Chiacchierando (di nuovo) con Alice Urciuolo

Alice Urciuolo torna in libreria con La verità che ci riguarda, un meraviglioso romanzo di fine complessità in cui come già per Adorazione, il romanzo d’esordio pubblicato nel 2020, per la medesima casa editrice, 66thand2nd, il centro narrativo è innescato dallo scavo nelle relazioni e nelle reazioni che sterzano e modificano le esistenze dei personaggi.

Prima di addentrarci nelle pagine del romanzo, chiederei ad Alice Urciuolo, con la quale torno felicemente a chiacchierare dopo averla incontrata per il romanzo precedente insieme all’editor Alessandro Gazoia, [QUI il link per ri-leggere la chiacchierata a tre voci] cosa si prova a scrivere IL secondo romanzo, con quale spirito lo si affida alle lettrici e ai lettori e cosa di fondamentale per La verità che ci riguarda è capitato nella tua vita.

RISPOSTA: Questo romanzo è nato mentre ancora stavo finendo di scrivere Adorazione. Milena, la protagonista, esisteva già, come l’intenzione di parlare di dipendenza affettiva. In qualche modo questa storia raccoglie alcuni temi già presenti in Adorazione e però li approfondisce, e lo fa usando altri strumenti, primo fra tutti la prima persona singolare. Volevo che questa storia fosse più intima, che seguisse la vita della protagonista per un arco temporale più lungo. Quindi, in un certo senso, l’esigenza di scrivere La verità che ci riguarda nasce come tentativo di trovare risposta a domande che mi ero già posta in passato, ma mentre scrivevo sono nate altre domande, che non pensavo di avere. Temi che non credevo sarebbero entrati nella storia si sono materializzati. Fondamentale è stato l’incontro con un libro: Lo stile dell’abuso, di Raffaella Scarpa (Treccani). Un libro che ci dice che è la lingua lo strumento principale attraverso cui una persona maltrattante riduce e mantiene in soggezione la vittima all’interno di un rapporto di violenza psicologica. È questo il punto di vista attraverso cui ho poi cominciato a scrivere, ed è stato un viaggio più lungo rispetto ad Adorazione. Come in Adorazione, però, mentre scrivevo pensavo solo ai personaggi, alla storia che stavo costruendo. Per me le lettrici e i lettori si materializzano sempre dopo, a libro finito. La paura circa come sarebbe stato accolto il romanzo stavolta era più forte, ma fortissimo era anche il mio desiderio di condividerlo con loro. 

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Lo Scaffale di Andrea: Josephine

di Andrea Cabassi

Josephine  au revoir

Recensione al libro di Jean Rolin

Josephine (Quodlibet)

Ricordo gli anni dell’Università a Bologna in pieno 77. Ricordo che i filosofi francesi come Deleuze e Guattari erano tra gli autori più letti anche se le loro tesi erano alquanto discutibili. Ricordo che nel settembre di quell’anno, proprio a Bologna, fu organizzato un convegno sulla repressione. Alcuni tra i filosofi francesi, anche se non ricordo più quali, vennero nella città emiliana; non ricordo se ci fosse Felix Guattari, il cui “Anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia” (Einaudi 1975), scritto con Deleuze e poco capito, aveva fatto tendenza.

Mi sono sempre confrontato con gli scritti di quegli autori a cui aggiungerei Foucault, poi Derrida. Inneggiavano tutti alla morte del soggetto e alla decostruzione, anche se ognuno di loro declinava questi temi in modo diverso.

Tutto questo mi è tornato alla mente leggendo il libro bellissimo, dolente, terribile di Jean Rolin ”Joséphine”(Quodlibet. Storia.2023).

Conoscevo già Jean Rolin per aver trovato anni fa in una libreria della mia città, il suo libro “Zones” (Gallimard 1994) che, a quanto mi risulta, non è ancora stato tradotto in italiano. Un titolo che fa eco a un altro libro “Zona” (Bur. 2012) di Mathias Enard; lo stesso Enard chiese a Rolin l’autorizzazione a utilizzare un titolo così somigliante ed ebbe il suo consenso. Poi, per i giri strani del destino che non so ricostruire, ho trovato nella mia biblioteca un altro libro di Rolin, il primo tradotto in italiano, “Il recinto” (Barbès 2008) che parla della banlieue di Parigi e di chi, con grandi difficoltà, la abita.

