Senza

Per cominciare la conversazione con Lanfranco Caminiti vorrei condividere l’incipit di straziante incisività di Senza pubblicato da Minimum fax, con chi leggerà questo nostro scambio, come si fa con le cose preziose:

L’avrebbero vestita le sue nipoti. Io diedi loro l’abito che aveva comprato da poco e una camicia di percalle. L’abito era rosa antico e smanicato. E Paola non girava mai a braccia nude, le sembrava poco elegante. Metteva sempre, a seconda le stagioni, un maglioncino con i bottoni, una giacchina, una camicia. So che adorava questa di percalle. Uscii dalla stanza.

Ci vogliono delle pause, silenziose e durature, per ogni capoverso di questo libro che con un’essenzialità lancinante e carica di sentimento riflette sull’amore e sulla vita attraverso la perdita e la malattia. Credo che sia in questa dicotomia oppositiva che le pagine di Senza toccano il lettore e l’attraversano lasciando una scia indelebile.

E c’è un’altra contraddizione foriera di universalità: già nella seconda pagina Lanfranco Caminiti annuncia la sua condizione di vedovo e ne denuncia la mancata elaborazione della figura sociale, eppure nel libro sempre più nitidamente quella che viene fuori è la condizione umana, con tutto il suo portato di dignità e passione.

Cosa ha spinto Lanfranco Caminiti, già autore di libri di storia e racconti, oltre che di articoli per vari quotidiani e riviste, a scrivere Senza?

lanfrancoRISPOSTA: Ho scritto Senza di mattino, molto presto, spesso ancora buio, in un silenzio assoluto. Una, due ore. Un piccolo paragrafo alla volta. Non tutti i giorni. Avevo con me piccoli appunti, foglietti, note, che avevo preso durante la lettura di autori che raccontavano la perdita, spesso dopo una malattia, della loro compagna, del loro compagno – Barnes, Didion, Oates, Lewis, Gorz, per citarne alcuni, forse i più noti. Avevo iniziato a leggerli per cercare conforto – mi ero chiuso, isolato, e la letteratura mi sembrò l’unica possibilità di tenere ancora al mondo, o meglio: di tenermi aggrappato al mondo. Il mio dolore rimaneva assoluto e singolare, ma ritrovavo pensieri e sentimenti e situazioni che avevo vissuto io stesso. Una cognizione del dolore, una condizione del dolore. Comune, umanissima, universale. Ma ogni pensiero che avevo appuntato era di differenza. Non solo, come era comprensibile, per lo svolgersi degli eventi, per i tempi, per i luoghi – ma per la lingua. Quegli stessi sentimenti, quegli stessi pensieri, quello stesso dolore – risuonavano dentro di me, ma avrei voluto dirli altrimenti. Dirli da me. Dovevo abitare, indossare una mia lingua – e non sapevo se ne sarei stato capace. Sono uno scrivente – scrivo saggi, racconti, articoli, anche per mestiere oltre che per passione, e ogni volta la scrittura si modula a seconda della “cosa” e a seconda del possibile lettore. Ma qui il mestiere non mi avrebbe sorretto: la “cosa” ero io stesso – non una storia documentale, o di invenzione, o un’opinione argomentata. E non avevo un lettore immaginario a cui pensare – non sapevo neppure se sarei stato davvero in grado di trovare la mia lingua, di raccontare il mio cuore, di presentare al mondo la mia compagna di vita. Così, ho cominciato a scrivere come parlando a Paola, a mia moglie, a continuare la nostra conversazione. I primi tempi della vedovanza, andavo al cimitero e mi portavo dietro un giornale, un settimanale, a volte un libro. C’era una frase, un commento, un pensiero che ero sicuro l’avrebbero interessata – per farli proprio o per contestarli. Leggevo, ascoltavo quello che ne diceva, poi dicevo la mia, lei mi controbatteva. Leggevo sottovoce – chi veniva al cimitero si era abituato a sentirmi – poi, il resto dello scambio avveniva in silenzio, dentro di me. Mi dissi che tutto questo poteva ripetersi scrivendo – che era lei il mio “lettore” immaginario, a lei raccontavo il mio dolore, il lutto, il senso della perdita, dello smarrimento. Così, la lingua è venuta quasi di conseguenza, si è trovata: una lingua asciutta, densa, senza retorica (che non avrebbe sopportato), senza autocompiacimento del dolore. Una lingua a setacciare, a togliere, a lasciare sedimentare solo quello che davvero era importante. Che valeva la pena dire. Così, la lingua si è frammentata – proprio come accade in una conversazione. A volte parlavo a lei, e usavo il tu, a volte ricordavo momenti della nostra vita, riattraversavo il periodo duro della malattia, a volte erano pensieri sparsi, smozzicati, incompiuti. Ne è venuto così qualcosa che sta tra il memoir e la lettera indirizzata – dipendeva molto anche dall’umore di quelle mattine, alcune più malinconiche, altre più elaborative. Ho lavorato parecchio sulla lingua del testo – e, successivamente, un contributo importante lo ha anche dato Fabio Stassi, l’editor di Minimum Fax che mi ha seguito, con cui ci siamo confrontati quasi rigo per rigo. 

