Perdersi. Questo è il consiglio che posso dare alle lettrici e ai lettori di Ferrovie del Messico (Laurana editore). Sia perché se seguissero la mappa delle ferrovie messicane disegnata da Cesco Magetti, su ordine del suo superiore della Guardia Nazionale Repubblicana Ferroviaria della neonata Repubblica Sociale Italiana, non potrebbero che errare per le città lì indicate, forse senza neppure trovare i binari. Sia perché nelle ottocento fitte pagine del romanzo bisogna lasciarsi andare ed essere pronti a ogni tipo di avventura, incontri, situazioni.

Partiamo da lì: nel febbraio del 1944, mentre infuriano i più brutali e feroci anni di guerra che l’Italia abbia conosciuto, arriva un ordine incomprensibile, o meglio un ordine insensato: mappare le ferrovie del Messico. Perché?

RISPOSTA: Perché la nostra vita è dominata dal caso. O dal destino? Chi lo sa. Chi può saperlo. Non io di certo. Ma mi interrogo spesso su questioni simili. Caso, destino, provvidenza, sono elementi importanti in Ferrovie del Messico. Le cose davvero importanti ci tengono lì, in apprensione, ci monopolizzano la vita, proviamo a inseguirne il senso, ma poi un bel giorno accade qualcosa che fino a dieci secondi prima ritenevamo la cosa più inutile e insensata che ci potesse capitare (o non la ritenevamo per niente, proprio non ci sfiorava neppure l’idea che quella cosa esistesse, o potesse entrare nella nostra vita), e quella cosa marginale, stramba, priva di logica, quella cosa che sfida ogni razionalità, ci cambia la vita (o può cambiarcela). È quello che succede a Cesco Magetti, milite della Guardia nazionale repubblicana di Asti col mal di denti, cui viene assegnato quest’ordine strambo e apparentemente insensato: lui si domanda subito a che serva eseguirlo (anzi prima ancora si sente perduto, come quando ci chiedono una cosa che sentiamo difficile da realizzare per mille motivi, uno dei quali è che non abbiamo neppure una minima idea di come fare a realizzarla), chiede lumi al suo superiore, che gli ha appena impartito l’ordine, e neppure lui sa che cosa rispondere; qualcuno ha dato l’ordine a me, dice a Magetti, e qualcun altro lo ha dato a quello che lo ha dato a me. E via così. Da quel momento, però, per Cesco Magetti, l’insensato diventa l’unica cosa che conta, l’unica cosa sensata. Volevo provare a fare questo: prendere l’insensatezza e attorno a questa costruire tutto il romanzo, volevo che l’insensatezza diventasse imprescindibile, che il marginale diventasse sostanziale (sia per il lettore che per il protagonista). Tra l’altro questo proposito mi permetteva di affrontare quel particolare periodo storico, un periodo storico tragico, confuso, caotico, tremendo, mediante una delle mie cifre stilistiche: l’ironia, declinata in tutte le forme che mi sono venute in mente, di capitolo in capitolo. 

E scrivi bene quando consigli al lettore di Ferrovie del Messico di perdersi. Ci si deve perdere. Ma ho provato a costruire un’architettura nella quale ci si ritrova poco alla volta, fino a ritrovarsi del tutto alla fine: ogni piccolo dettaglio è stato messo nel punto in cui è stato messo per una ragione precisa, ogni piccola tessera del mosaico, è fondamentale. Volevo senza dubbio scrivere un romanzo d’avventura, e nel contempo un itinerario, un viaggio, non un romanzo di viaggio, ma proprio un viaggio): il viaggio del protagonista maschile, Cesco, verso una nuova dimensione di sé, verso una nuova conoscenza della propria essenza (per questo credo che nelle Ferrovie ci sia anche un po’ di romanzo di formazione) e un viaggio nella storia della letteratura attraverso i suoi topoi letterari, dalla “quête”, la ricerca, alla “catabasi”, la discesa nel regno dei morti, dalla mia amata ambientazione cimiteriale al “locus horridus”, che nelle Ferrovie coincide con il “locus amoenus” ed è rappresentato dalla mitica città di Santa Brígida de la Ciénaga (per alcuni è locus amoenus, se non altro come meta finale della ricerca, anche se in realtà è un locus horridus), a tanti altri.

