Certe vecchie abitudini, non si perdono a distanza di anni, quindi nel passare davanti alla statua della Minerva nella Città Universitaria della Sapienza di Roma istintivamente abbasso lo sguardo per non sfidarla con un’occhiata che da studenti poteva essere fatale per la buona riuscita dell’esame. Con una certa emozione ritorno a passeggiare per i viali che mi hanno vista studente negli anni più belli, ma anche più incompresi, della vita mia e forse di gran parte degli universitari. Emozione doppia, perché in questo inizio di primavera sto per incontrare uno degli scrittori italiani che mi ha maggiormente incantato tra le mie ultime letture e che per quei capricci della sorte che inevitabilmente aumentano l’empatia che possiamo provare per certe personalità è anche un bibliotecario, qual io posso fregiarmi di essere al momento. Fabio Stassi. La nostra chiacchierata, in un piacevole deja vù, comincia sulle scale del Rettorato inondate dal tiepido sole marzolino.

(Questa volta vi lascio credere davvero che sia andata così!).

Biblioteca e scrittura: c’è un legame tra questi due aspetti della tua vita? Quello che mi ha più coinvolta nei tuoi romanzi è il lavoro sulle “fonti” riguardo ai personaggi che si nasconde dietro il sapiente ricamo romanzesco. I tuoi personaggi sono veri e fittizi nello stesso tempo, come le ambientazioni sia spaziali che temporali che proponi, delizia per noi lettori, ma immagino frutto di accanito e appassionato lavoro per te scrittore.

Uno scrittore che ho amato moltissimo, Elias Canetti, sosteneva che la miglior definizione di patria è biblioteca e anch’io credo che i libri che abbiamo letto sono la più vera carta d’identità che possediamo e che la parola biblioteca sia un sinonimo della parola speranza. Apparteniamo a quel luogo lì, perché siamo i libri che abbiamo abitato. Io non immaginavo che avrei fatto il bibliotecario, nella vita. Nella casa dove sono cresciuto c’erano pochi libri, e anche per questo le biblioteche iniziai a frequentarle presto. In una, in particolare, la biblioteca di storia moderna e contemporanea, nel ghetto di Roma, ho passato un periodo molto lungo e bello. Studiavo storia, ero appassionato dell’età del Risorgimento, sin da piccolo. Poi saltò fuori un concorso per la nuova università che stava nascendo a Tor Vergata e mi ritrovai aiuto bibliotecario a ventitré anni. Dopo un anno e mezzo in una biblioteca di medicina, ottenni il trasferimento al dipartimento di storia della Sapienza. Lì ci sono rimasto per venticinque anni, tra libri che conoscevo bene e che ho contribuito a fare acquistare. Da poco, mi sono spostato a Lingue Orientali. Come avrai capito, la storia è stata una mia grande passione. All’inizio credevo che mi sarebbe toccato in sorte il mestiere dello storico, ma come dico sempre ho studiato storia per tradirla. So come si conduce una ricerca, e questo mi è servito: per ogni romanzo che ho scritto ho consultato tantissime fonti, letto tutto quello che si poteva. Ma ho capito con il tempo che a me non interessava la verità dello storico. Interessava, e interessa, un’altra verità, più intima, forse ancora più nascosta. C’è un romanzo di Thomas Eloy Martinez, uno scrittore argentino, in cui si racconta l’imbalsamazione del corpo di Evita Peron. Eloy Martinez dice che furono fatte anche tre copie, assolutamente indistinguibili dal corpo reale, per confondere chi avesse voluto impossessarsene. Per questo, un medico incise dietro l’orecchio di Evita una piccola cicatrice a stella, per evitare di sbagliarsi anche lui. Ecco, io credo che il romanzo insegua quella cicatrice, ma che per trovarla, o tentare di avvicinarsi, deve mescolare ogni cosa, fatti accaduti e fatti inventati, come se si dovessero attraversare tutte le bugie del mondo per farsi un’idea della verità. La letteratura è necessariamente infedele, non può restituirci la realtà, ma può, con molta incoscienza, reinventarla.