Alla fine però, direi questo: ho scritto Senza per raccontare di Paola – della sua unicità, della sua semplicità straordinaria.

 

Di letteratura in Senza se ne muove tantissima, come brezza leggera che agita la tenda dei tuoi pensieri e delle tue sensazioni. Ma un libro su tutti sin dalla parte iniziale prende il sopravvento e diventa nel modo remoto e recondito dei libri importanti a suo modo un interlocutore.

Mi abbandono di nuovo alle tue parole:

Caitanello Cambrìa – pescatore dell’Horcynus Orca di D’Arrigo – sa tutto questo per natura. E la sua natura è il mito. Il mito, per così dire, a pelle, sovrappensiero. Il mito delle cose che ci stanno intorno, di ciò che coglie lo sguardo. È la mia stessa natura, e non ne ho alcun merito. Mi basta scendere alla marina e vedo le sue stesse cose, a specchio, di qua del golfo dell’Aria, vedo le Eolie e lo Stromboli che fuma, l’altra faccia, e vedo Sparta e Acqualatroni dove lui vedeva Nicotera e Bagnara e Palmi, vedo lo scill’e cariddi e le sue correnti, vedo le fere e le feluche – è solo il senso di marcia che è diverso, dove per me dritta, per lui sinistra, e viceversa – e le pescespadesse fianchipieni e i maschi puddicinedda, e i saraghi e le ricciole e la ciciredda. Solo l’Orca non vedo, ma la sento, la sento immergersi e aggallare e soffiare, la terribile Horcynus Orca che sta sempre morendo e forse no e nel morire e forse no conferma la sua immortalità. La sua immortalità di morte, la sua mortale immortalità. Non la vedo ma la sento nel mio cuore, che il dolore ha ingigantito quanto tutto lo Stretto che sta qui davanti me, e lì troneggia e porta carestia di mare perché tutto assomma e strazia nel lutto.

Qual è il rapporto che Lanfranco Caminiti, come uomo e scrittore, intrattiene con Horcynus Orca, e quale relazione è intessuta nella trama di Senza?