Parliamo della forma che Ferrovie del Messico assume come romanzo? Perché quello che mi ha stregato e incatenato nella lettura è la sua forma labirintica, all’interno di un’architettura accurata e precisa. Inevitabile pensare a Borges, e a vedere in Ferrovie del Messico un omaggio al Romanzo, nella sua essenza più pura.

Ed è molto convincente, e perfettamente riuscita, l’idea che Ferrovie del Messico sia un viaggio. Un viaggio nella Letteratura, a bordo della forza portentosa delle storie e dei casi umani, delle esistenze e degli intrecci del destino. Un viaggio in cui razionale e irrazionale si mescolano scatenando un’esplosione, una voragine, che diventa attraversamento dell’Altrove, alla ricerca di un senso altro. 

Come hai lavorato perché tutto tornasse in ottocento pagine? da dove sei partito per costruire Ferrovie del Messico?

RISPOSTA: La mia idea era proprio una mappa – o una cartina – (sono appassionato di cartine geografiche, mappe, atlanti, mappamondi, cose così), ma una mappa del tutto scomposta, come un puzzle o come un mosaico; avevo in mente di lasciare che la costruzione del romanzo esplodesse, così come esplode la costruzione linguistica e sintattica, con l’enorme ambizione di ordinare, durante la narrazione, a conti fatti, di capitolo in capitolo il mondo con la scrittura (del resto se non avessi avuto enormi ambizioni non mi sarei neppure messo a scrivere – poi: riuscire a realizzare le imprese che si intraprendono è un’altra faccenda, ma credo ci si debba provare). Per questo ho scelto di ambientare il romanzo in un periodo storico certamente tragico, ma anche molto confuso, caotico, una terra desolata nella quale far muovere i miei personaggi, quasi tutti rappresentanti di un’umanità piuttosto ai margini (da Cesco stesso fino a Giustina e ai mascalzoni-gaglioffi-manigoldi dell’Aquila agonizzante). Dunque avevo una mappa fatta a pezzettini e volevo che fosse il lettore a ricostruirla a poco a poco, perdendosi e ritrovandosi di volta in volta, talvolta imboccando strade senza uscita, vicoli chiusi, proprio come nel labirinto borgesiano da te citato, che è reso nel romanzo dal palazzo della Orpo a Berlino, quello nel quale si muove e lavora il motore inconsapevole di tutta la vicenda, quel Bardolf Graf che vaga da un ufficio all’altro dell’enorme palazzo della burocrazia nazista per espiare una colpa che non sa di avere commesso, anzi una colpa che nessuno conosce veramente. Questa mappa mentale è il punto di partenza di Ferrovie del Messico: viene subito dopo alcuni personaggi che avevo in mente, per esempio Tilde, che era un personaggio che mi ronzava in testa da qualche anno (è anche la protagonista di un racconto contenuto in Inciampi, il mio libro di racconti, intitolato “Storiella delle cartoline”) e che ha trovato la sua compiutezza nelle Ferrovie, e dopo il titolo, che è stato comunque un punto di partenza, perché è stato proprio il titolo (che deriva da un “titolo azionario”, il titolo delle Ferroviedel Messico su cui investì parte dei propri soldi Marcel Proust, e che mi ha dato il via per trasformare un titolo azionario in un titolo romanzesco). 

Per quanto riguarda i personaggi l’immagine che mi viene in mente è quella di una giostra vorticosa, in cui i lettori e le lettrici salgono insieme a loro per condividerne il tumulto degli eventi di cui sono protagonisti, o vittime, o carnefici. Oppure quello di un ballo scatenato con uno scambio di ballerini e di coppie danzanti: alcuni prendono la scena e si pongono sotto i riflettori, altri sono più defilati e via via scompaiono dalla pista sfumando nel buio. Le vicende di Cesco e il suo incontro con Tilde fanno da filo conduttore per la miriade delle figure, esilaranti, tragiche, bizzarre, strampalate, visionare, che si agitano e dimenano tra le pagine. Come nell’Iliade il nucleo principale del racconto è l’ira di Achille, su cui si innestano le storie di tutti gli altri personaggi, così potremmo dire che per Ferrovie del Messico le due tracce più persistenti della narrazione sono quelle lasciate da Cesco e Tilde? Non è da loro che si dipartono i mille rivoli del romanzo?

