di Andrea Cabassi

SE NON SI TORNA NON SI PARTE, SE NON SI PARTE NON SI TORNA

Recensione al libro di Marino Magliani

Peninsulario (Italo Svevo)

La Liguria: una terra di frontiera, una terra al confine. A sud è frontiera con il mare, a nord con l’Appennino, a ovest con la Francia, a est con altre terre fino a sfiorare l’altro mare , il Tirreno, E, poi, ci sono le valli che spingono i liguri verso il mare.

Non è forse la Liguria una specie di penisola, una penisola sui generis? Se ne potrebbe scrivere un Peninsulario, un peninsulario che ricorda un breviario, il “Breviario Mediterraneo” di Pedrag Matvejevic, un libro straordinario, testo geografico, poetico/filosofico, diario di bordo, portolano.

Ora un ligure “Peninsulario” (Italo Svevo 2022) lo abbiamo. Ed è un piccolo, grande gioiello questo libro di Marino Magliani, composto da cinque racconti che parlano di geografia, paesaggi, tipi umani, che parlano di una terra a cui sempre tornare, ma una terra che è orfana di nostos, che non si configura come Itaca nemmeno quando si è stati altrove per lungo tempo e ci si riapproda.

Prima di continuare due note biografiche su Marino Magliani

Marino Magliani è uno dei più importanti scrittori italiani, traduttore dallo spagnolo, con Paolo Ciampi e Luigi Preziosi cura la collana di narrativa “Senza rotta” per Arkadia editore; sempre con Paolo Ciampi dirige la collana “Appenninica” per Tarka editore. 

Nei suoi testi, da “Prima che te lo dicano gli altri” (Chiarelettere. 2018), a “il collezionista del tempo” (Sironi 2007),  a “Carlos Paz e altre mitologie private” (Amos edizioni. 2016), passando per “L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi” (Exòrma. 2017), ha sempre affrontato il tema delle origini, delle radici, il senso dell’espatriare e dell’esilio, lui che è nato nell’estrema propaggine occidentale della Liguria, ha vissuto in Argentina e oggi vive tra la Liguria  e la costa olandese.

La sua ultima opera,  prima di “Peninsulario”, è stato il romanzo “Il cannocchiale del tenente Dumont” (L’orma 2021)  che  è stato inserito fra i dodici testi candidati al Premio Strega 2022.

Difficile recensire “Peninsulario” quando un altro notevole scrittore italiano, Filippo Tuena, ne ha scritto una bellissima prefazione in cui mette in rilievo come Marino Magliani sia uno scrittore dell’Altrove, dall’Altrove, uno scrittore di frontiera perché la Liguria è terra di frontiera, una terra amata, ma anche amara perché c’è sempre qualcosa che impedisce la gioia del ritorno, c’è sempre uno scarto, qualcosa che non collima. Una prefazione che mette in rilievo differenze e somiglianze, soprattutto somiglianze con Italo Calvino, l’Italo Calvino de “Le città invisibili”, una prefazione che dà anche  una indicazione importante:  leggere con attenzione le righe introduttive ad ogni racconto, quelle righe introduttive che descrivono le diverse valli liguri.

Difficile dire altro, ma ci provo.

La Liguria: un lembo estremo di terra, il limite estremo d’Italia, una terra difficile, verticale, ma  bellissima con i suoi uliveti, con le sue terrazze scoscese, aspra e poetica, forse poetica perché aspra, con i suoi sentieri da cui si vede a strapiombo il mare. Un luogo estremo, una soglia, un confine o una frontiera.