RISPOSTA: Il mio rapporto con l’Horcynus di D’Arrigo è anzitutto da lettore. Da lettore, lo considero uno dei capolavori della letteratura italiana del secondo Novecento – insieme al Partigiano Johnny di Fenoglio e al Pasticciaccio di Gadda. Ci sono numerosi altri grandi libri e scrittori, che hanno lavorato su una lingua essenziale o ironica, che ho amato – ma questi sono i libri “nel cuore”. E li considero tali perché tutti e tre sono stati una straordinaria sperimentazione linguistica, con percorsi differenti di contaminazione e di “combinazione”: un laboratorio di rinnovamento della lingua.  Libri peraltro “tormentati” nel loro percorso di scrittura. Nell’immediato dopoguerra, ci ritrovavamo una lingua, scritta e chiacchierata, tronfia, retorica, vuota e pomposa nello stesso tempo. Era il lascito più duraturo del regime: i cinegiornali degli anni Cinquanta hanno la stessa tonalità dei “bollettini di guerra”. Ma, tolta la “lingua di regime”, l’Italia si mostrava linguisticamente bombardata, frammentata, parlante i dialetti dei diversi territori – che erano le uniche “lingue vere”, attinenti alle cose, dove si potevano raccontare le cose, gli orrori vissuti e le speranze. Penso, a esempio, a quello straordinario esperimento di cinema che fu La terra trema di Visconti, tutto girato in siciliano (“Essi non conoscono lingua diversa dal siciliano per esprimere ribellioni, dolori, speranze” – dicevano le didascalie iniziali), e “ripercorrendo”, riportando alla sua lingua originaria, il Verga dei Malavoglia: una storia che così fa avanti e indietro linguisticamente. D’altronde, frammentato e bombardato era questo paese – che in modo diverso aveva vissuto anche la liberazione. Johnny e Ndria sono due reduci, che tornano a casa nello sfaldamento dell’esercito. Uguale il sentimento, dalle Langhe allo Stretto – diverse le scelte. Johnny e Ndria riprendono le loro lingue – l’uno una lingua di territorio, di colline, l’altro una lingua di acqua, di mare. Riabitare la propria lingua è la ricostruzione, dopo il disastro della guerra e la morte. È riaggrapparsi alla continuità del mondo. La continuità del mondo, per D’Arrigo, è il mito – che abita lo Stretto. Il mito – l’eterna lotta dell’uomo con il mare – è più forte della guerra, mette la guerra alle spalle. Il nostos di Ndria non può che essere un ritorno alla lingua della vita, la lingua di sempre, dopo essere stato usato dalla lingua della guerra, del potere, degli eserciti. Penso anche a quel libro straordinario che è Terra matta, di Vincenzo Rabito, tutto il Novecento scritto a spazio uno, su carta velina, senza segni di punteggiatura, in dialetto chiaromontano “ammiscato” d’italiano. È alla lingua che si affida Caitanello Cambria, il pescatore più tosto che c’è, per combattere contro Nasodicane, la morte, che gli ha rubato la sua Acitana. Solo “facendo le voci” egli può continuare la conversazione con la moglie – quella cosa grande grande che rischiarava la sua vita. Nasodicane gli ha rubato la sua fianchipieni – e lui non smetterà mai di sbattere con la sua spada per provare a riprendersela, per implorare quasi di essere colpito anche lui, di essere gettato insieme alla sua donna nella barca che traghetta verso il buio. La lotta di Caitanello per l’Acitana contro Nasodicane è la stessa lotta del pescespada per la sua femmina. Ho vissuto pomeriggio dopo pomeriggio passeggiando lungo la marina del paese, guardando la terra “di là”. Caitanello abitava proprio di fronte me, tra lui e me c’è il Golfo dell’Aria, un pezzo di Tirreno. Con un po’ di fortuna, nelle giornate d’autunno, quando il cielo è più limpido e l’aria più elettrica e i confini del mare e del cielo e della terra sono più netti – forse guardando bene, potevo vederlo. Di certo, io sentivo le sue voci. Erano le stesse voci che avevo nella mia testa.

Così, anche per Caitanello, ho provato a scriverle.

Non sono uno scrittore e non sarei stato in grado di sperimentare “una lingua”. I pensieri, le parole mi arrivavano come uno sciabordio lento. Un rumore di fondo, un’eco. Posso dire solo questo: la lingua di D’Arrigo, di Caitanello, è una lingua di mare, d’acqua. E Paola era una creatura del mare, del nostro mare.

 

La morte ma anche la vita, e la lotta che ingaggiano nella tua esistenza. Nelle tue pagine non si respira nessun patetismo e tanto meno sentimentalismo. Mostri una lucidità di sguardo e di introspezione, di maturità e consapevolezza riflessiva che il dolore ha come reso più acuti e affilati. Tutto dipende dallo scarto tra la pienezza dell’amore per Paola e il vuoto della sua perdita imperdonabile.

La cifra profonda di Senza è di riuscire da una situazione particolare come la vedovanza, concreta irriducibile irrimediabile tanto è personale e “vera”, a giungere ad abbracciare una situazione universale in quanto umana. Tanto più racconti di te, della tua vita precedente con Paola, della sua malattia e di tutto ciò che di tragico ne è derivato nella tua vita personale e soggettiva, tanto più il lettore riconosce nelle tue pagine una condizione umana che ci riguarda tutti, perché tutti amiamo e tutti combattiamo per preservare con la cura e la devozione ciò che amiamo.