“Zones”, “Il recinto”: due libri che mi erano piaciuti e che mi avevano colpito molto. Così, quando è uscito “Joséphine” non ho esitato ad acquistarlo e a leggerlo subito.

Prima di addentrarmi nell’analisi del testo qualche dato sulla vita, per molti versi tribolata, di Jean Rolin; una vita che, in tanti momenti, ha condiviso con il fratello Olivier.

Jean Rolin è nato il 14 giugno 1949 a Boulogne- Billancourt – stesso luogo in cui è nato, nel 1945, il premio Nobel per la letteratura 2014, Patrick Modiano.

Figlio di un medico militare, è cresciuto tra la Bretagna, il Congo, il Senegal. Negli anni del Maggio francese ha militato nella Union de Jeunesses Communistes Marxistes-Léninistes che, dopo il 68, diventerà la Gauche Proléterienne. Il leader del braccio armato dell’organizzazione sarà il fratello Olivier. I due fratelli scriveranno molto sulle loro esperienze politiche tanto da meritarsi l’appellativo di fratelli Goncourt del post-sessantotto.

Jean ha firmato numerosi reportage per “Libération”, “Le Figaro”, “Le Monde”. È autore di diari di viaggio, ricordi, romanzi e racconti. Nel 1989 ha ricevuto il premio Albert Londres per il reportage “La ligne de front” dove racconta il suo periplo nell’Africa Australe e dell’Apartheid. Nel 1996 ha ricevuto il Premio Medicis per il romanzo “L’organisation” in cui, tra le altre cose, parla della sua esperienza politica e degli anni vissuti in clandestinità. E forse sono le rivoluzioni fallite in quegli anni settanta che lo hanno precipitato verso emozioni sempre più intense, verso esperienze estreme dove ha messo in gioco la sua vita, in particolare facendo uso delle droghe durato per lunghi anni.

Si può aggiungere che Jean Rolin è sempre stato affascinato dai porti, i moli, i cargo, i containers, gli uccelli, tutto quello che gli evoca il viaggio, l’altrove.

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Dieci Buoni Motivi per NON leggere “Di quella materia che non dura”

Dieci Buoni Motivi

di Leonardo Floriani

per NON leggere “Di quella materia che non dura”

1) non lo leggete se cercate in un romanzo il senso dell’esistenza, io non l’ho trovato. Se lo trovate, chiamatemi per favore, vi lascio il mio numero.

2) non lo leggete se vi interessa più la vita dell’autore di quello che racconta.

3) non lo leggete se immaginate uno scrittore che si presenta con il reggi calze, gli stivali da cosacco, il rossetto e la barba lunga. Non ho mai seguito le mode, tantomeno la moda di non essere alla moda.

4) non lo leggete se pensate che la vicenda narrata da un romanzo sia più importante del modo in cui è scritto.

5) non lo leggete se sperate che lo scrittore parli di sé stesso più di quanto faccia chiunque di noi in ogni cosa che crea, compreso un ciambellone.

6) non lo leggete se non potete proprio poggiare lo smartphone per almeno dieci minuti da dedicare a un paio di pagine.

7) non lo leggete se avete bisogno di intrattenimento puro, accendete la tv, giocate a padel, chiamate anche me, il numero ce lo avete.

8) non lo leggete se siete convinti che un romanzo debba insegnare. Tutto insegna, ma sarebbe più saggio valutare il curriculum del professore prima.

9) non lo leggete se siete dell’idea che una novella debba necessariamente imitare le forme del vero. Anche il diario di un adoloscente, nascosto sotto il letto, è pieno di fantasia.

10) non lo leggete se per voi è inconcepibile coesistano gli Dei, la radio, le armature di bronzo, il caffè e le automobili, senza che per questo il romanzo debba essere un fantasy. Perché no, non lo è.

