di Andrea Cabassi

DISERTARE LA STORIA

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Recensione al libro di Marino Magliani

Il cannocchiale del tenente Dumont (L’orma editore)

Il cannocchiale del tenente Dumont

“In piena facoltà/Egregio presidente/Le scrivo la presente/Che spero leggerà/La cartolina qui/Mi dice terra terra/Di andare a far la guerra/Quest’altro lunedì/Ma io non sono qui/Egregio presidente/Per ammazzar la gente/Più o meno come me/Io non ce l’ho con lei/Sia detto per inciso/Ma sento che ho deciso/E che diserterò./Ho avuto solo guai/Da quando sono nato/I figli che ho allevato/Han pianto insieme a me./Mia mamma e mio papà/Ormai son sotto terra/E a loro della guerra/Non gliene fregherà./Quand’ero in prigionia/Qualcuno mi ha rubato/Mia moglie e il mio passato/La mia migliore età/Domani mi alzerò/E chiuderò la porta/Sulla stagione morta/E mi incamminerò

Vivrò di carità/Sulle strade di Spagna/Di Francia e di Bretagna/E a tutti griderò/Di non partire più/E di non obbedire/Per andare a morire/Per non importa chi./Per cui se servirà/Del sangue ad ogni costo/Andate a dare il vostro/Se vi divertirà/E dica pure ai suoi/Se vengono a cercarmi/Che possono spararmi/Io armi non ne ho”.

Questi i versi della celeberrima poesia/canzone di Boris Vian che ha come tema la diserzione, il rifiuto di imbracciare le armi per sparare a chi è simile a noi.

Ma ci sono altri significati del disertare? C’è qualcosa che va oltre la canzone di Vian? Ci sono implicazioni ulteriori?

Una risposta profonda e problematica a questi interrogativi ce la dà Marino Magliani con il suo ultimo bellissimo romanzo “Il Cannocchiale del tenente Dumont” (L’Orma  editore 2021).

Marino Magliani è uno dei più importanti scrittori italiani, traduttore dallo spagnolo, con Paolo Ciampi e Luigi Preziosi cura la collana di narrativa “Senza rotta” per Arkadia editore; sempre con Paolo Ciampi dirige la collana “Appenninica” per Tarka editore.  

Nei suoi testi, da “Prima che te lo dicano gli altri” (Chiarelettere. 2018. Pag.282), a “il collezionista del tempo” (Sironi 2007),  a “Carlos Paz e altre mitologie private” (Amos edizioni. 2016), passando per “L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi” (Exòrma. 2017), ha sempre affrontato il tema delle origini, delle radici, il senso dell’espatriare e dell’esilio, lui che è nato nell’estrema propaggine occidentale della Liguria, ha vissuto in Argentina e oggi vive tra la Liguria  e la costa olandese.

Ora, in questo ultimo suo libro, riflette sulla diserzione costruendone una fenomenologia. Anche se la diserzione è il nucleo centrale, non solo di essa Magliani ci parla: ci parla della vita, dell’amore, delle scelte, della responsabilità individuale, dell’importanza dei paesaggi, della Liguria, del mare.

Prima di proseguire oltre due parole sulla trama.

Siamo nell’estate del 1800. I soldati napoleonici Lemoine, un capitano erudito, Dumont, un tenente sognatore, Urruti, un rude soldato basco, hanno fatto la campagna d’Egitto e hanno lenito gli inferni che hanno vissuto con una nuova droga, da poco scoperta: l’hascisc. 

Travolti dalla battaglia di Marengo disertano e si danno alla macchia. Sulle loro tracce si mettono gli emissari del Dottor Zomer, un medico olandese che sta indagando sugli effetti dell’hascisc.

Scena della diserzione è il paesaggio ligure che brulica di spie e soldati; tutti sono dei potenziali nemici. In questo difficile andare tra tortuosi sentieri e vallate, con il mare che è laggiù e, a volte, sembra un miraggio, altre volte balugina e scompare, altre ancora sembra una meta irraggiungibile, i tre incontreranno amori, illusioni, dolori, gioia nella contemplazione del paesaggio. In questo andirivieni dovranno fare delle scelte, in questo andirivieni cercheranno di scrollarsi di dosso la Storia per restare, unicamente, con le loro storie.  Riusciranno nel loro intento?

