di Andrea Cabassi

STRADA PER L’INFERNO SENZA RITORNO

Andrea Cabassi maggio

Recensione al libro di Tiffany McDaniel

“Sul lato selvaggio” (Atlantide edizioni)

Sul lato selvaggio

Una prima necessaria premessa.

Scrivo mentre il contagio, dalle mie parti martoriate, sembra calare. Tuttavia il coronavirus è diventato protagonista delle nostre vite e, per questo motivo, è molto difficile recensire un libro. Si è stati e si è continuamente distratti da quello che accade intorno a noi, per persone che conoscevamo e che ci hanno lasciato, per le conferenze stampa che ci hanno aggiornato e ci aggiornano quotidianamente sui dati della pandemia. Cerchiamo di concentrarci su quello che leggiamo ma, quando i personaggi del libro che stiamo leggendo e che stiamo cercando di recensire, si abbracciano, si stringono la mano, si avvicinano troppo, ci viene da urlar loro “non si può”, “così si aumenta il contagio” . E questa è una reazione sempre più diffusa tanto che sugli approfondimenti online di Repubblica, Beniamino Pagliaro vi ha dedicato un articolo “Perché non riusciamo a leggere un romanzo ai tempi del virus”  (Approfondimenti Repubblica. 26/03/2020). E allora, quando ti imbatti in un libro di una grande scrittrice che parla di tossicodipendenza (ma non solo, perché parla anche di ben altro) hai l’impressione di sentirti lontano, molto lontano perché questa tematica ti riporta agli anni 70 e agli anni 80 quando vennero immesse sul mercato, anche in Italia, dosi massicce di eroina. Ti dici che la tossicodipendenza è l’ultimo dei problemi di questi giorni. Ma sai che non è vero. Sai che questo è un altro dei nodi che è necessario districare. Se, poi, l’autrice del libro che stiamo prendendo in esame è Tiffany McDaniel, che ha già pubblicato, sempre con la casa editrice Atlantide, due romanzi straordinari come “L’estate che sciolse ogni cosa (Atlantide 2017), “Il caos da cui veniamo” (Atlantide 2018) e una stupenda raccolta di poesie “Queste voci mi battono viva” (Atlantide 2018), allora ti sforzi di concentrati su quelle pagine. E, malgrado tutte le tue angosce, riesci a cogliere da questo nuovo libro della McDaniel –  ottimamente tradotto da Luca Briasco – “Sul lato selvaggio”, pubblicato da Atlantide (2020) in anteprima mondiale, squarci di autentica poesia in un romanzo che, spesso, è un pugno allo stomaco per il lettore, che mette a nudo un’America piena di diseguaglianze, un’America che indaga di malavoglia quando le vittime sono dei poveri diavoli, un’ America che insabbia. 

Una seconda premessa necessaria.

Avrei voluto intitolare questa recensione “RIMETTERE I FILI DENTRO AL QUADRATO” che è quanto fa una delle protagoniste del romanzo, nonna Keith, quando cuce. Però sarebbe stato un titolo fuorviante, forse consolatorio.  Perché, secondo nonna Keith, rimettere i fili dentro al quadrato è rendere il lato selvaggio della coperta che sta cucendo un lato bello: trasformare il selvaggio in bellezza. Un punto sul quale tornerò più avanti.

Una cosa è certa: quello descritto da Tiffany Mc Daniel è un viaggio all’inferno senza ritorno.

“Sul lato selvaggio” prende lo spunto da un fatto realmente accaduto: una serie di sparizioni e delitti femminili insoluti avvenuti a Chillicothe, Ohio. Alle donne assassinate, prostitute, povera gente, donne che si barcamenavano in un’esistenza difficile, è dedicato il libro. Perché il romanzo è un monito a non dimenticarle quelle donne, con le loro vite difficili, con le loro vite fallite, con le loro vite al limite e il loro sforzo per risalire la china. Non bisogna dimenticarle queste donne per le quali Tiffany McDaniel ha un profondo senso di pietas.

Racconto la trama in breve anche se riassumere un libro così denso, così intenso non è facile. Si tratta della storia di una famiglia che parte da nonna Keith la cui madre si era suicidata e che ha avuto molte storie e molti uomini. Tra le altre cose nonna Keith ci narra che una delle antenate della famiglia era stata etichettata come una strega e, in quanto strega, era stata bruciata. A suo avviso l’antenata non era una strega, ma una donna che non voleva avere padroni, una donna con un potere. Nonna Keith ha avuto due figlie: Jo e Adelyn dalla quale sono nate le gemelle Daffy, chiamata anche poetessa Daffodil, e Arc. Il marito di Adelyn è Flood Doggs, a cui sono dedicate poche pagine; ma è personaggio importante perché è lui a iniziare la storia di tossicodipendenza della famiglia (aveva cominciato sotto le armi), una storia di tossicodipendenza che attraversa le generazioni fino ad arrivare alle figlie. Una genealogia maledetta, una genealogia che riserverà al lettore delle sorprese. La narratrice è Arc ed è una narratrice dallo status del tutto particolare. Ci narra da un al di là, da un Altrove che è ai limiti del raccontabile:

“Provo dolore qui, nel luogo oltre la vita dove mi trovo. Questo non cambia. Non smetti di essere umano nel giro di una notte, per quanto le favolette della Bibbia vogliano farcelo credere. Non ci solleviamo con lo spirito, sorvolando la storia della nostra vita… Qui io sono marmo bianco. Sono ebano. Sono all’interno e all’esterno di ciò che ero e che non ero. Porto addosso tutte la tonalità della carne e dei capelli, e ogni rosso con cui dipingere le labbra. I colori che mi travolgono come onde. Che cos’è un’anima, in fondo, se non qualcosa di tutto?” (Pag. 261-62).

Da quel luogo/non luogo Arc ci racconta la violenza che ha subito, giovanissima, in biblioteca, ci racconta di come è arrivata alla droga e alla prostituzione, di uomini che faranno una carriera politica importante malgrado il loro degrado interiore, ci racconta dei suoi rapporti con la nonna, con la gemella, vero e proprio doppio, con la mamma, la zia e gli uomini. Ci racconta di Violet, di Osu Mary, di Lingerie Lee, di Hard Candy Elizabeth, di Darc Little, tutte donne scomparse e trovate morte lungo il fiume, ci racconta dell’Uomo del Fiume, delle indagini zoppicanti, dei meccanismi diabolici della tossicodipendenza, della scomparsa/non scomparsa della gemella Daffy. E Tiffany McDaniel è bravissima a non cadere mai nel banale, a non dirci cose scontate, come sarebbe facile, su questi temi.

Ritorno un attimo sul titolo. Nonna Keith, mentre cuce una coperta, si rivolge in questo modo alle nipoti, le gemelle Daffy e Arc:

“ ‘Ora ascoltatemi bene, bambine, perché vi dirò una cosa molto importante. Una cosa che mia madre disse a me’, ci comunicò nonna, quando avevamo appena finito la nostra coperta afgana.

‘Esiste un lato selvaggio e poi un lato bello.’

‘In che senso, nonna?’, chiedemmo io e Daffy, all’unisono.

‘Questo è il lato bello ’, spiegò nonna, allargando le braccia per includere tutti i quadrati, perfettamente allineati. ‘Vedete che meraviglia? Non c’è una cosa fuori posto. Tutto è splendido. Avanti bambine, strofinateci sopra le mani’” (Pag. 40). 

Le bambine obbediscono alla nonna e annuiscono. La nonna ribadisce che quello è il lato bello. Poi:

“Nonna rovesciò la coperta, con un’espressione quasi addolorata sul volto. E, mentre ci mostrava come penzolavano i fili sul lato posteriore del quadrato, fui quasi certa che potesse scoppiare a piangere da un momento all’altro.

‘Questo è il lato selvaggio’, disse, facendo sventolare i fili. ‘Vedete, bambine? Vedete quanto sono selvaggi e incontrollabili questi fili?’” (Pag. 41).

Arc dimostra di aver capito perfettamente la metafora perché il rapporto tra lato selvaggio e lato bello non è niente altro che la vita. Ma la scena continua e vale la pena di andare avanti a descriverla perché credo che possa essere definita come la grande metafora dell’intero romanzo. Nonna Keith va davanti all’armadietto dove tiene tutte le sue cose per cucire:

“Andò davanti all’armadietto che conteneva tutti i suoi materiali di cucito. Dal cassetto estrasse un ago bello spesso, con un foro così largo da far passare ben più che un semplice filo. Partendo da uno dei quadrati sul bordo della coperta, cominciò a infilare dentro tutti i fili che sporgevano.

‘Vedete che cosa sto facendo?’, disse. ‘Rimetto i fili dentro il quadrato, e così trasformo il lato selvaggio in qualcosa di bello. Voglio che proviate a farlo anche voi’” (Pag.42).

Ed è indicativo che:

“Da allora, ogni volta che il lato selvaggio diventava troppo selvaggio, mia sorella si rivolgeva a me e diceva: ‘Rimetti i fili nei quadrati, Arc. Fa’ diventare bello il lato selvaggio’” (Pag.43).