In che modo ci sei riuscito? Hai mai pensato che il lettore nelle tue pagine avrebbe trovato un senso che lo riguardava avulso dalle sue esperienze personali e di vita? o invece nelle tue intenzioni Senza ha sempre riguardato solo te?

RISPOSTA: Il dolore è un sentimento assoluto che non lascia resti. Comunicare il proprio dolore è impossibile – non hai niente, non t’è rimasto niente da dire, da dare agli altri. Si può comunicare l’amore, perché l’amore è un’infioritura, moltiplica le tue sensazioni. Senti di avere “di più”, di essere di più. E puoi darne agli altri. Così è per la felicità. Ma il dolore no – il dolore ti toglie. Ti toglie tutto. Cosa puoi dare, cosa puoi dire agli altri? Il dolore è irredimibile, perché tu non hai niente per poterlo riscattare. Sei “senza”, assolutamente senza. Nel silenzio.

Giorni fa mi ha telefonato un signore che aveva letto il mio librino. Gliel’aveva regalato il figlio. Non so come avesse recuperato il numero del mio cellulare – era un numero sconosciuto e io non rispondo mai, invece stavolta. Ho fatto appena in tempo a dire che sì, ero io – e lui è scoppiato a piangere. È stato il nostro “contatto”: le sue lacrime, il suo pianto, il suo singhiozzo. Anche lui aveva perso la sua compagna – e tutta la storia che io avevo raccontato era la sua medesima storia, persino alcuni luoghi, dato che vive dalle mie parti e il centro di cure della chemio era stato lo stesso. Le stesse tribolazioni, le stesse speranze, le stesse orribili verità. Mi ha detto che aveva iniziato a leggere mettendo una orecchietta a ogni pagina in cui rileggeva la sua storia, e alla fine si era ritrovato un libro pieno di orecchiette. Non parlava da tempo, non sapeva con chi parlare – il figlio, peraltro, vive lontano. Non sapeva di cosa mai avrebbe potuto parlare. Dopo anni di silenzio, finalmente parlava con qualcuno – e aveva scelto me. Aveva scelto il mio libro, per aprirsi. È stato il dono più bello che potessi avere. Quando abbiamo finito di dirci delle cose, mi ha detto: «Ora telefono a mio figlio».

Viviamo un tempo che non ha risposte al dolore, che non lo contempla come se non appartenesse alla vita. Ne abbiamo terrore, e lo rimuoviamo. Il dolore è una merce che non può essere rottamata, per prenderne una nuova. Sentiamo come una minaccia alla nostra stabilità, persino alla nostra presunta felicità – la presenza del dolore. Il “portatore” di dolore. Tutt’al più possiamo essere un po’ caritatevoli. Nell’epidemia abbiamo perso decine di migliaia di vite – ci sono stati territori, come in Val Seriana, che sono stati dimezzati, piccoli paesi scomparsi. Eppure, questo immenso dolore non è mai davvero diventato collettivo. E senza la consapevolezza di questa vera e propria tragedia nazionale, non riesco proprio a immaginare cosa possa significare “la ripartenza”, se non la rimozione di quello che è accaduto, che continua a accadere. Mettere tra parentesi il dolore, il lutto. Lasciare che se lo pianga chi lo ha subito. Tutto quello che vogliamo è correre, far presto a essere di nuovo “felici e sorridenti”.

Lo stato civile è in qualche modo la cristallizzazione della “vedovanza”: si è celibi, coniugati o vedovi. Ma se si è celibi o ammogliati per scelta – la vedovanza non si sceglie. Bisognerebbe piuttosto mettere un frego su quella voce anagrafica, sbarrarla. Indicare la caduta. Io ho provato a raccontare di questa condizione particolarissima. Di come si è data, è accaduta.