E dopo la trama un cenno alla struttura narrativa: la parte “Cronaca di una diserzione” è il racconto della diserzione di Dumont, Lemoine, Urruti, alternata alle “Carte del dottor Zomer”, composto da appunti e un epistolario; segue “La Cronaca di Baldiueri”. Il lettore scoprirà ben presto chi si cela dietro al personaggio di Baldiueri.  Alla “Cronaca di Baldiueri segue “Il taccuino del Dottor Zomer”.  Infine gli “Epiloghi”. C’è da restare sorpresi a vedere, alla fine del libro, come i vari pezzi, la varie parti si incastrino perfettamente tra di loro, a constatare che nulla viene dimenticato… e se ci sono dei non detti, dei silenzi, delle reticenze, quelli sono voluti.

Si parlava più sopra di spie, del dottor. Zomer e i sui esperimenti, di hascisc, della sua provenienza. In un dialogo tra il dottor Zomer e il tenente Dumont, che avviene sulla nave che li porta via dall’Egitto, il dottore fa cenno – con qualche voluta reticenza – al lago di Mareotis, un lago salmastro che si trova nella parte occidentale del delta del Nilo e che pare abbia a che fare con  l’hascisc:

 “ ‘… sono olandese, provengo da Haarlem. Dottor Johan Cornelius Zomer, per servirla, tenente. E sono un buon conoscitore di mare. Anche di laghi. Ne trovammo uno, ricordo, in Africa, ci avevamo piazzato il primo ospedale da campo, era un lago strano. Vede, tenente, quella dell’acqua salmastra è una condizione strana, a volte anche l’essere umano si trova in una condizione del genere…’” (Pag. 34)

E poco oltre:

“‘… lei lo conosce forse con il nome degli indigeni, Maryut, ma per i Greci, che sono stati lì ben prima di noi, era il Mareotis…’” (Pag. 35).

L’hascisc, la campagna d’Egitto, la diserzione. L’hascisc può aiutare la diserzione o, a un certo punto, anche da esso bisogna disertare? Ma, poi, cos’è il disertare? Non ingaggiare più le battaglie, non abitarle più come vorrebbe Boris Vian? Significa abitare battaglie che non abbiano più a che fare con la guerra, una recisa digressione da essa? Quale è il rischio della diserzione? Quello che, gettando la zavorra, si può essere così leggeri da essere trascinati alla deriva? O questa deriva porta a un’altra riva? Disertare significa disertare dalla responsabilità individuale o assumersene altre perché, che lo si voglia o no, nella vita ci si trova sempre davanti a delle scelte?

Domande alle quali cerca di rispondere Magliani perché ne “Il cannocchiale del tenente Dumont” troviamo una vera e propria  fenomenologia del disertore.

Secondo Magliani la diserzione non è esilio – tema sul quale molto ha scritto – e c’è grande differenza tra lo sbandato e il disertore:

“… non è da tutti i giorni imbattersi in un ufficiale francese in disordine, stremato e appiedato, in solitaria Se la voce di strane presenze in vallata non avesse già fatto il giro delle fasce, verrebbe più da pensare a uno sbandato. Perché disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare è qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera. Un grado. A uno dovrebbero scriverlo sulla roccia. Gerard Henry Dumont. Disertore. A Marengo e il giorno dopo erano dei perfetti sbandati, non ancora disertori. La malinconia del soldato vivo, come la chiama il capitano, la soffre lo sbandato, e solo quando cuore e cervello non la sopportano più inizia la gloria del disertore vivo” (Pag. 164).

E, ancora, mentre la diserzione continua, fra incontri pericolosi, incontri evitati di un soffio, fantasmi di spie che battono i sentieri tra cui il misterioso Pangloss, nome che è omaggio a Voltaire e  uomo di Zomer, “barbetti” che si aggirano tra le valli, sostiene Magliani:

“Il disertore, senza saperlo, lavora fino alla fine a qualcosa di impossibile, non c’è in effetti un sogno, niente potrà avverarsi, se non che si sta facendo il possibile per allungare il tempo, tutto lì, dirà la fonte… con tante terre soleggiate hanno finito per vivere al fondo dei precipizi, lungo i torrenti, nei posti più malsani, senza albe né tramonti, in case dove si passa di colpo dal giorno alla notte. E non deve giocarci solo la vicinanza dell’acqua, i mulini, i ponti, il loro è piuttosto un forte desiderio di sacrificio, la più disciplinata delle missioni e delle diserzioni” (Pag. 197).      

Si aggirano tra le valli figure diafane che non sembrano neppure reali, che sembrano destinate a non materializzarsi mai, si odono rumori e odori da dopo battaglia e la ricerca del cibo diventa sempre più difficile: 

“Di chi erano dunque le voci e le corse nell’erba? Ronde, lungo qualche maledetto invisibile confine? Sentinelle? Ma le sentinelle non corrono, aspettano.