Arc ci prova in varie parti del romanzo a rendere bello il lato selvaggio. Lo fa narrando alla gemella e a sé stessa  storie alternative rispetto a quelle di droga e prostituzione che accadono loro. E’ come se il racconto avesse il potere magico di trasformare la vita delle persone, di rendergliela migliore, per lo meno accettabile. In qualche senso la scrittura diventa il possibile che si incarna, l’altra vita che non abbiamo potuto vivere, l’altra versione dell’esistenza. Ma c’è un’ulteriore faccia della medaglia: non è solo la scrittura che può trasformare il lato selvaggio. Anche la droga, anche l’eroina può farlo. Può tramutare, illusoriamente, il lato selvaggio nel lato bello delle cose. Ed è per questo che è diabolica. Ed è per questo che diventa così difficile smettere. Ma, dopo averne fatto uso, cosa rimane? Dopo rimane un lato selvaggio senza più speranza di essere cambiato in qualcosa di meglio, resta una vita sempre più dolorosa, dipendente, maledetta.

Tiffany McDaniel ci descrive il dolore nella sua nudità. Arc, la narratrice afferma:

“C’è una nudità che accompagna ogni dolore. Ti senti come se ogni cosa ti fosse stata strappata di dosso finché non rimani esposta agli occhi di tutti quando cammini per strada, senza alcun orpello, anzi, priva di qualunque involucro, come una mela sbucciata tra i denti del mostro” (Pag. 305).

Il dolore ci rende nudi, in balìa del destino, in balia delle forze oscure che dettano i destini trans e intergenerazionali delle famiglie. Non ci sono coperte, non ci sono stracci, non ci sono sublimazioni benché anche quella strada venga tentata. In quel dolore che ci rende nudi viviamo come su un piano inclinato. Dice Daffy ad Arc:

“ ‘Non puoi tornare indietro, Arc. E’ tutto perduto, e per quanto ci sforziamo, le cose a cui tenevamo non potremo più riaverle’”. (Pag. 267).

In questo contesto i personaggi maschili sono quasi tutti negativi. Hanno avuto vite balorde, di spaccio e tossicodipendenza. E i peggiori sono gli uomini di potere o che diventeranno uomini di potere. Forse l’unico personaggio maschile positivo è John, l’uomo che ha investito la nonna uccidendola e  si è sentito in colpa per il resto dei suoi giorni. C’è una scena struggente, straziante e molto poetica al riguardo. John ha appena investito nonna Keith, le gemelle sono andate a vedere l’auto ammaccata e sull’auto hanno notato un violino sul sedile posteriore. John se ne accorge, tira fuori il violino e comincia a suonare. Le gemelle lo ascoltano: “Quando lo guardammo con espressioni vuote, riformulò la domanda.

‘C’è qualche canzone in particolare che vi piacerebbe sentire?’

Ci guardammo in faccia, poi fissammo l’ammaccatura.

‘Come si chiamava quella canzone che piaceva tanto a nonna, Arc’, disse Daffy, senza staccare gli occhi dall’ammaccatura.

Amazing Grace’, risposi.

L’uomo guardò prima l’ammaccatura, poi noi, e mise ancora volta il mento in posizione. Quindi, con una serie di movimenti aggraziati, fece scivolare l’archetto sulle corde, chiudendo gli occhi. Mia sorella guardò l’ultima volta l’ammaccatura e mi afferrò la mano.

Ci allontanammo assieme all’uomo che suonava il violino e tornammo dentro casa” (Pag. 75).

Anche John avrà un destino drammatico che, qui, non voglio anticipare. Mi preme soltanto sottolineare l’originalità e la bellezza della scena. Poetica e struggente. Dove caso, dolore, morte e musica sono inestricabilmente intrecciati: un uomo che ha appena investito una donna (e lo ha fatto per una distrazione)  prende in mano il suo violino (perché, comunque, lui è un musicista) e intona la canzone preferita da nonna Keith mentre le nipotine lo seguono.

Mano a mano che la narrazione procede lo stile si fa sempre più ellittico, sempre più drammatico. Lo stile ellittico riflette l’escalation dei deliri e delle allucinazioni di Arc, escalation dovuta all’uso della droga e ai vissuti della ragazza. Realtà e fantasia si mescolano e il lettore diventa protagonista della decifrazione dei segni e dei segnali, ne diventa l’interprete. Il personaggio di Arc è sempre  più credibile. E lo è anche quando si scontra con le terribili figure archetipiche che riemergono dal suo inconscio e con le quali deve fare i conti in una battaglia impari e che sembra non aver fine.

La suspense aumenta di pagina in pagina, il ritmo è serrato e tiene avvinto il lettore fino all’ultima pagina. Non si deve, però, dimenticare che questo romanzo non è un noir. E’ una storia nera,  nerissima, dolorosa, struggente dove i colpi di scena, l’evolversi della storia inducono il lettore ad entrare ancora di più nei meandri della mente di Arc e degli altri personaggi.

Non c’è niente di consolatorio nelle pagine di Tiffany McDaniel.

Ma tutto è riscattato dalla sua grandissima capacità narrativa e poetica. 

 

Lo Scaffale di Andrea: Sul lato selvaggio