Prima di farlo, per farlo, ho studiato. Ho riletto Freud, ho provato a incrociare quanti più autori avevano raccontato l’esperienza della malattia e della perdita del compagno. Alcuni era stati capaci di fare dei romanzi, di questa loro vicenda – d’altronde, era il loro mestiere, anche se io non considero L’anno del pensiero magico e Storia di una vedova i romanzi migliori di Joan Didion e Joyce Carol Oates. Quello che a me sembra il libro più bello – Breve come un sospiro, di Anne Philipe, la moglie dell’attore Gerard Philipe, amatissimo in Francia e nel mondo, morto improvvisamente nel 1959, e che uscì nel 1963 – l’ho letto però dopo, quando il mio librino era già stampato e in libreria: un libro breve, struggente, di una densità straordinaria, di una scrittura minuziosa, dettagliata ma anche capace di una enorme forza evocativa. Imprescindibile era e lo è stato, Livelli di vita di Julian Barnes, che tra l’ascensione al cielo su un aerostato e il precipitare sulla terra costruisce la metafora di una lunga storia d’amore e della sua caduta.

Insomma, mi trovavo tra le mani dei “registri narrativi”, da cui attingevo pensieri, forme, modi – che, credo, mi abbiano “impressionato”, come una pellicola – ma a cui non riuscivo a dare forma. L’unica cosa che capivo era che quanto più rileggevo “le carte della malattia”, che avevo conservato tutte (analisi, tomografie, risultati di laboratorio, CD), come riattraversando un calvario che non era stato del mio corpo, tanto più avevo bisogno di ricordare la vitalità e la naturalità di quel corpo per restituirne la bellezza al mondo; tanto più ricordavo il tempo del dolore, tanto più avevo bisogno di andare indietro e contrapporvi il tempo del nostro amore, della nostra felicità. Era l’unica “rivincita” che mi era possibile.

Forse è stato questo il sentimento prioritario della scrittura: una rivalsa contro la morte. Volevo pareggiare i conti.

Perciò, un sentimento “privatissimo”. Che accada un processo di riconoscimento, di identificazione, di immedesimazione, dipende tutto dal miracolo della lettura.

 

Come già mi è capitato durante la lettura di Senza, così anche in queste tue risposte la tentazione è di sottolineare ogni riflessione o ogni giro di frase tanto la tua voce è pregnante e intensa. Non si tratta solo del cosa dici, ma anche del come. Così articolato e composto e nello stesso tempo autentico e partecipato. Raro. Unico. 

Cos’è la scrittura per Lanfranco Caminiti? E nello specifico di Senza ha risposto a una postura esistenziale, che rasenta l’abitudine, o invece è stata un’operazione del tutto diversa nelle motivazioni, nelle intenzioni e nella grammatica emotiva rispetto ai tuoi libri precedenti?

RISPOSTA: Quando, a inizio del nuovo millennio, facemmo la rivista “accattone”, con Stancanelli, Susani, Trevi, Calaciura, Giartosio, Lagioia, Raimo, Cappozzo e diversi altri in redazione, l’idea di base era “riscrivere” la cronaca di Roma. Letteralmente, accumulavamo le notizie che leggevamo sui quotidiani o sull’Ansa e poi negli incontri mensili discutevamo quei fatti, per come venivano presentati, raccontati. Spesso erano fatti minuti – non necessariamente episodi clamorosi, anzi quasi mai – dietro i quali, dentro i quali, a noi sembrava ci fossero vite, intrecci di desideri, di storie, che esuberavano dalla cronaca spiccia. Cronaca che spesso neppure veniva notata, letta. Vite che, appunto, continuavano a non essere notate, lette. Ciascuno “sceglieva” una di quelle storie e provava a immaginare, con un racconto, cos’altro invece quel “lancio di agenzia” si era lasciato dietro. La scrittura, qui, era esercizio di immaginazione, di invenzione – ma forse il modo più congruo possibile per raggiungere “le cose”.

Qualche anno dopo, finita l’esperienza di “accattone”, più o meno con la stessa redazione facemmo un’altra rivista mensile, che si chiamava “il maleppeggio”, che è lo strumento che viene usato in edilizia – un piccolo piccone, con una punta a scalpello e l’altra piatta. L’intento era quello di raccontare il lavoro, a Roma e nel Lazio, soprattutto, ma avevamo anche una sezione “italiana” e una “internazionale”; farlo attraverso il reportage, l’inchiesta narrativa: portare alla luce, attraverso la scrittura, lavori dimenticati, nascosti, notturni, precari, stagionali, o che si erano tanto modificati con la fine della grande fabbrica. Si andava sui cantieri, si incontravano sindacalisti, si parlava con gli operatori dei call center. Era uscito da poco Pausa caffè di Giorgio Falco e mi pare anche Il mondo deve sapere di Michela Murgia – l’uno e l’altra furono nostri collaboratori, come anche Alessandro Leogrande – e insomma ricominciava “nelle lettere” quell’attenzione al mondo del lavoro che aveva avuto straordinari interpreti: Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, per citarne alcuni. Qui, rispetto a “accattone”, l’operazione di scrittura era inversa: cercavamo proprio le cose come erano, come succedevano. E la scrittura si provava a rendere visibile quello che restava ai margini, o poco interrogato.