Nel racconto  “La quota della frontiera”, la frontiera, il confine sono reali, ma assumono anche una dimensione simbolica. Il racconto è in gran parte ambientato dalle parti della valle del Roia. Stranamente non circola più fumo, sembra che lo spaccio di droga si sia fermato anche sul lungomare di Oneglia. Zanellu, un poliziotto sardo, entra in contatto, per capire, con Pantera, “il transero per eccellenza” . Cosa accadrà del loro rapporto fatto di continui passaggi tra l’Italia e la Francia?  Cadrà la frontiera simbolica che oppone il poliziotto Zanellu allo spacciatore Pantera. Diventeranno soci in questo loro scorrazzare da un confine all’altro senza e con carichi di droga da scaricare oltre il confine, una frontiera tutt’altro che simbolica? Al lettore scoprirlo e al lettore il piacere di leggere la superba descrizione dei paesaggi di questa zona della Liguria.

Nel racconto c’è un importante riferimento letterario. Nel loro scorrazzare in auto Zanellu coglie Pantera pensieroso:

“Chissà a cosa pensava Pantera, forse alla letteratura perché a un certo punto, dal niente, disse:

‘C’è uno scrittore di San Biagio della Cima che si occupa di confini’.

Zanellu fece un rumore, come un soffio sul naso. ‘Ti occupi anche di letteratura?’, e poi, ‘San Biagio non è in questa valle…’” (Pag. 55-56).

L’autore citato è Francesco Biamonti, che ha ambientato i suoi splendidi romanzi nelle zone dell’estremo ponente della Liguria mettendo spesso al centro della sua narrazione contrabbandieri e passeur. Qui Magliani, grande conoscitore dell’opera di Biamonti, dialoga con lui quasi sottovoce, ma avendolo ben presente, come ha presente Calvino e Boine.

Muri a secco o in cemento da erigere come confine con il vicino costituiscono l’ossatura del racconto “Il muro di Jantje”, ambientato in Val Prino:

“Il confinante possedeva la vigna sotto la sua e l’aveva obbligato a rialzare il muro. Tutto lì. Una parte del muro era crollata l’anno prima, e il confinante sosteneva che in Liguria i muri franati in terreni di proprietà altrui bisognava rialzarli entro la stagione. Jantje era olandese e preferiva stare alle leggi italiane, non a quelle liguri. Allora il confinante, buon giocatore di bocce, si era messo a ridere e a usare metafore da bocciodromo, spiegandogli che lui faceva tornei di pétanque in mezza Liguria e ovunque andasse vigeva un regolamento locale, e quindi questo valeva anche per i muri” (Pag. 93).

Ci sono regole per costruire un muro; la soglia profonda almeno trenta centimetri e larga settanta, un lavoro molto faticoso con il problema delle fasce che è che:

 “non ci si riusciva a lavorare con nessun cingolato e le opere dovevano essere fatte a mano, come un tempo. Questo era anche il motivo per il quale i contadini della valle avevano preso certe decisioni e le terre irraggiungibili dai mezzi meccanici erano state abbandonate. Ora l’acqua piovana si perdeva nelle fasce, spingeva i muri, provocava i crolli.

Ma Jantje era un lettore di Boine e Calvino e si era innamorato del paese e di quelle vecchie fasce di vigna sopra le case, e poi era giovane, forte, e le soglie le aveva fatte profonde e disposte di gabbie di ferro, come si potenziavano argini e dighe dalle sue parti” (pag.94-95)

Invece che un muro  secco un muro in cemento nella speranza che non si “sieda”. E ancora una volta la tematica del confine che non è solo quella del muro eretto per esplicita richiesta del vicino. È il confine che esiste tra legge universale e legge locale, è il confine che esiste tra la tradizione italiana e quella olandese. Non solo: ogni confine sembra crollare, tutta la Liguria sembra franare e questo lo percepiamo in  tutti i racconti. Del resto uno dei primi a denunciare la condizione della Liguria affrontando il problema della speculazione edilizia fu Italo Calvino.

Un’ultima annotazione su Jantje e i confini. Dopo un lavoro faticosissimo, dopo che qualcuno gli ha detto che se il muro si siede lui potrà sempre rialzarlo, Jantje è  stanchissimo:

“Jantje era stanco, una sensazione che sembrava dettata come da un passaggio, una frontiera attraversata, lo scarto del sole” (Pag. 104).