Sai, Fabio, qual è l’esperienza più gratificante ed entusiasmante a cui mi conduce il Chiacchierando? Ritrovare “in carne e ossa” lo scrittore, la cui ombra fantasmatica si intravede nelle pagine dei romanzi amati. Quando ho letto la tua definizione della letteratura come una scacchiera, in La rivincita di Capablanca, mi sono commossa come capita quando verità sepolte in noi stessi e che non siamo capaci di esprimere trovano la loro forma ed essenza nelle parole altrui. Io trovo che questa sia la magia a cui andiamo incontro quando apriamo un libro: il rischio di scoprire il nostro scrittore, quello che dà corpo e parole ai sentimenti e alle sensazioni che teniamo celati dentro di noi persino a noi stessi.

L'ultimo ballo di Charlot

A me con i tuoi romanzi capita appunto questo e la magia si è ripresentata con l’inizio di L’ultimo ballo di Charlot, quella polverina magica che descrivi nelle prime pagine ha il sapore della mia infanzia e dei pochi film che sono riuscita a vedere in un paese dell’entroterra campano. La stessa magia che tu mi riproponi con questa prima risposta, mescolando le mie due passioni: le biblioteche e la letteratura.

Gli scacchi, il calcio, il cinema … solo per citare i primi che mi vengono in mente. Sono tue passioni quelle che poi diventano oggetto e materia dei tuoi romanzi o nascono da altre suggestioni? Io, ad esempio, non amo gli scacchi e non so giocarvi, ma ho amato profondamente La rivincita di Capablancae mi sono incantata tra le tue pagine, come il pubblico che con il fiato sospeso e gli occhi sgranati seguiva le mosse del cubano e del suo avversario.

Fabio stassiÈ vero, sono molto affascinato da tutte queste cose, e da molte altre. Ma quello che lega insieme le storie che ho scritto è forse il racconto del talento quando si manifesta e si rivela. La sua entrata in scena. Così il talento di giornalista, di osservatore calcistico e di rivoluzionario per Rigoberto, il talento di maestro di scacchi per Capablanca, il talento d’attore per Chaplin. È un momento decisivo nelle vite degli uomini: il riconoscimento, la scoperta. Mi accorgo che mi piace raccontare l’appuntamento di un personaggio con il destino. Mi viene in mente un film francese di Marcel Carnè, Mentre Parigi dorme, che non ebbe successo, dove il destino è impersonificato da un attore. È che nel punto in cui il destino ti dà convegno passano molte cose, è un crocevia del tempo: ci sono le ragioni del passato, che ti hanno condotto fin là, e c’è il tuo volto domani, come dicono Shakespeare o Javier Marias, quello che sarai, le conseguenze che ogni destino compiuto porta con sé, ciò che si è perduto o sacrificato. È sempre una partita con il proprio destino, alla fine.

 

Appuntamento con il destino, ma anche con la morte? o nella tua visione sono la medesima cosa? Una mia impressione o è quello un momento ineludibile nella vita dei tuoi personaggi, non solo protagonisti?

 Fabio stassiForse sarà la mia origine siciliana, ma un po’ è vero, ho finito sempre per comporre un piccolo discorso sulla morte o con la morte, come in Charlot. Ora che ci penso, i miei personaggi cercano sempre un modo per ribellarsi alla morte, e l’unico modo è lasciare delle consegne, passare il testimone a qualcun altro perché continui lui ad affermare la nostra fragile umanità. Cosa che fa il vecchio Rigoberto, andando a depositare il suo trofeo dorato al centro del Polo Sud e soffiando in un fischietto da arbitro perché si ricominci a giocare un qualche torneo delle speranze perdute. Così Capablanca, insegnando al piccolo Xavier le mosse di una partita che non potrà giocare. Così Chaplin raccontando la sua storia a suo figlio quindicenne prima di incamminarsi insieme alla morte, sotto la luna, cantando vecchi motivi del music hall.

Devo confessarti, Fabio, che questo passaggio di consegne di cui parli è uno dei motivi più commoventi nei tuoi libri. Aggiungerei anche, in La rivincita di Capablanca, l’unica donna a cui Capablanca insegna il gioco degli scacchi, nonostante che il campione la metta in guardia sulle conseguenze. Credo che anche a lei Capablanca lasci qualcosa di importante che riguarda se stesso e il suo esserci stato.