Racconto questo per dire che ho sulla scrittura, della scrittura, pensieri diversi – ho avuto occasioni diverse per vederne all’opera la capacità, la potenza evocativa e conoscitiva. È un lavoro, un lavoro artigiano – e come per tutti i lavori artigiani ci sono strumenti “particolari” che ciascuno usa e consuma nel tempo ma a cui è affezionato. Io stesso sono uno scrivente, e quindi ho i miei tempi, i miei momenti dedicati, le mie fissazioni, i miei trucchi – parliamo di ciò che riguarda il modo di scrivere, il mestiere di scrivere.

Ma nel caso di Senza tutto il mio armamentario di scrivente non serviva a nulla. Ho quasi sempre scritto saggi, brevi o lunghi, di storie dei movimenti sociali, di attualità o dei periodi storici più ravvicinati a noi, gli anni Settanta in particolare – insomma: sociologia, memorialistica, giornalismo. E per quanto abbia sempre provato anche in queste occasioni di metterci del mio, di trovare un mio proprio stile espositivo, anche quando si trattava di una materia documentale da cui non si doveva prescindere e a cui bisognava restare il più possibile fedeli – nel caso di Senza si trattava davvero di tutto un altro registro, a cui ero assolutamente impreparato. Dovevo scavare dentro di me – ma non nella parte “elaborativa”, concettuale, ma proprio in quella delle emozioni, e delle cicatrici che si erano impresse nella mia carne, nella mia anima. Direi anche nei miei gesti, nelle mie abitudini. Perciò, non sapendo proprio come fare, non sapendo da dove cominciare, non sapendo neppure come avrei dovuto o potuto proseguire (non c’era una trama qui, né personaggi su cui lavorare di cesello per le diverse sfaccettature), ho preso tempo. Proprio il contrario di quello che mi accade quando devo scrivere un articolo o una introduzione a qualche saggio – che hai tempi di consegna rigorosi, numero di battute. Non avevo tempi di consegna, non avevo numero di battute. Ci ho messo quasi sette anni (non certo un giorno dietro l’altro) a accumulare pensieri, direi quasi degli aforismi, dei frammenti. Quando mi sono reso conto che iniziavo a ripetere, nelle note che scrivevo, episodi o concetti o forme espressive, ho pensato che era tempo che iniziassi a scrivere. Ho suddiviso le note che avevo raccolto “per affinità”, per alcuni rimandi che potevano trovarsi dentro. E così ho cominciato. Mi sono fermato quando ho sentito che non avevo più nulla da dire, che quello che avevo da dire era stato scritto.

Era scarno assai. Poi, è diventato ancora più scarno, più asciutto.

E ho scritto il libro che mai avrei voluto scrivere.

 

Caro Lanfranco, siamo arrivati alla fine della nostra conversazione. Mi immagino di fronte il tuo mare, elettrico e inquieto come sa esserlo nelle giornate che anticipano l’autunno e portano con sé tutta la struggente nostalgia di quello che è stato. O forse dovrei definirla emmenalgia. Un neologismo coniato in Lui, io, noi da Dori Ghezzi, Francesca Serafini e Giordano Meacci per indicare il desiderio malinconico di continuare ad oltranza.

Come ultima domanda, mi chiedo se Lanfranco Caminiti non sia un Orfeo più consapevole di quello del mito e se in Senza non ci sia forte la volontà non di trattenere Paola oltre ogni possibilità, ma quella di continuare a farla vivere nell’unico modo possibile e consentito: regalando le sue cose, che è la vostra storia, sentimentale ed esistenziale, i vostri ricordi, i vostri passi nel mondo perché continuino ancora a camminare. 

