi senza la paura di inciampare.

Cosa ha spinto una linguista affermata come te a scrivere dopo Questo è il punto una narrazione sul calcio, in cui metti in campo te stessa con il tuo tifo, al netto di incomprensioni come la gita scolastica con le cuffiette nelle orecchie o la figura alla cena con i colleghi di tuo marito?

Per certi versi mi verrebbe da capovolgere la domanda. Nel senso che per me l’eccezione è rappresentata da Questo è il punto. Sono laureata in Storia della Lingua Italiana e ho pubblicato diversi studi in materia, ma considero come mia attività principale quella di raccontare storie (per la tv, soprattutto, ma non solo). Tant’è che anche il libro sulla punteggiatura si apre con una piccola narrazione. È una parte della mia scrittura, quella narrativa, che sta prendendo il sopravvento, con tutti i rischi che comporta, come in Di calcio non si parla, dove in effetti ho esposto lati di me o della mia famiglia e non ho ancora capito bene con quali risultati. L’idea era quella di raccontare esperienze che mi sembravano funzionali al discorso, qualcosa che mi sembrava il caso di condividere con i lettori, nonostante la responsabilità e la fatica che comportava. Penso infatti, con Yates, che “ci vuole più coraggio a camminare nudi”.

Ci vuole più coraggio a camminare nudi. Però, Francesca, scrivere una narrazione (perché una delle meraviglie per me del tuo libro è che non può essere incapsulato in nessuna definizione di genere, includendole tutte e sfuggendo a ognuna) come la tua non è un po’ come camminare nudi? Forse l’immedesimazione di cui ti parlavo, con lettori come me, scatta proprio da questo coraggio che io ho riconosciuto nelle tue pagine di “camminare nuda”. Denudare la tua passione calcistica, ma anche il lessico famigliare, i rapporti all’interno del nucleo familiare, la linguista e la sceneggiatrice, perché in “Di calcio non si parla” convergono tutte queste linee con ricchezza ed esuberanza in un equilibrio che è perfezione e felicità del raccontare.

Citavo Yates proprio per ricordare qualcuno che ha conosciuto il costo di quel mettersi a nudo e poteva parlarne con cognizione di causa. Spesso la componente autobiografica dei testi – che c’è sempre, anche quando non raggiunge il proscenio come nel mio caso ma ne costituisce solo il presupposto – può essere considerata esibizionismo, supremo gesto ombelicale, privo di generosità. Che era il terrore che avevo scrivendo. Per questo, appena finito il primo capitolo, l’ho fatto leggere a Giordano Meacci, che oltre a essere un grande scrittore è un lettore raffinatissimo: in assoluto quello di cui mi fido di più. Gli ho chiesto di sorvegliare quel lato della scrittura: di proteggermi da quel rischio. Lui mi ha incoraggiata ad andare avanti per quella strada. E poi mi ha consigliato di far leggere le mie pagine a Elisabetta Sgarbi, con cui avevo collaborato per alcuni editing. Sapeva che era l’interlocutore giusto per comprendere il senso di quella prosa, anche se, proprio in virtù della stima che ho nei suoi confronti, il giudizio di Elisabetta mi terrorizzava. È stato, evidentemente, un buon consiglio. E tutti in Bompiani – da Oliviero Toscani che ne ha seguito l’editing, a Isabella D’Amico dell’ufficio stampa; a Eugenio Lio che ascolterei parlare per ore e non solo del mio libro, certo – mi hanno fatto sentire parte di qualcosa più grande del piccolo universo che stavo raccontando.

Non credo sia facile essere un’equilibrista, come tu dimostri nel libro, tra le tue diverse esperienze. Quali di esse, la scrittrice la sceneggiatrice la linguista, è indispensabile collante per le altre e senza la quale Di calcio non si parla non avrebbe potuto essere quello che è?

Credo che il comun denominatore di tutte queste parti di me sia la passione. Una passione inizialmente per la lettura e a cui molto presto si è accompagnata quella per la scrittura (in varie declinazioni). Prima di tutto resto una grande lettrice (e una spettatrice piuttosto famelica). Per questo mi fa strano, ora, rispondere a un’intervista sulla mia scrittura. Mi ricorda di quando, negli anni dell’università, invitavamo i grandi scrittori (da Bufalino a Pontiggia, da Veronesi a Mari) perché le domande potessi fargliele io. Ho avuto degli incontri fortunati nella mia vita, da cui ho imparato moltissimo.

Una piccola curiosità: Luca Serianni firma la prefazione a Questo è il punto; quando gli hai parlato per la prima volta di Di calcio non si parla? Quale il suo commento?