Una frontiera simbolica la ritroviamo anche nel racconto “L’uomo veloce”, una frontiera – che, ad un certo punto, sembra cadere ma che, in realtà, non cade – tra uno scrittore che è nato tra le valli e i paesi che vengono descritti  e un uomo che, in quelle stesse vallate, ha una villa, un uomo che si dice sia il padrone di molte televisioni e abbia un ruolo fondamentale nel campo dell’editoria. Mondi diversi, modi diversi, con lo scrittore che è in agguato perché vorrebbe incontrare e fermare l’uomo veloce e parlargli dei suoi scritti. Mondi diversi: per l’uomo veloce arrivare nella sua villa in quella zona della Liguria richiede  non più d tre ore con la velocissima Audi grigia. Si dice, poi, che abbia anche l’autista. Per lo scrittore arrivare in quelle terre in inverno è tutt’altra storia:

“Per me venire d’inverno è sempre stato un problema, vivevo (allora, come oggi) in Olanda, lavoravo saltuariamente al porto, scaricavo pesce surgelato, o traducevo atti di ufficio per avvocati, dichiarazioni di piccoli spacciatori e trafficanti italiani e spagnoli, ai quali facevo da interprete durante i processi. Inoltre, diciamolo, scrivevo romanzi. Spostarmi in Liguria durante l’inverno, malgrado al paese possedessi una dimora e una legnaia, è sempre stato un disagio. Anche economico. Col bel tempo trovavo facilmente qualche giornata da fare in campagna, bruciare sterpaglie e ramaglie di potatura, raccogliere le olive, porgere le pietre per rialzare un muro caduto. Ma se pioveva, e d’inverno pioveva spesso, tiravo la cinghia e più di una volta mi era toccato fregare un po’ di cachi e arance negli orti” (Pag. 68-69).

Ad un certo punto della narrazione lo scrittore, sempre in cerca di un incontro, si trova davanti a Villa Scenchi, la villa dove risiede l’uomo veloce. Spera di essere visto e notato. Intanto auto, Ape car, camioncini si fermano per chiedergli se ha bisogno di un passaggio. Alla fine ne accetta uno

Riporto quello che Magliani scrive. La citazione è un po’ lunga, ma la pagina è così bella e importante che merita di essere riportata per intero:

“Mi chiedevo: Perché le macchine ti offrono un passaggio, perché ti salutano tutti? Via, perché sono un personaggio pop, sono figlio di una storia, di un mondo, perché è così, lo era e lo sarà… Se voi tracciate un cerchio intorno ai confini della valle (montagne e bagnasciuga compresa spalliera verticale di frontiera) e ne cercate il centro, scoprirete che nel carruggio che sta al centro di tutto c’è un portico, e la sotto c’è casa mia, la mia storia, ci sono i miei romanzi mai pubblicati e i miei racconti, il pugno di poesie, persino le mie traduzioni inedite, e queste fanno anch’esse parte della storia del figlio di quel carruggio. Ci sono i miei viaggi, che non sono viaggi, ma fughe, esili, diserzioni, c’è il non-luogo dell’Olanda dove vivo ora, la Spagna dove vivevo da giovane, l’Argentina e poi la Norvegia, posta anch’essa temporalmente tra la Spagna e l’Olanda. Sa, è per questo che tutti mi salutano, direi all’uomo veloce, per questo si fermano a chiedere se voglio uno strappo. Sanno che sono l’altro, quello senza macchina, che non si sa perché scrive e parla sempre di libri.

In macchina ne discussi con l’ometto che mi aveva rimorchiato. Gli dissi una cosa del genere: ‘Io sono l’elemento pop di questo Far West ligure di frontiera, ti rendi conto? Sono un romantico come Ortis, con la differenza che io qui ci sono nato e me ne sono andato per realizzare il progetto letterario di frontiera’” (Pag.78-79).

