Se mi posso permettere un’espressione infantile, Valeria Parrella è la mia scrittrice del cuore, come da bambina incoronai la mia amica del cuore e ancora la tengo là, forte e stretta, nonostante non abbiamo più confidenza e dimistichezza. Perché i posti del cuore sono a vita, succeda quel che succeda!

La incontro sul pontile dove ha lasciato la protagonista di Tempo di imparare (Einaudi, 2014) a disegnare con il dito la scuola del figlio, Arturo.

A metà pontile ero nel mare. Avevo solo cielo e mare e gabbiani attorno a me. E un jogger ogni tanto. Era metà mattina a metà marzo e c’erano forse venti gradi. Io camminavo sul mare. E quando sono arrivata in fondo, tanti studenti che non erano andati a scuola stavano a baciarsi, a due a due, con gli zaini ammucchiati sotto la balaustra. Un fotografo seduto al cavalletto aspettava che il gabbiano passasse nel suo obiettivo. E il vento: allora mi sono girata verso terra.

E io stavo nel mare e l’orizzonte era la terra.

Verso sinistra, laggiù, lungo la linea del nuovo orizzonte che si tracciava c’era la tua scuola, figlio. Sorgeva gialla come il sole. Tu, dentro una di quelle finestre, impegnato nella tua vita. Allora ho steso il braccio, l’indice. Ho chiuso un occhio per guardar meglio, ho accarezzato le mura gialle con il dito: e tutta quella distanza non c’era più.

Non c’è posto più indicato per chiacchierare di Tempo di imparare che in mezzo al mare, avendo la terra come orizzonte.

Emergo dalla lettura di “Tempo di imparare”. Un’immersione subacquea (la metafora marina non è scelta a caso) in cui la fatica che consta scendere in profdità, lottando con la forza della corrente che ti spinge a galla, viene ricompensata dalla bellezza del onmare di parole più belle che si incontrano sul fondo. Nel silenzio elettrico dei fondali della lingua in cui spingi, a tratti con violenza, il lettore si guadagna l’intimità con il mare, ultimo e necessario approdo a un dolore liquido come quello che alimenta il romanzo. 
Mi sono sentita nuda (per rubare un’altra meravigliosa immagine del libro) per rivestirmi direttamente a contatto con la pelle delle emozioni e dei sentimenti, che strasbordano dalle tue pagine.
Qual è il tuo rapporto con il lettore? Approfondisco meglio la domanda. È consapevole questa osmosi che tu riesci a creare tra le parole che scrivi e chi le legge, oppure non è previsto, non può essere previsto, il lettore mentre scrivi perché per essere vera, come tu sempre riesci, bisogna essere soli?

è lontana ora, prende conchiglie e sassi colorati che altrimenti andrebbero perduti.

Il mio rapporto con il lettore sono io quando leggo i libri degli altri. Cioè non immagino mai un altro che legge: tu per esempio. Per me sei opaca: so che qualcuno leggerà il mio libro ma non saprò mai chi è. Perché io in realtà non scrivo per gli altri, bensì scrivo per me. Poi questa forma iniziale si è nutrita della consapevolezza che se scrivo un libro qualcuno lo pubblica e quindi qualcuno lo legge. E capita che io legga dei commenti o incontri dei lettori, così cade quella che in teatro si chiama la “quarta parete”. Ma è un percorso che avviene solo a libro bello e finito, mentre io chessò sto scrivendo già un’altra cosa che resta celata in me.

Non so se mi sono spiegata.

Però io come lettrice mi conosco: so cosa mi piacerebbe leggere. Riesco in questo modo a leggere il mio libro “da fuori” cioè: scrivo quello che mi va nel modo in cui mi va. Poi rileggo. E quando rileggo mi chiedo se si capisce quello che ho scritto con un’altra parte di me, più antica ancora della scrittrice, che è la lettrice.

Allora se mi innamoro vuol dire che ho scritto bene, se mi vergogno vuol dire che ho scritto male.

Scissione – dicotomia – parallelismi – voilà

Ti sei spiegata benissimo.

La lettrice innata che è in te è il tuo primo, o unico, editor? Quando leggo i tuoi libri in cui la tua voce è così chiara e lampante, mi chiedo sempre quale lavoro di editing ci può essere dietro. Lo spazio bianco (Einaudi, 2008)Lettera di dimissioni (Einaudi 2011), e per ultimo Tempo di Imparare sono perfettamente e strettamente collegati nella voce, nei toni, persino in una certa cadenza che io ritrovo nelle tue pagine. Mi sembra che tu lavori molto sulla parola, la ceselli, la perfezioni, la squadri e che nulla sia lì per caso, ma tutto in un disegno narrativo che parte proprio dalla scelta della singola parola. E allora mi chiedo: cosa può dirti un editor? e la tua parte di scrittrice quale sostegno ne trae?

Da tempo hai una rubrica su Grazia in cui ti occupi di libri altrui? Si impara a scrivere occupandosi di altri romanzi, oppure in te le due esperienze sono scisse?