Chiacchierando al telefono con Edoardo Nesi

Dal 1995 con Fughe da fermo Edoardo Nesi sta scrivendo l’epopea dell’industria manufatturiera italiana e un certo modo di intendere ed essere imprenditori, in un passaggio di testimone da padre a figlio non solo di un patrimonio economico, falcidiato dalla concorrenza dell’industria cinese e dalla poca lungimiranza della politica italiana, ma anche di un sistema di valori consolidato e radicato. Valori in cui è contemplato il fallimento e l’insuccesso, ma preservando un personale senso di dignità e un accorato sentimento di magnanimità. Arriva in libreria l’ultimo capitolo (forse) di questa epopea industriale: I lupi dentro per La nave di Teseo, con protagonista Federico Carpini, che ha aperto la saga industriale di Edoardo Nesi, accompagnato dalla miriade di personaggi che hanno animato e sono germogliati dalla penna dello scrittore nel corso di otto romanzi.

I lupi dentro è l’occasione per confrontarmi con lo scrittore pratese, in una piacevolissima conversazione telefonica.

La prima domanda che gli rivolgo è un bilancio.

Lo attraversiamo questo percorso di scrittura lungo quasi trent’anni, titoli alla mano, per arrivare a ciò che all’interno di esso rappresenta I lupi dentro? Una prosecuzione, una conclusione, una tappa, una mappa, un riepilogo, o che altro?

RISPOSTA: Quando scrissi Fughe da fermo ero un esordiente, un entusiasta della letteratura. Il mio sogno era scrivere un romanzo. La narrativa era una grandissima passione. Avevo fatto il traduttore di grandi autori. Ero un lettore, un grande lettore, soprattutto di racconti e di letteratura americana. I racconti sono stati per me molto importanti, fondativi. È grazie ai racconti che iniziai a scrivere. Fughe da fermo, per esempio, non nasce come un romanzo. Dopo aver scritto tanti racconti, alla fine mi accorsi che avevano lo stesso luogo: la provincia italiana intorno a Firenze, Prato; lo stesso protagonista; e soprattutto raccontavano il tempo presente, quello che a quel tempo era l’oggi. Cominciai a pensare che quei racconti potevano forse diventare i capitoli di un romanzo. Quella fu una grande rivelazione. Li stampai tutti e li misi uno accanto all’altro sul pavimento. Fu in quel momento che mi accorsi che c’era una sorta di storia, o meglio il tentativo di evadere dalla forma del racconto per arrivare da qualche altra parte. Alla fine non fu nemmeno tanto il lavoro che dovetti fare: mi limitai a riempire i buchi tra l’infilata di racconti che avevo scritto. Mi ritrovai un romanzo in cui curiosamente ogni capitolo si concludeva. Molto interessante come struttura: ricordo mi piaceva molto che i capitoli fossero in qualche modo autosufficienti. Quando Fughe da fermo fu acquisito dalla Bompiani toccai il cielo con un dito, e poi mi resi conto che durante la gestazione di Fughe da fermo, che considero ancora oggi tra i miei libri migliori, avevo creato dei personaggi che volevo continuare a seguire, a partire da Romano e Rebecca, i fratelli di Fede. Soprattutto mi sembrava importante continuare a raccontare quell’idea di famiglia e di città e di tempo che vedevo accadermi intorno. Sono contento di averlo fatto, perché poi è sparita, quindi è stato importante averla fissata per ricordarla anche in futuro. Mi sembrava importante raccontare quel momento storico visto da un punto di vista eccentrico, perché sono pochi i romanzi che raccontano la borghesia senza infangarla. Senza considerarla il simbolo di ogni male. Mi sentivo come se fossi entrato in un campo da calcio, vuoto: io e il pallone, e potevo fare tutto.