In queste pagine fortemente evocative autobiografia e finzione narrativa si incrociano, si mescolano e continuano a incrociarsi andando avanti nella narrazione.

Lo scrittore riesce, finalmente, a incontrare l’uomo veloce, a dirgli che è uno scrittore, che scrive di

“cose liguri, di frontiera, con molto paesaggio e poca trama” (Pag. 81).

L’uomo veloce, che sembra avere fretta e poco ascolta i problemi che assillano le vallate liguri, risponde di mandare a lui il suo scritto che poi lo girerà a X.

Lo scrittore manda e non avendo risposta telefona. Nulla è arrivato.

L’estate dopo incontra di nuovo, lì, in Liguria, l’uomo veloce che lo invita a mandare ancora. Stavolta X risponde, ma il problema è che nella scrittura manca il nostos.

Dopo diverse peripezie che lascio scoprire al lettore lo scrittore invia una lettera a X e riflette sul fatto che il nostos, nei suoi scritti, non c’è di proposito

“forse perché non si tornava mica da nessuna parte, anche se in effetti si tornava, dal momento in cui si partiva. E il bello era lì, perché se non si torna non si parte e se non si parte non si torna” (Pag. 90).

Eccolo allora, qui, in queste righe, il sapore amarognolo dei racconti di Magliani ben individuato da Filippo Tuena nella sua prefazione. Ecco, dunque, che la Liguria, amata, amatissima, non è Itaca.

Ecco, dunque, la tematica che percorre i cinque racconti: la frontiera, l’assenza del nostos.

“Neanche il tempo torna, conosce frontiere, forse quelle le ripassa ma non so come fa”.(Pag. 90).

Che neppure il tempo torni è evidente nel primo racconto “Manico”, dove, forse, se il tempo torna, torna in forma di rimpianto perché non è possibile che torni uguale a prima.

Qui si assiste al rito della riviera quando arriva l’estate: abbordare le turiste del Nord Europa. Una riviera che con Taggia confina con la Valle Argentina popolata di pitosfori e ginestre.

Il più noto seduttore di turiste è Orfeo Taschellini da Castellaro soprannominato il Manico, sempre vestito di bianco e dai baffi spioventi. Il Manico che, con le sue tecniche e la sua abilità, in qualche modo, segna un’epoca.

Molti anni dopo, quando del rito restano solo i rimasugli, il Manico è ancora attivo come se il tempo non fosse passato. Ma lo è e il personaggio diventa quasi patetico nel suo restare avvinghiato al passato e ai riti di allora. E’ proprio vero: il tempo non torna, non conosce frontiere e se le attraversa non sappiamo proprio come fa.  

Poche righe sull’ultimo racconto che è anche il più lungo, “Il cuculo”. Lascio al lettore il piacere di scoprire la trama. Qui basti dire che, ancora una volta, ci troviamo davanti a frontiere e confini: confine tra amicizia e tradimento, tra l’apparire e l’essere, tra l’amore e l’odio, tra la normalità e la follia, tra la vita quotidiana e il suo lento e progressivo deragliamento.

“Peninsulario”  è un libro dove,  per dirla con il Tuena della prefazione, “gli incontri hanno sempre del fiabesco, o del selvaggio (penso al versante francese del Colle di Tenda, percorso in moto anni fa, meravigliandomi di quel precipitare a mare tra orridi e strapiombi e che qui appare di sfuggita in una breve puntata oltre confine) (Pag. 8).

“Peninsulario” è un libro profondo, scritto stupendamente,  nello stile apro e evocativo ad un tempo tipico di Magliani.

Un libro dove ogni pagina va gustata e meditata.

Dove ogni pagina è un luogo su cui sostare.

Dove ogni pagina è un anfratto da esplorare.

Lo Scaffale di Andrea: Peninsulario