Dopo il passo il sentiero attraversa un pianoro all’altezza del fuoco spento, a distanza di un giorno arriva ancora un odore di prateria bruciata, di piccoli animali rimasti intrappolati, lumache, roditori, quaglie sorprese nel sonno. Purtroppo non c’è più nulla di commestibile. Giunge un latrato di cani” (Pag. 76).

La Liguria, questa terra bellissima, ma aspra e difficile, terra di grandi scrittori e poeti, è una delle protagoniste del romanzo. Colpiscono e affascinano le descrizioni accurate, precise, spesso liriche, che Magliani ne fa. Come negli altri romanzi, forse più che negli altri romanzi, la Liguria è una presenza forte e potente. Sembra di annusarne gli odori, i profumi, di vedere i paesaggi, di faticare nei suoi tortuosi sentieri e camminamenti. E’ una Liguria terragna, ma il mare è sempre presente. Appare e scompare, si nasconde, e i tre sanno che c’è, che da qualche parte c’è:

“Un vapore annunciava qualcosa, e dietro i buoi li aspettava l’aurora degli ulivi. Sono di un muschio azzurro e coprono le fasce fin sui costoni di fronte. Il mare non c’è nemmeno oggi, e in qualche modo le onde degli alberi sostituiscono il contraltare liquido. Risaltano striature di diamanti, sentieri, crepe, da cui emergono gruppi di tetti di ardesia. Al mare di ulivi manca solo il mare, ed è davvero come fosse nell’aria, nei colori”.  (Pag. 92).

Sono pagine dense, intense di una terra frammentata e di frontiera, una terra talmente frammentata e di frontiera che, spesso, i tre disertori fanno fatica a orientarsi. Servirà a qualcosa il cannocchiale di Dumont, sua vera e propria protesi? Servirà a qualcosa quando il senso più all’erta di Dumont è il rumore dell’occhio?  Di certo non servirà più l’hascisc e da esso bisognerà affrancarsi.

Di certo i disertori si rendono conto del duro lavoro che i contadini devono fare per domare quella terra, contadini che assomigliano a architetti:

“Sul far dell’alba sono passati nelle vicinanze di un cantiere in aperta campagna e si sono fermati a debita distanza a spiare il lavoro del contadino. La compostezza dei gesti, contadini-architetti, solitari, a rialzare le pietre e a posarle sulle altre, arretrando un passo per osservare l’opera nella sua interezza, come se quel passo indietro fosse il futuro sguardo tra venti, cinquanta, duecento anni. Sono davvero gli architetti della Liguria, questi contadini, e se ci sono pietre da picchettare il colpo di martellina fa il giro del costone. Poi pietre da posare dietro, non importa se non hanno la faccia lavorata dalla martellina, sono poco più che scaglie, frammenti inservibili, da usare come drenaggio contro terra” (Pag. 102).

Il paesaggio in cui si muovono Dumont, Lemoine, Urruti è pieno di ombre e chiaroscuri, ombre e chiaroscuri che hanno il corrispettivo nelle loro anime, nei loro desideri, nelle loro aspettative, ammesso che ne abbiano qualcuna. E’ un paesaggio fatto anche di luce, colori, odori, profumi che sembra una compensazione al male di vivere, un po’ come succede nei romanzi di un altro grande scrittore ligure, Francesco Biamonti che, sui  colori e la luce, ebbe un costante confronto con uno dei maggiori pittori italiani del novecento:  Ennio Morlotti. Un confronto pregnante attestato dalla bella raccolta di saggi “Ennio Morlotti. ‘Pazienza nell’azzurro’ ”(Ananke 2006).

In Magliani la pittura del paesaggio è di grande respiro e assume un’importanza fondamentale come raramente accade nella letteratura italiana contemporanea.

 Infine: la Storia e le storie. Disertare è, forse, opporsi al fiume della Storia, non essere trascinati tra i suoi detriti. Se il Fabrizio di Stendhal, durante la battaglia di Waterloo, non vede altro che polvere, non ascolta altro che clamori, urla, confusione, spari, Dumont, Lemoine, Urruti, si aggirano tra i tortuosi sentieri liguri senza sapere come è finita la battaglia di Marengo, quella battaglia che, secondo gli storici, “alle cinque era persa e alle sette era vinta” .

Chissà che non sia destino dell’uomo non farsi stritolare dalla Storia pur nella consapevolezza che la nostra storia, qualunque essa sia, con la Storia deve fare i conti. Sia che si decida di cavalcarla, sia che si decida di provare ad opporvisi  e di provare marciare ai suoi margini. Nella speranza che sul margine si possano scoprire imprevisti e imprevedibili  spazi di libertà.

Lo Scaffale di Andrea: Il cannocchiale del tenente Dumont