Questa è la ragione per la quale da Fughe da fermo ho continuato a raccontare un mondo e un tempo che non mi hanno più abbandonato: perché continuavano, purtroppo o per fortuna, ad affacciarsi altri personaggi. Dopo Romano e Rebecca, a ciascuno dei quali ho dedicato un romanzo, Ride con gli angeli (1996) e Rebecca (1999), mi allontanai un po’ con Figli delle stelle dove c’è Milena che ritroveremo più tardi, e alla fine di Figli delle stelle compare per la prima volta Ivo Barrocciai, protagonista de L’età dell’oro, che è uno dei miei personaggi più riusciti. Lo vediamo in Figli delle stelle già sconfitto dalla vita mentre cerca di corteggiare vanamente una giovane ballerina in un nightclub. Viene presentato come Ivo Barrocciai, grande industriale di Prato. Lì nacque l’idea di capire da dove veniva. Avevo nel frattempo cominciato a lavorare e vedevo questi piccoli imprenditori, dalla grande ambizione, che ottenevano un successo economico clamoroso e del tutto incomprensibile fuori da Prato. C’era una creazione di benessere che però non si concentrava nelle mani di pochi, ma si allargava. Piccolissime aziende che lottavano le une contro le altre, per garantirsi il mercato dei tessuti mondiali. Alcuni degli imprenditori pratesi erano personaggi letterari di per sé. Fattisi dal nulla e ritrovatisi con una fortuna immensa, spendevano in maniera guascona. A questa libertà mi pareva si agganciasse perfettamente il mondo di Fitzgerald, il mio autore americano preferito. Il Grande Gatsby è senza dubbio il romanzo che mi ha formato di più.

Ho pensato che quelle storie andavano raccontare, un’ossessione. Dopo L’età dell’oro, scrissi L’estate infinita, dove si racconta come Ivo Barocciai diventa un imprenditore negli anni Settanta e intorno a lui la città che cresce. Tieni conto che in quel periodo la popolazione di Prato aumenta a dismisura, da 70.000 passa a 140.000 abitanti. Arrivano tutti dal Sud, in particolare e inspiegabilmente dall’Irpinia, e cominciano a lavorare. Interpretavano lo spirito del tempo: avevano capito che se lavoravano sul serio e stavano a Prato, la loro posizione migliorava di gran lunga. Si creò in città una grande energia. Questo diventò il racconto dell’estate infinita, come l’ho intitolata perché mi piaceva l’idea che fosse un periodo incantato. La crescita economica è difficile da spiegare, perché quello di Prato sembrava un futuro che non finiva mai. Si aveva l’idea che il mondo fosse pienamente interpretato dalla crescita economica. E come dire che non fosse vero, se ogni anno a Prato le persone, anche gli operai, miglioravano le loro condizioni e diventavano un po’ più benestanti? Questa è stata un’altra condizione unica. Mentre in gran parte della provincia italiana, Treviso con i Benetton e Stefanel, Brescia e Bergamo con l’acciaieria, la ricchezza si concentrava nelle mani di pochi, qui a Prato tutti guadagnavano bene, anche gli operai. Erano i più pagati d’Italia e ogni volta che minacciavano uno sciopero ci si affrettava ad accontentarli. Vivere in questo mondo mi ha portato a pensare che quella fosse una fase straordinaria dell’Italia. Paese povero, che diventa ricco solo quando finiscono fascismo e guerra. Anche fuori delle grandi città e dalle grandi fortune. Ora che non abbiamo più questa felicità economica, sono soddisfatto di averla raccontata. I miei romanzi hanno raccontato una sorta di beep in cui la storia italiana da un punto di vista economico non aveva problemi. Ne aveva altri, certo, ma la crescita economica è capace anche di curare tanti altri problemi.

Si va a finire, quindi, a La mia ombra è la tua, dove Vittorio, che era già presente in L’estate infinita, diventa scrittore e vuole a sua volta raccontare l’epopea che io stavo raccontando con i miei romanzi. Ne La mia ombra è la tua si narra del successo ottenuto dal romanzo di Vittorio, e poi, ne I lupi dentro ho voluto raccontare la nascita del romanzo.

