Inchiodata alla pagina, con il fiato corto, in apnea, incapace di rimandare a Dopo la lettura dell’esordio di Koethi Zan (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, Longanesi, 2014).

Nei primi trentadue mesi e undici giorni di prigionia, eravamo in quattro. Poi, improvvisamente, senza che nulla lo lasciasse presagire, ci siamo ritrovate in tre. Da mesi ormai la quarta non emetteva alcun suono, ma dopo la sua scomparsa il silenzio si è rivelato ancora più terribile. Per molto tempo, da allora, siamo rimaste mute, chiedendoci nel buio chi sarebbe stata la prossima a finire nella cassa.

Sono le prime righe del romanzo, che ti afferrano con i loro artigli e ti incatenato al destino di Sarah, o Caroline come si dovrebbe far chiamare dopo la liberazione. Il romanzo non racconta i lunghi giorni della prigionia, che affiorano prepotentemente come ricordo, ma l’infaticabile e strenuo tentativo di Sarah di fare chiarezza, dopo dieci anni, di ciò che è stato, e in particolare di ritrovare il corpo della quarta ragazza, la sua amica d’infanzia Jennifer, con cui aveva già condiviso un terribile incidente da bambine.

Dieci anni sono passati dalla liberazione delle tre ragazze, ora donne, dalla prigionia in cui erano state tenute segregate da un docente di psichiatria carismatico e folle, Jack Derber. Seviziate e torturate, ripetutamente. Dopo dieci anni la tortura emotiva del loro carnefice continua, perché dal carcere in cui è rinchiuso e da cui potrebbe uscire, Derber continua a scrivere lettere a ognuna delle tre.

Era così che agiva Jack Derber. Cercava un rapporto personale. Profondo e intimo. Ti entrava nella testa, si insinuava nella tua mente come un serpente velenoso si acquatta in un buco nella sabbia del deserto e cerca la posizione migliore per restare in agguato. È lì che si sente a casa. Era difficilissimo resistergli, specie quando la spossatezza ti spingeva a vedere nel tuo carnefice un salvatore. Ma ancor più difficile era respingerlo quando, dopo averci tolto tutto, forse per sempre, centellinava le piccole cose che ci servivano per sopravvivere: il cibo, l’acqua, la possibilità di lavarci, un minimo segno di affetto. Una parola di conforto. Un bacio nel buio.

In preda alle proprie fobie, nate dall’incidente con Jennifer che aveva privato quest’ultima della madre, e divenute ossessioni dopo l’orrore di cui era stata vittima, Sarah trova il coraggio di uscire dal bozzolo in cui si era rifugiata, per poter incastrare il proprio aguzzino, accusandolo finalmente di omicidio, grazie al ritrovamento del corpo di Jennifer, e non solo di rapimento.

Per portare avanti il suo progetto di smascheramento deve incontrare le altre due vittime, Tracy e Christine. Non è facile rincontrarsi dopo dieci anni. Ognuna delle tre donne chiude in se stessa un segreto che rende le altre sospette e nemiche.

Mi coprii la bocca con la mano. Avrei voluto consolarla, ma dopo anni di solitudine non sapevo nemmeno da dove partire. La mia incapacità di superare il passato mi limitava nei rapporti con gli altri. Era come se il mio mondo si fosse ristretto, lasciando spazio soltanto per me. Per la prima volta mi fu chiaro che star male può diventare una forma di narcisismo. Ero così presa da me stessa che non mi rendevo conto che gli altri potevano avere bisogno di me.

Ho sofferto con Sarah, terrorizzata dagli incontri e dall’orrore che si allargava intorno a lei, a mano a mano che indagava nella vita di Jack Derber. Ammirata dal coraggio e dalla forza d’animo che sa dimostrare. Bloccata dagli attacchi di panico da cui si sente pervadere e che con profonda consapevolezza di sé riesce a controllare e superare. Afasica dinnanzi alle decisioni di rischiare la pelle e la ritrovata libertà pur di arrivare fino in fondo.

Intoccabile Sarah, non solo perché ha patologizzato una difficoltà ad entrare in contatto fisico con gli altri, ma anche per la risolutezza e l’affetto smisurato che la legano a Jennifer, anche e nonostante la sua morte.

Quella sera la guardai a lungo e poi mi alzai, mi avvicinai allo specchio e passai il dito sui contorni di quell’ombra, l’unico altro essere umano che osavo toccare. Chi era stata più fortunata, fra noi due? Me l’ero chiesto tante volte. Jennifer almeno non soffriva più la solitudine. Io invece ero ancora chiusa nella mia cassa personale, sola e incapace di lasciarmi avvicinare dagli altri. Prigioniera di me stessa, delle mie paure, delle mie paranoie. Irreparabilmente segnata, in trappola.

Un’eroina con un’infinità di limiti, paure, fobie, segreti e rimorsi che diventano il fulcro e il fascino della sua personalità. Fragile e impacciata. Sola. Disperata. Umana e vera.

Koethi Zan travolge il lettore con una vicenda che supera i limiti della normalità, che attinge alla follia, al buio che si annida nell’animo umano, alla crudeltà pura. Sa guardare in questo pozzo putrido e malmostoso senza essere morbosa, con chiarezza di intenti e di finalità. Le torture ci sono, ma non vengono mai descritte, occasionalmente accennate. Non è questo che le interessa. È piuttosto la reazione del torturato, o del succube, a fare da padrona tra le pagine, l’interesse vivo e vitale a proseguire la propria vita, dimenticando cosa si è stato costretto a diventare.

La prigionia ti cambia nel profondo, ti fa regredire allo stato animale. Faresti qualsiasi cosa pur di non morire, pur di soffrire un po’ meno del giorno prima.

La scrittrice fa leva sulla solidarietà e l’amicizia, il senso del dovere e il peso delle responsabilità. Tre donne che non temono, pur in preda all’angoscia e al tormento, di tornare nella casa dei loro incubi, pur di mettere una volta per tutte la parola fine al loro passato e rendere così possibile un DOPO che non abbia nulla a che vedere con il prima.

Se ci riusciranno e come ci riusciranno spetta al lettore che ama i brividi e le storie ben costruite, che artigliano senza soluzione, conducendo con scossoni e fibrillazione alla verità, insospettabile e imprevedibile.

Dopo