Avendo scelto un avverbio per titolo, concludo con una domanda sugli avverbi: che sia l’ancora più importante del sempre? e forse l’unico modo di includere e dare senso al senza?

RISPOSTA: Un paio d’anni dopo la morte di Paola ho costituito un Fondo librario a lei dedicato – che poi ho donato alla piccola Biblioteca comunale del paese. Ho chiesto una mano alle amiche e agli amici miei e di Paola, perché mi donassero qualche libro, qualcuno è uscito dalla libreria di casa, e pian piano il Fondo è cresciuto. Sono libri di autrici o in cui i personaggi principali sono donne o che trattano le questioni di genere – perciò, c’è tanta narrativa, ma anche poesia e sociologia. Così – essendo i titoli inseriti nel sistema bibliotecario nazionale dell’Opec – è capitato che qualche studentessa ne richiedesse qualche testo per l’elaborazione di una propria tesi sul femminismo, che non aveva trovato altrove. Per qualche anno, grazie a dei fondi messi a disposizione da un amico, abbiamo anche lanciato un concorso tra i ragazzi degli istituti superiori del paese e della provincia di Vibo Valentia (ma avevamo anche un gemellaggio con un Liceo di Taormina) in cui si chiedeva ai ragazzi un elaborato su un libro preso in prestito e ne premiavamo i migliori tre, con una semplice cerimonia finale. Il concorso ora non c’è più, perché comunque richiedeva un impegno organizzativo a cui non sono più in grado di far fronte. Il Fondo, invece, continua a alimentarsi.

Questo per dire che associare l’immagine di Paola a un libro è l’amore per la lettura. Paola era una lettrice curiosa e instancabile – io ho conosciuto diversi autori, attraverso lei – e, soprattutto, non si stancava mai di consigliare i libri che le erano piaciuti ai suoi amici. «In questo paese, si parla e si scrive molto, si legge poco» – era la sua massima. E per lei, che parlava poco e scriveva ancora meno, leggere era una vera e propria missione. Perciò, io ho scritto un libro perché sia letto – perché sia capace di suscitare un passaparola tra i lettori. Ho ricevuto decine di messaggi in cui mi venivano consegnati piccoli pensieri, emozioni e sensazioni suscitate dal libro. Ho tenuto da parte, come cosa preziosa, tutti questi “messaggi”. Anche le foto – c’è chi lo ha portato con sé, questa estate, al mare, chi in montagna, chi ha preferito momenti di intimità, di raccoglimento. Ogni libro è fatto anche dai suoi lettori – ci sono “fenomeni letterari” che possono spiegarsi solo così, per l’affetto che questo o quel personaggio, questa o quella storia sono capaci di suscitare. Credo che questo valga tanto più per Senza, che non è un romanzo, non ha una trama, non ha personaggi, e è solo un condensato di pensieri suscitati da una perdita irreparabile e il ricordo di una persona straordinariamente semplice, essenziale. 

Direi perciò che la mia consapevolezza del mito di Orfeo si è svolta tutta dal lato di noi che leggiamo quel mito, e di come ce ne impadroniamo, di come ne parliamo e lo tramandiamo, di come ci torniamo a ogni nuova interpretazione.

Quanto al titolo – confesso che è opera dell’editore: io avevo proposto un altro titolo. Ma ho accolto con convinzione la proposta di Minimum Fax. Fin dall’inizio ho sentito che la casa editrice fosse convinta del mio librino, lo avesse amato, lo avesse fatto “proprio”. Ho considerato perciò la proposta del titolo non solo dal lato del mestiere, della professionalità, come d’altronde per la copertina, ma anche come il “senso” che quella lettura aveva suscitato in chi, da editore, aveva letto e “tradotto”.

A mia volta, ho fatto mio quel titolo. E devo dire – ha “funzionato”. Anche se questa non è soltanto la storia di un dolore, di un lutto, di un’assenza incolmabile, di una solitudine, ma il ricordo di un amore, e della straordinaria importanza che ha l’amore, l’amato, nelle nostre vite.

Perciò, sì – ancora. E ancora, e ancora. Il mio augurio è che Senza continui a vivere di lettore in lettore.

E grazie a te, piuttosto – per avermi permesso di dire tutto questo.

Chiacchierando con Lanfranco Caminiti
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