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Dieci Buoni Motivi per NON leggere “Madri oltre il destino”

Dieci buoni motivi

di Imma Pezzullo

per NON leggere “Madri oltre il destino”

Vi suggerisco di non leggere il mio libro se

1. Avete la lacrima facile

2. Siete legati ad una visione stereotipata della maternità

3. non avete fiducia nella forza delle donne di reinventarsi

4. non credete nella capacità delle donne di fare squadra

5. siete certi di aver già scoperto tutto sulla maternità

6. non amate parlare di sentimenti

7. non vi appassionano i racconti

8. non volete soffermarvi a riflettere su quanto sia complessa la maternità

9. non sentite il bisogno di scoprire cosa si cela dietro i sorrisi di facciata di tante madri costrette a nascondere a celare la propria sofferenza per timore di deludere i propri figli

10. se i primi nove motivi vi sembrano già abbastanza validi

Chiacchierando (di nuovo) con Paolo Cognetti

Paolo Cognetti, dopo averci condotto in alta quota con Le otto montagne e La felicità del lupo, scende Giù nella valle, con il nuovo romanzo, attento al formicolìo della vita, non solo umana. Se la misura breve, il respiro corto e profondo, è la sua cifra di scrittura, con Giù nella valle il respiro della narrazione si spezza e frantuma come già in Sofia veste sempre di nero.

Comincio il cammino insieme a lui Giù nella valle domandandogli cosa rappresenta il nuovo romanzo nel percorso di scrittura (se mai riconosce come un percorso i diversi libri che è andato componendo). Perché se da una parte temi e dettagli imparentano Giù nella valle con i due romanzi precedenti, Le otto montagne e La felicità del lupo, la struttura narrativa che procede per frammenti e l’alternarsi delle voci narranti lo accostano al romanzo con lo straordinario personaggio di Sofia, vicino e congiunto a Olive Kitteridge di Elizabeth Strout.

A che punto siamo con Giù nella valle?

© Stephan Vanfleteren
© Stephan Vanfleteren

RISPOSTA: Io avverto il mio percorso letterario in modo molto omogeneo. Ho solo due filoni separati: uno narrativo e uno saggistico, che porto avanti in parallelo. Nel secondo, molto vario, vanno a finire le mie guide su New York, le mie meditazioni di scrittura, i miei viaggi in Himalaya e in fondo proprio questo è: un diario di viaggio che segue le stagioni e le passioni della mia vita. Ma il primo filone è quello importante, credo. Perché per me la narrativa è la forma più alta. E allora se ripercorro quello vedo che ho cominciato con due raccolte di racconti, ho proseguito con Sofia (un romanzo di racconti), ho provato a scrivere un romanzo classico (ma soprattutto per vedere com’era, e per dimostrare a me e agli altri che lo sapevo fare), poi sono tornato a forme più sperimentali. La felicità del lupo è una composizione di vedute, un libro pittorico per come l’ho immaginato, ispirato alle 36 vedute del Monte Fuji di Hokusai. Giù nella valle invece è un album musicale, dove i capitoli sono le canzoni. A me sembra di continuare a sperimentare forme a partire da quella che sento mia d’elezione, la forma del racconto.

A volte i lettori fanno più caso a trame, personaggi e ambientazioni che alla scrittura. Devo essere sincero: per me le trame contano poco. E quando un lettore mi dice “preferivo i tuoi libri urbani a questi di montagna” o viceversa io penso che non ci siamo capiti molto. Sofia e Silvia della Felicità del lupo sono lo stesso personaggio. In Giù nella valle potrebbe esserci l’autogrill del mio primo Manuale. Pietro delle Otto montagne esisteva già in un racconto di Una cosa piccola, dove andava in montagna con la madre, e poi incontrava Sofia a Brooklyn sul finale di quella storia… Insomma il mio universo immaginario è molto compatto, sta tra Milano, il Monte Rosa e New York. I miei personaggi sono sempre gli stessi. Sono le loro tensioni che cambiano e soprattutto spero che cambi la mia scrittura, che si senta la voce di uno scrittore di 25, 35, 45 anni. Per me ogni nuovo libro è una perlina in più in una collana, mi piacerebbe che un lettore la percorresse tutta e avvertisse il legame che c’è tra un libro e l’altro.