RISPOSTA: Intanto mi piacciono moltissimo entrambe le immagini che hai trovato, sia quella della giostra vorticosa, sia quella del ballo. Rispecchiano alla perfezione, anche se per motivi diversi, ed entrambi validi, il senso di coralità che ho provato a dare al romanzo. 

Poi, certo, è vero che Cesco Magetti è il mio Achille (o il mio Odisseo), ed è vero che Tilde è l’altro personaggio fondamentale della vicenda; non è una Beatrice, non è una Dulcinea del Toboso: Tilde è protagonista assoluta, sia della sua vita che del romanzo nel quale si narra la sua giovane vita; come i personaggi epici, Tilde ha una cantrice (o una cantatrice?), una aeda, la domestica di casa, Anna. Dal suo racconto emerge che Tilde incarna una possibilità di ribellione, e poi una ribellione concreta, all’autorità. Capisco come Cesco ne rimanga stravolto, stecchito, innamorato perso, ed esca sfilosomiato dal primo incontro con lei: anch’io mi sono innamorato di Tilde, prima di Tilde anziana, la Tilde che si fa leggere le cartoline spedite da un uomo che ha girato il mondo (Cesco?) dal figlio – mi riferisco al racconto “Storiella delle cartoline”, in Inciampi – e poi di Tilde giovane e “scostumata”, “ribelle”, “strana”, “disperata”, “lirica” e “ironica”, il cui linguaggio è un linguaggio del sogno.

Aedo. Forse questo è il termine giusto per definire il narratore di Ferrovie del Messico, sia quando è in prima persona, nelle parti narrative quanto nei dialoghi o negli altri inserti di varie tipologie testuali che frammezzano e impreziosiscono il romanzo, sia in terza persona. Un cantastorie, con uno stile un ritmo un lessico, con esplosioni in neologismi, parole rare, qualche dialettismo, che rendono con forza immaginifica e una vibrazione costante, con melodia e cantabilità, un’oralità piena di fascino e sempre mutante, come le mille acrobazie di un saltimbanco. Nella lingua, anche nelle parti più tragiche del romanzo – penso al dialogo tra Tilde e Kofler – l’espressione formale è sempre puro divertimento, acrobazie, voli e riecheggiamenti.

Ti senti alla Palazzeschi un saltimbanco del romanzo? E questa lingua vertiginosa quanto appartiene alla tua anima? C’è il gusto per l’oralità o è un atteggiamento innato?

RISPOSTA: Un saltimbanco del romanzo magari no, però mi sento uno che ha voglia di giocare con le storie e con la scrittura. Anzi, per me la scrittura ha davvero senso soltanto se sussiste questa componente. Intendo naturalmente la mia scrittura, non dico che la scrittura debba essere così per forza, da lettore sono onnivoro, ho sempre letto di tutto, e da tutto ho provato a imparare qualcosa. Però credo, se non è così, o se non è del tutto così, devo cercare il modo di migliorarmi, che queste acrobazie linguistiche siano sempre funzionali alla narrazione, alla storia, abbiano sempre una loro funzione specifica atta ad accrescere la fruizione della storia che sto raccontando. Una lingua stratificata insomma, che parta dallo spunto dell’oralità (chi ha definito il mio modo di scrivere un parlato letterato è andato molto vicino a quel che provo a fare con la scrittura) per poi racchiudere anche altro. Se avessi scritto anche la seconda parte del romanzo, quella che mi è rimasta in bozza e che forse non scriverò mai (ma chi può dirlo, in fondo), avremmo assistito al nostos di Cesco Magetti ad Asti, dopo anni di peregrinazioni tra Svizzera, Francia, Messico (ovviamente), Argentina, e quel nostos sarebbe stato principalmente un nostos linguistico, un ritorno alla lingua madre, che io ho provato a rendere nel romanzo come un piemontesitaliano, sia per costruzione del periodo (ovviamente non in tutto il romanzo, ma in determinate parti), sia per lessico. 