Poi ci sono i luoghi, molteplici, in cui inseguire i tuoi personaggi, ma mi sembra di scorgere (sotto suggerimento di mio fratello, anche lui ammirato lettore dei tuoi romanzi) una passione per il Sudamerica, o è solo amore per gli scenari più diversi? Da questo, una mia curiosità personale, il tuo romanzo L’ultimo ballo di Charlot, nasce, come tu stesso confessi nell’intervista a RaiLetteratura, da un libro di Osvaldo Soriano, Triste solitario y final. Un libro che io ho molto amato, perché regalo improvviso e improvvisato di una delle mie amiche più care per tirarmi su da un esame non particolarmente brillante. Come è venuto invece nelle tue mani di lettore e cosa ha fatto scattare nella mente di scrittore? Cosa c’è del libro di Soriano nel tuo ultimo romanzo?

Fabio stassiLa mia passione per il Sudamerica nasce da mia nonna, che in casa mi parlava di Buenos Aires e di Montevideo, dove aveva vissuto, e poi dalla letteratura. Nei libri degli scrittori sudamericani ritrovavo un sentimento del Sud, di quel Sud che non ho abitato, se non nella lingua e solo d’estate, ma a cui appartengo. Amado, Marquez, Onetti, Cortazar, Sabato, Benedetti… La lista è infinita, e l’ultima scoperta che ho fatto è uno straordinario scrittore argentino che si chiama Saer, di cui ho letto da poco un romanzo importante: Cicatrici. Osvaldo Soriano è stato uno degli scrittori che ho amato di più per il modo che aveva di coniugare l’invenzione, l’anarchia e la tristezza. Perché il sentimento del Sud è un sentimento triste. Soriano usava tutto, per narrare, perché tutto è materia di racconto: il calcio, la musica, la politica, il cinema. È stato il primo a cui ho visto fare questo gioco di prestigio di prendere dalla realtà un personaggio realmente esistito come Stan Laurel e farlo incontrare con un personaggio di finzione come Philip Marlowe. E poi quel titolo, che suona come un manifesto: Triste, solitario y final. Suona come il bandoneon di Astor Piazzolla (lo sai che in Argentina questa fisarmonica nera la chiamano piccolo sarcofago?). In realtà, io sono più legato a un altro libro di Soriano, Un’ombra ben presto sarai, che è davvero il titolo di un tango di Carlos Gardel. E’ un libro malinconico. Il protagonista, Zarate, sembra uno Zampanò felliniano. A metà c’è una scena che quando l’ho letta mi ha fatto saltare sulla sedia: ci sono Zarate, e un vecchio acrobata in pensione, Coluccini, che giocano a carte, ma non hanno più niente da puntare, e allora si giocano i loro ricordi, che sono anche la cosa più preziosa che possiedono, oltre che l’ultima. Inutile dire che Coluccini non poteva non finire dentro al mio Charlot, ancora più vecchio, e rivelargli una cosa importante, in California, travestito da pagliaccio, durante una delle prime scene del film Il circo. È stato il mio piccolo omaggio a Soriano

Un' ombra ben presto saraiTriste, solitario y final

 

 

 

 

 

 

 

In realtà, Fabio, nessuna sicilianitudine per te, il tuo “meridionalismo” ha qualcosa di internazionale, un sentimento del cuore e dell’anima, triste e malinconico, che parla a tutti. È così o c’è qualche carattere che mi è rimasto nascosto e che tu percepisci come “siciliano”? ci sono scrittori siciliani a cui ti senti particolarmente affine? (quante volte ti avranno fatto questa domanda, ahimè! ma la curiosità del lettore spesso attinge all’abusato.)

Fabio stassiMi sono convinto che il sentimento del Sud di cui ti parlavo, per chi è figlio di emigranti, ha a che fare, in qualche modo, con il mito di Orfeo. Euridice è la terra perduta, per la quale si prova nostalgia e alla quale non si smette di sognare il ritorno. Euridice è un’isola, ma non necessariamente la Sicilia. In Brasile ho conosciuto un pittore che dipingeva sempre lo stesso quadro: la masseria dov’era nato. Ogni volta in un modo diverso, con dei colori diversi, ma era sempre quello l’oggetto della sua pittura. Mi disse che lo faceva da quando aveva perduto la casa della sua infanzia perché una casa dell’infanzia smantellata è un santuario profanato. Ecco, per chi è figlio di gente che viene da un’altra terra, Euridice è il luogo che non si potrà recuperare e che vive nella memoria, nei racconti, nel fiato che danno i ricordi. Forse è per questa sensazione di avere alle spalle altre terre, altri continenti anche, il Sudamerica e il nord Africa dei miei nonni, la Catalogna, l’Albania, la Grecia, che mi fa molto piacere se mi riconosci un carattere cosmopolita, e questa è anche una delle osservazioni più belle che ho ricevuto all’estero. Ma io credo che siano il romanzo e i personaggi di romanzo a essere sovranazionali. Poi sì, la letteratura siciliana è stata la prima letteratura che ho respirato. Ho fatto in tempo a scrivere delle lettere a Gesualdo Bufalino, quando ero molto giovane, e dopo a conoscere e ad affezionarmi a Vincenzo Consolo. Inoltre, a casa mia, si parlava spesso di Sciascia e di Brancati, ma non dei loro libri, proprio di loro, in carne e ossa, perché mio padre aveva vissuto a Caltanissetta e li aveva incontrati per strada, qualche volta.