La prima volta gliene ho parlato il giorno in cui eravamo ospiti di Concita De Gregorio a Pane quotidiano proprio per Questo è il punto, ed era contento.Poi gliene ho scritto a ridosso dell’uscita. Lui mi ha risposto che proprio non riusciva a infiammarsi sull’argomento, nonostante la considerazione per la mia scrittura. E allora io ho cercato di attirare la sua attenzione sul lavoro che avevo fatto sulla sintassi e – facendo riferimento a quella sua frase-manifesto sulla forma già citata – gli ho scritto (testualmente): “Ma gli argomenti — i contenuti — che vuoi che contino, Luca? Giusto quel 5% inevitabile…” Non so se per troncarla lì, ma ha replicato lapidario: “Touché”.

Ci sono delle chiacchierate che vorresti interminabili, perché non se ne ha mai abbastanza. Soprattutto la leggerezza dei toni unita alla profondità e lucidità delle suggestioni rendono il cocktail perfetto. Ma arriva sempre il momento delle ultime domande. Una è scontata dalle tue risposte: quali sono stati i tuoi incontri più fortunati e quali i tuoi maestri, quelli importanti che fanno scattare una molla, dopo la quale nulla è come prima?

Ho avuto la fortuna di avere diversi incontri speciali, da ognuno dei quali ho imparato molto sulla scrittura e sulla vita. Se devo indicarne uno, però, che stabilisca come mi chiedi un prima e un dopo, allora è quello con Simona Di Bucci, mia insegnante di lettere al liceo. Una delle persone più colte che abbia mai incontrato. Una lettrice straordinaria e appassionata, e una grande affabulatrice. Più di una volta è successo che i libri erano più belli raccontati da lei che letti. Il sabato era il suo giorno libero e allora io, quando potevo, saltavo la scuola per andare a casa sua, per la gioia del marito (Gianni Sega, insigne professore di greco e di latino). Una specie di perversione, lo so (in genere con saltare la scuola s’intende altro…), però in questo modo facevo incetta di libri per il finesettimana e poi, finché non trovava il modo di mettermi alla porta, restavo a farmeli raccontare da lei.

Una seconda vuole continuare sul tono distensivo e confidenziale della chiacchierata: cosa ti ha regalato la pubblicazione di Di calcio non si parla? Quale il lettore che ha incontrato il tuo libro e che ti ha maggiormente sorpreso? La cosa più bella e inattesa che è stata detta sulla tua scrittura e sul libro? E infine il lettore che non hai ancora conquistato o che vorresti che leggesse il tuo libro?

A questa domanda, per quanto ramificata, viene facile rispondere. Qualche tempo fa ho incontrato Catia Augelli, responsabile stampa dell’AS Roma, per portarle il libro. Lei è stata gentile e generosa, e ha voluto che dedicassi la sua copia a Walter Sabatini, direttore sportivo della squadra e lettore accanito quanto fumatore. Qualche giorno dopo, con la sua voce plasmata dalle sigarette e il suo meraviglioso accento umbro, Sabatini mi ha chiamata, esordendo nella telefonata in un modo che non potrò dimenticare più (è un giro di frase talmente bello che corro il rischio dell’ostentazione). Mi ha detto: “se i nostri giocatori usassero sempre i piedi come tu la lingua italiana, vinceremmo quattro scudetti consecutivi”. Mi piacerebbe che questo parallelo esageratamente lusinghiero diventasse un auspicio. Per quattro scudetti consecutivi della Roma sarei pronta a barattare, per il prossimo libro, una telefonata in cui mi chieda di elevare il mio stile all’altezza dei nostri giocatori.

Non è vero che un libro una volta pubblicato segue la sua strada, come diceva Marziale, ma oggi va accompagnato nel suo percorso, nel suo incontro con i lettori, gli vanno persino indicate delle strade e in certi casi lo scrittore si deve trasformare in guida. Una tortura o una meraviglia?

L’incontro con i lettori, fin qui, è stato per me uno degli aspetti più belli ed emozionanti di questa avventura. Il motivo per cui mi pare che valga davvero la pena scrivere, nonostante le tribolazioni che comporta. C’è solo un elemento – inevitabile quanto spiazzante – e cioè il fatto che un libro esce almeno un paio di mesi dopo che il suo autore l’ha licenziato. Quando esce, dunque, fa già parte del suo passato e lui/lei è già con la testa da un’altra parte, dietro a una storia tutta nuova. Scrittore e lettore, per forza di cose, sono condannati a viaggiare fuori sincro. Poi, però, ci sono circostanze, come questa nostra, ora, in cui ci s’incontra insieme: e allora il piacere si moltiplica.

Non potendo con le parole stare dietro all’emozione enfatica di questo incontro, mi viene solo da dire: Questo è il punto!

Chiacchierando con… Francesca Serafini
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