Questa lingua vertiginosa appartiene alla mia anima senz’altro, ma c’è anche molta ricerca, che poi è la parte bella della faccenda: trovare soluzioni linguistiche per scrivere una storia. 

Scendiamo dai binari delle Ferrovie del Messico e catapultiamoci nella vita reale del libro e del suo autore. Che poi chissà se sia davvero questa di qua la vita reale del libro e del suo autore!

Comunque stiano le cose ontologicamente, Ferrovie del Messico ha stregato, incantato, innamorato tanti, ma tanti lettori. Vincitore del titolo di Libro dell’anno a Fahrenheit, la trasmissione radiofonica dei lettori italiani. Nella rosa dei dodici titoli in corsa per il Premio Strega, il più prestigioso della narrativa italiana. La prima volta, credo, che la casa editrice Laurana arrivi fin lì.

Che rapporto ha Gian Marco Griffi con i premi letterari? 

RISPOSTA: In effetti a un certo punto della scrittura, specie nella revisione/rielaborazione, mi sono fuso con Ferrovie del Messico: uscivo di casa (per comodità ho fatto coincidere la via in cui abita Cesco Magetti nel romanzo con la via in cui abito io) e mi aspettavo di trovare un reparto della Wehrmacht che avanzava al passo dell’oca, mi sono messo a bere idrolitina (la bevo ancora), cercavo forsennatamente un libro intitolato Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México, amavo profondamente Tilde (e la amo ancora) e ogni volta che entravo in un cesso pubblico speravo ci fosse una scala ripida che mi conducesse nel regno dei morti. Ma a parte questo la mia vita reale è fatta di altro, di tante rotture di palle, come tutti, e di brevi felicità: i tanti, tantissimi messaggi dei lettori del romanzo, intendo lettori che hanno amato davvero il romanzo, come non potevo sperare che qualcuno lo potesse amare così, sono una gioia incredibile. Che si scrive a fare se non per far innamorare qualcuno della storia che hai scritto, di come l’hai scritta? E qui arriviamo al mio rapporto coi premi: fino a settembre 2022 non sapevo manco come fossero fatti, i premi letterari, e poi dal Premio Leonforte in poi, Ferrovie del Messico ha fatto incetta di premi e riconoscimenti. Che dire, umanamente parlando i premi li detesta soltanto chi non li piglia. Chi non li piglia li evita, li deride, li critica ferocemente. Perché è inutile nascondere che fa piacere riceverli, anche se talvolta è tutto un po’ tragicomico. Il 9 giugno uscirà una raccolta di racconti per Racconti Edizioni intitolata Tutti i nostri premi, titolo mutuato dal libro di Bernhard, e tra i vari racconti ci sarà anche un mio racconto lungo sui premi letterari. Lo Strega è un gioco, se lo affronto razionalmente mi rendo conto che è stato bellissimo esserci, nella dozzina. Poi certo, se resto fuori dai cinque ci sarà una certa delusione, quando giocavo a calcio mi incazzavo anche quando perdevo le partitelle di allenamento, figuriamoci per lo Strega, così come mi sono girate per non essere entrato nella cinquina del Campiello per un solo voto. Ma sono delusioni e incazzature che restano lì, in superficie: sto giocando, se vinco sono contento e se perdo mi dispiace. Ma non cambia nulla nella meravigliosa avventura di Ferrovie del Messico. Né cambia qualcosa nella mia “carriera” di scrittore del lunedì. La base è che scrivere è la cosa che mi piace davvero fare, mi diverto da pazzi. Scriverò finché potrò, e lo farò indipendentemente dalle pubblicazioni, dai premi, dai riconoscimenti, da tutto. Certo, ora ho anche una sorta di “responsabilità” nei confronti dei lettori che hanno amato Ferrovie del Messico, non posso far finta di niente. E ne terrò conto quando scriverò la prossima cosa che scriverò. 

Chiacchierando con Gian Marco Griffi
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