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Chiacchierando (ancora) con Lisa Ginzburg

Con il nuovo romanzo pubblicato per Rizzoli, Una piuma nascosta, Lisa Ginzburg con la voce soave e piena che contraddistingue la sua scrittura, regala ai lettori e alle lettrici due personaggi che si incastonano nell’anima come se quello fosse il loro luogo naturale: Rosa e Tan. La prima, figlia volenterosa e determinata dei custodi della Quercetana, un luogo isolato a pochi chilometri da Firenze, di proprietà dei coniugi Manera. Il secondo, loro figlio adottivo, difficile, aggressivo, destabilizzante per la coppia. I due ragazzini si legano in un’amicizia fatta di giochi di carte e di silenzi, di spazi condivisi e di un lessico, che inventato da Tan solo Rosa riesce a decodificare.

Non è un caso, però, che queste loro rispettive dimensioni siano opposte. Non mi riferisco solo alle rispettive famiglie che li accolgono: umile e rassegnata quella di Rosa, sin da bambina molto attratta dalla signora Enrica con la sua eleganza sobria; anaffettiva e disarmata emotivamente la famiglia di Tan, strappato alla sua “prima vita” svoltasi in un orfanotrofio in Moldavia. Ma soprattutto, mi riferisco ai loro luoghi di elezione, nella splendida tenuta della Quercetana. Una quercia frondosa e accogliente con la sua ombra, protesa verso l’alto, quello di Rosa. Una buca scavata nella terra umida e fredda, quello di Tan.

Cosa ci dicono dei due protagonisti di Una piuma nascosta questi luoghi da loro “creati” per rappacificarsi con sé stessi?

RISPOSTA: Ho scritto questo romanzo restando sempre accanto alla dimensione spaziale che avevo inventato, tenendola davanti agli occhi. Ho lasciato muovere i personaggi di Rosa e Tan dentro la natura bellissima, incontaminata e un po’ incantata della Quercetana, un luogo della fantasia a pochi chilometri da Firenze, e l’ho fatto nella consapevolezza che per entrambi quel posto era, e sarebbe rimasto, una radice acquisita, non una base di appartenenza salda in virtù di una sua vicenda pregressa. Rosa alla Quercetana ci è nata, ma i suoi genitori no, anzi ci sono arrivati (come custodi della Villa) subito prima che lei venisse al mondo. Tan nello stesso luogo fa approdo quando ha undici anni, avendo alle spalle un’infanzia che si è svolta in una cornice difficile e non felice, tra paesaggi assolutamente diversi, frangenti freddi e aspri in Moldavia. Per entrambi, tuttavia, fare casa è una necessità, un bisogno dell’anima che resta d’altra parte per tutti e due inconcluso.  Se Rosa adora stare sotto a una quercia che ha eletto “sua”, se Tan si mette a scavare una buca nel terreno e desidera trascorrere lì dentro più tempo possibile, è perché per entrambi trovare un proprio rifugio è istanza fondamentale. Rifugio lo sono anche l’uno per l’altra, in forme diverse nel corso del tempo E se pure in modo alternato. Ma è la storia che ciascuno intrattiene con la propria radice il fulcro della trama, io credo. Rosa diventata adulta trova casa nel proprio lavoro, in una eccellente riuscita professionale come oftalmologa, Tan incontra un qualche (minimo) assestamento affrontando una ricostruzione “all’indietro” della propria storia; tutti e due però sono spinti da una stessa fame di casa, e questo anche li lega, li attrae (e li respinge). I luoghi scelti nel paesaggio della Quercetana da Rosa e Tan sono diversi, a dire la diversità ma anche la complementarietà delle loro nature. La spinta che verso quei luoghi li spinge invece non è poi così diversa. Una ricerca di terra, di base sotto i piedi, abita sia Rosa che Tan.