 

La tua scrittura ha un certo afflato cinematografico, anche se rimane una scrittura elegantemente e raffinatamente letteraria, bella nella sua piacevolezza e leggerezza. Che rapporti ha con il cinema?

Ti prometto che questa è l’ultima sollecitazione, anche se continuerei all’infinito. Bellissimi i tuoi consigli di lettura.

Fabio stassiIl cinema, per me, è il Novecento. Ne sono completamente affascinato. Non credo però che la letteratura debba avere per forza una costruzione cinematografica. Kundera dice che il romanzo dovrebbe essere un fenomeno anticinematografico, irriproducibile su uno schermo. Io ho cercato solo di seguire il consiglio di Calvino, di pensare per immagini, di andare a cercarle là, le metafore. Ma alla fine è sempre la lingua e il lavoro sulla parola a condurre tutto il gioco e a contenere ogni cosa.

 

Non riuscirò a spiegarti, perché sono una lettrice e non una scrittrice, ahimè, l’emozione sottile che ogni tua risposta mi ha regalato e che culmina in questo finale, in cui pieghi il mito di Orfeo ed Euridice su corde così personali e universali che trovano la loro partitura direttamente nell’anima di chi ti legge. La polverina con cui si apre il tuo ultimo romanzo e che tu riesci a ricreare per i tuoi lettori.

Una spada di luce che tagliava il buio.

Usciva da una scatola e si dilatava, via via, disegnando

due diagonali perfette nella sala… e già questo era uno

spettacolo; potevi startene lì, a guardarla, senza capire: fumo,

e luce, e dentro polvere, nient’altro che polvere, minuscole

particelle sospese che nuotavano per aria:

si alzavano e si abbassavano,

si inseguivano, giocavano a imitare l’universo…

ma se strizzavi gli occhi e guardavi per bene,

dentro a tutta quella polvere

dopo poco ci vedevi degli uomini con i baffi da tricheco,

il manganello di un poliziotto, un cane,

un tubo per innaffiare il giardino, una vecchia ford,

delle torte di panna che volavano, un sifone di seltz,

l’uscita degli operai da una fabbrica, l’arrivo di un treno e figure di donne

meravigliose che fluttuavano leggere: in quella spada di luce

ci vedevi i fianchi di una donna, ma era inutile provare a

toccarli, non ci saresti riuscito mai.

Vorrei solo aggiungere che quando si resta affascinati da uno scrittore e si chiede di incontrarlo, anche solo virtualmente come accade a me con il Chiacchierando, si insegue un piccolo grande desiderio per il lettore, quello di riconoscere nella persona “vera” il personaggio che si è intravisto nelle pagine del romanzo che si ama. Ma nessun personaggio è più sfuggente dell’autore e l”incantesimo” dello svelamento non dà sempre il risultato sperato. Anche questo fa parte del gioco di non essere un lettore passivo, ma attivo e intraprendente. Alcuni autori sono una  riconferma, altri diversi da come te li immaginavi. Altri ancora sono una bella sorpresa. Seguendo una metafora atletica, quelli da podio… ecco, a questo punto tu dovresti cantare l’Inno d’Italia.

Fabio stassiSei molto gentile e indulgente, ma ha fatto piacere anche a me questa conversazione. Mi è servita per mettere a fuoco delle cose, alcune le avevo piuttosto chiare, altre no. Grazie ancora, anche da parte di Capablanca e degli altri, e a presto.

Chiacchierando con… Fabio Stassi