No, un editor esiste. In Einaudi si chiama Paola Gallo. Però è un’editor timida. È la terza persona che legge i miei libri dopo il mio compagno che però dice solo “è bellissimo, è bellissimo, è il tuo migliore” ogni volta, e la mia ex compagna di liceo Alessandra Infante che invece mi fa proprio gli appunti a penna. Lei è fondamentale perché veniamo tutte e due dal sud così sente delle cose che a Torino invece non afferrano. La mia editor è molto rispettosa, nota delle cose e me le propone – alternative, stonature, correzioni – ma poi non dà veramente di zappa. Cioè io sono più feroce di lei, a volte la rimprovero. Chessò immagina in una quarta/quinta rilettura trovo che quella frase che mi stonava non la reggo più, allora le dico “ma perché me l’hai fatta passare?” e lei mi dice che l’aveva notata ma pensava fosse una scelta…
Però è anche vero che lei ha preso per i capelli certi miei testi. Questo libro per esempio l’ho cominciato a scrivere tre o quattro anni fa. Poi ne ho parlato con lei a Stoccolma una volta davanti all’Accademia di Svezia (per buon augurio!) e ho capito che non sarebbe arrivato da nessuna parte così come l’avevo immaginato. Tempo dopo ho trovato la forma in cui lo leggete ora e la ricerca è cominciata per me a quel tavolino. Nel frattempo ho anche scritto Antigone (Einaudi, 2012).
Infine esiste un’ulteriore forma di editing che sono i bravi critici letterari quando ti stroncano. Sul momento mi incazzo, piango anche. Poi anni dopo scopro che avevano ragione e faccio tesoro delle loro critiche. Non tutti, eh? ma quelli bravi sì: servono più agli scrittori che ai lettori.

Quanto è difficile per me selezionare e concentrare le domande che avrei da farti!

Antigone e Tempo di imparare come scritture sovrapposte. Viene dal testo teatrale la rivisitazione dei miti che tu introduci nel romanzo? Ho trovato di grandissimo impatto emotivo l’uso che tu fai delle fatiche di Ercole ed essendo più vicina a comprendere la fatica della tua protagonista che quelle dell’eroe greco, mi sono rimbalzate addosso come mai prima d’ora in tanti anni di studi classici e filologici. Come l’accenno a Prometeo nel capitolo Pioggia.

Oppure i miti sono da sempre parte di te, traduzione del mondo emotivo e sentimentale dei tuoi personaggi?

Mi ha colpito che l’unico che riesca a dare alla madre una speranza per il futuro del figlio sia Noam Chomsky, mentre con i dottori e i terapisti e i logopedisti c’è sempre una sorda distanza, una violenza atavica e ancestrale.

Mi sta seduto affianco con gli occhiali quadrati e guarda quella stessa libreria che fisso da una ventina di anni. I libri di linguistica stanno tutti avanti, ma lui è in una piccola edizione Universale Laterza tra Hjelmslev e Vygotskij, polveroso e un poco verso l’interno. Cerco di distrarlo:

– Noam, cosa c’è al fondo della nostra piscina di Babele?

– Guarda, – e indica il fondo del bicchiere. Dentro è come Atlantide, teorie di strade, scale e torri, ponti e terrapieni, costruzioni magnifiche e rovine.

– Nella profondità della nostra solitudine affollata, nella profondità del bicchiere lì dove anche Arturo si va a immergere, lì in fondo ci sono le strutture della sua lingua, quelle parti della grammatica che d’un tratto, evocate, salgono in superficie e diventano parola detta, frase, verbo -. Allora faccio per bere, ma lui mi ferma. – Non ti fa schifo? Ci ho già bevuto io…

Linguistica e mito come formula, più e oltre della medicina, per accedere all’intimità con il mare?

Il mare: Arturo come L’isola di Arturo e Ariel, corrispettivo maschile della sirenetta?

He he.
Ariel è lo spirito della Tempesta di Shakespeare. Forse la Disney l’ha preso da lì, ma insomma viene dall’Inghilterra  del ‘600, è un nome maschile. Però anche La tempesta si ambientava su un’isola. Miranda del capitolo “Dialogo con Miranda” è un altro personaggio della stessa tragedia.
Arturo, sì, per L’isola di Arturo.


Chomsky te lo allego qui: all’Auditorium di Roma mentre gli consegno il mio libro. Si fa un sacco di risate perché all’inizio non capendo l’italiano pensava che fosse un libro di saggistica, poi quando gli ho detto che era fiction e lui proprio un personaggio è stato molto più contento!
Io sono laureata in lettere classiche, a diciotto anni leggevo il greco antico come l’italiano, anzi meglio: perché lo leggevo in metrica, e la metrica quantitativa è meglio della nostra. Quel greco mi raccontava storie, ma era un tutt’uno quello che diceva e come lo diceva. L’Odissea è un canto, come quello che intonano le sirene.
Quando cresci così come fai poi a fare la differenza? Sono fatta di quella roba lì, per me è normale trovare Antigone in Beppino Englaro o le fatiche di Ercole nello sforzo titanico che viene chiesto dalla vita alla madre di Arturo.