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Dieci Buoni Motivi per NON leggere “Per giusta causa”

Dieci motivi

di Danilo Conte

per NON leggere “Per giusta causa

1. Se ritieni che non ci siano più giuste cause per le quali vale la pena battersi

2. Se pensi che la vita scorra inesorabilmente segnata, senza la possibilità che un solo attimo, una sola decisione, possano cambiare il corso delle cose

3. Se hai rinunciato alla commozione e al sorriso

4. Se credi che l’indignazione sia un lusso che non puoi permetterti

5. Se ti piacciono solo i Supereroi e non i frammenti di una storia collettiva che tutti contribuiamo a scrivere

6. Se sei convinto che il colpevole sia sempre e soltanto uno

7. Se vuoi continuare a vivere ad occhi chiusi

8. Se non ne vuoi sapere niente di chi è disposto a perdere il posto di lavoro pur di non toccare le armi

9. Se pensi che il lavoro gratis oggi non esista

10. Se non sei arrivato a leggere il decimo motivo

(alcuni motivi di riserva)

11. Se credi che tante storie non possano fare la Storia

12. Se pensi che la dignità sia un concetto sopravvalutato

13. Se secondo te la lotta è un lusso che non possiamo più permetterci

14. Se pensi di vivere in un mondo perfetto

Dieci Buoni Motivi per NON leggere Una storia di vendette

Dieci Buoni Motivi

di Cronache Ribelli

per NON leggere Una storia di vendette

1. Non leggere Una storia di vendette se non conosci il progetto Cronache Ribelli. D’altronde perché leggere una raccolta di racconti di un progetto che si occupa di divulgazione storica? Sui social hanno oltre 300mila followers, se lo leggessero loro.

2. non leggere Una storia di vendette anche se conosci Cronache Ribelli. Raccontano storie – vere – di gruppi marginalizzati e oppressi. E in fin dei conti, a chi interessano gli ultimi, i diseredati, gli sconfitti della storia? Suvvia.

3. non leggere Una storia di vendette perché almeno uno tra i quindici racconti ti farà arrabbiare parecchio. Ad esempio l’ultimo, “Il caso della scultrice”, l’unico ambientato nel presente, nel quale la protagonista osa addirittura vandalizzare la statua di un generale degli alpini. E si tratta di una statua realmente esistente! Un vero e proprio attacco ignobile a un’apprezzabilissima opera d’arte (degli anni ‘80).

4. non leggere Una storia di vendette anche perché molti dei personaggi hanno un aspetto vagamente losco. E tutte e tutti ce l’hanno con la beneamata autorità. E vogliono portare avanti la loro vendetta. Pensa te, una vendetta per riparare le ingiustizie perpetrate dai potenti contro la gente comune. Signora mia, dove andremo a finire?

5. non leggere Una storia di vendetta se non ti va di saltare avanti e indietro nel tempo e nello spazio, dalla Parigi della Comune alle Guerre indiane, dall’America Latina degli imperi coloniali alle trincee della Grande guerra, dalla lotta partigiana alla Cina occupata dalle forze giapponesi. Si rischia di perdersi! 

6. non leggere Una storia di vendette se pensi che Amazon sia la salvezza dell’editoria e persino della cultura. Perché questo libro non lo trovi su Amazon, perché quelli Cronache Ribelli – pensate un po’ – su Amazon non ci vogliono stare. E neanche nella grande distribuzione: per acquistarlo non basterà andare nella Feltrinelli sotto casa ma dovete cercare una libreria indipendente. Che scocciatura.

7. non leggere Una storia di vendette se pensi che sia uno scandalo che una casa editrice viva solo delle sue forze e dei suoi libri venduti, senza contributi pubblici o di fondazioni private. Una scelta che permette di pubblicare tutto quello che si vuole pubblicare, senza condizionamento alcuno. Che arroganti.

8. non leggere Una storia di vendette se non accetti il fatto che in Cronache Ribelli non ci sono né capi né dipendenti. Si decide tutto insieme. Che confusione.

9. non leggere Una storia di vendette perché – che assurdità! – chiunque collabori al progetto viene ricompensato per il suo lavoro. Niente compensi in visibilità, pacche sulla spalla e buone intenzioni. Seriamente?

 10. non leggere Una storia di vendette se hai voglia di storie dove ci sono buoni e cattivi, dove i ruoli sono definiti, dove i protagonisti sono senza macchia e senza paura e dotati di un intuito infallibile. E dunque non leggerlo se pensi di essere dal lato vittorioso della storia.