È curiosa la cura che hai messo nella scelta dei nomi, potrei continuare con Cassandra e Ifigenia, tanto per rimanere in ambito mitologico, e l’assenza di nome per la tua protagonista. Si è tentati di chiamarla Maria! Perché questa scelta potente di non denominarla?

Ho pensato che io è universale. E poi c’è il gioco con Arturo che non dice mai io. E così si invertono le posizioni. E invertire le posizioni è il primo passo per superare le distanze.
Si può mettere sempre un nome, è facile. Es: Ariel invece di dire “ciao” dice “ciao, Giuditta”.
Ma è necessario? per farne che? sono ossessionata dalla necessità. Per me è bello solo ciò che è necessario (anche un fronzolo può essere necessario).

Rimbambita dalla Disney non avevo pensato a Shakespeare! Mi tocca rileggere La tempesta. Ma io non sono brava con le citazioni e i riferimenti. Un mio grande limite come lettrice.

Infatti nelle pagine di Tempo di imparare c’è qualcosa che orecchio, ma che mi sfugge. Una musicalità sottesa in certe inversioni di parole, in alcune preziosità lessicali, in quel vocativo “figlio” che si rincorre nelle pagine e fa tanto Iacopone da Todi, o il logogrifo di Ariosto.

E a mano a mano che gli altri arrivavano a godere della pioggia, si sedevano con noi tutto d’intorno, con grande rispetto mirando

Vaneggio o c’è una fitta rete, nascosta e preziosa, di riferimenti letterari nelle tue pagine?

Di riferimento in riferimento: Giuseppe Pontiggia. Con Concita de Gregorio, a Pane Quotidiano, lo hai citato come “antesignano” della letteratura sulla disabilità (termine che tu usi proprio perché presente in Nati due volte). In che rapporto sta Tempo di imparare con Nati due volte? In che rapporto Valeria Parrella con Giuseppe Pontiggia? con chi ha rapporti letterari Valeria Parrella?

Ma sì, i riferimenti: il mare color del vino, le parole tue alate: sono chiuse omeriche. Altre asl altri ospedali, è Truman Capote (altre voci altre stanze).
Allora accade così: che a me vengono in mente delle frasi. Mi chiedo “perchè proprio questa?” e a volta la risposta è che è una reminescenza. Allora se la riconosco la tengo come tale. È un omaggio a qualcuno che prima e meglio di me ha saputo dire. Altro è la sintassi. L’italiano è una brutta bestia da ammansire. Sembra una lingua facile facile. Soggetto verbo oggetto. E invece ci ha scritto Pasolini, ci ha scritto Morante. Mica gente che si accontentava? allora bisogna forzarla, tentarla, stiracchiarla di là e di qua.
Si deve dire “figlio”, al vocativo, come si dice “io”. Senza paura.

Ultima domanda, te lo prometto!

La bellezza. Non solo perché il tuo libro è dolorosamente bello (con un senso pregnante e pieno dell’aggettivo, da tradurre con il greco classico kalos), ma anche perché la bellezza è uno dei temi più frequenti e più densi tra quelli che affiorano dalle pagine, sin dalle primissime pagine:

Ma il più grande contraltare di bellezza al gravare della disabilità, sei stato tu e sei tu stesso.

La vera bellezza non è forse la Venere senza braccia?

E ancora

La sofferenza si annida nella bellezza.

Non è questo che rende il tuo libro fondamentale? Essere riuscita a dare un senso, corposo tangibile palpabile, alla sofferenza? Era questo il tuo intento o non te lo sei chiesto? Ti interessa oppure ognuno cerchi tra le tue pagine quello che crede?

Ultima risposta: te lo prometto!
Sì. Se me lo chiedi adesso ti dico sì: volevo forse dare un corpo sopportabile alla sofferenza. Ma mentre lo scrivevo no: non lo sapevo.
Quindi: ognuno cerchi tra le mie pagine quello che io vi ho nascosto senza SAPERLO.

CIAOOOOOOOOOOO

E il vento: allora mi sono girata verso terra.

Mentre Valeria Parrella si allontana, io rimango lì sul pontile con la protagonista di Tempo di imparare. Le prendo la mano e me la ficco nel cuore.

No, basta: è tempo di imparare a tenere le cose in equilibrio. Sperare per poterti incoraggiare, per determinarmi all’azione, e intanto non sperare troppo: perchè ogni passo non compiuto diventa una forra di dolore. Sperare e contenere la speranza, tenere il bilancino con i piatti sempre in bilico.

Mi si conceda un piccolo vezzo: dedico questa chiacchierata a Giuseppina, senza la quale non sarei stata in grado di capire la sofferenza che si annida nella bellezza. A Luisa, senza la quale non avrei conosciuto la scrittura di Valeria Parrella. A Maddalena, perché c’è stata e condivide con me la passione per la scrittrice.

Chiacchierando con… Valeria Parrella