di Andrea Cabassi

IL VIAGGIO, IL CIRCO, LA LIBERTÀ

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Recensione al libro di Haroldo Conti

Mascarò (Exòrma)

Mascarò

Quando uscì il bellissimo romanzo di Haroldo Conti “Sudeste” (Exòrma. 2018) restai colpito dalla sua altissima qualità. Lo recensii in questo blog e in questa rubrica nel giugno del 2018 (QUI il link). Era un romanzo “fluviale” perché il fiume era il vero protagonista del libro. Da poco è uscito un altro romanzo di Haroldo Conti: “Mascarò” (Exòrma, 2020) che, da molti, è considerato il suo capolavoro. E un capolavoro lo è sicuramente, ottimamente tradotto da Marino Magliani che aveva tradotto anche “Sudeste”.

Se “Sudeste” è un testo “fluviale, “Mascarò” è un libro sulla strada, sul viaggio, sul circo. Il circo come dimensione simbolica, ancorché malinconica e nostalgica, della libertà. E la scrittura è una scrittura nomadica come nomadico è il circo.

Ma, prima di proseguire, un appunto sull’autore e due parole sulla trama.

Haroldo Conti è stato uno dei più grandi scrittori argentini per non dire sudamericani. Nel 1962, proprio con “Sudeste”, vinse il Premio Fabril e divenne una delle figure di riferimento della cosiddetta “Generaciòn de Contorno”. Vinse numerosi altri premi e con “Mascarò”, nel 1975, il Premio Casa de las Américas. Il 5 maggio 1976, a seguito del golpe militare in Argentina, venne sequestrato e torturato. Anni dopo il Generale Videla fu costretto ad ammettere Il suo omicidio; probabilmente Haroldo Conti fu gettato in mare, come molti altri suoi connazionali, con uno dei famigerati voli della morte. Parla di tutto questo, nella sua bella e drammatica prefazione al libro, Gabriel García Márquez.

La trama in breve (che approfondirò mano a mano che andrò avanti nella recensione): Oreste, uno dei personaggi principali del romanzo, è in attesa di salpare dal paese di Arenales. Attende l’arrivo di una vecchia e scalcinata nave: la Manana. Quando la nave arriva si imbarca con il Principe Patagòn, il misterioso cavaliere Mascarò e altri personaggi strani, particolari. E’ il Principe, poeta, attore, mago, alchimista, indovino, a suo modo filosofo, a trascinare Oreste e gli altri nella folle impresa di fondare un circo (il Circo dell’Arca) e di portarlo in giro per vari paesi dell’Argentina. Il circo: qui l’arte circense significa capacità di alleggerirsi di pesi, di vivere e credere in una libertà che va quotidianamente riconquistata perché sempre in pericolo, tanto che i membri del circo ( e non solo loro) si dovranno scontrare con il Potere, la repressione, la tortura. E tra chi combatterà il Potere e dovrà confrontarsi con i rurales ci sarà il misterioso Mascarò che compare e scompare nel corso del romanzo ma che, in realtà, è sempre presente.

La prima parte del romanzo è caratterizzata da accenti malinconici, da una nostalgia per qualcosa che non è mai ben definito e che forse è saudade, da un ritmo di scrittura che ricorda il tango. Ci sono bellissime descrizioni del mare, del faro, di quel microcosmo che è Arenales. Ad esempio, quando Oreste è colto nel suo vagabondare per il paese, c’è un stupenda ed evocativa descrizione del mare e del faro:

“Sull’orizzonte scivolano matasse di ombre. Il vento smuove la sabbia e porta in giro la spuma, una bruma salata inumidisce appena la pelle, si infiltra tra i peli della barba, che scoccano luccichii, inzuppa, gocciola giù per le tempie, annebbia la vista. Oreste cammina in mezzo all’aria, si sposta nel vento. Il mare è un’entità concreta che promana dalla terra. Cambia colore secondo il cielo; rosa, lilla, violetto, finalmente blu. E quando il cielo giunge alla fine, il mare, come un vetro profondo che tutto trattiene, ne conserva i pallori. I gabbiani si alzano in volo, sempre alla stessa distanza, al passaggio di Oreste, planando sulla sua testa, gridando alla sua ombra.

Le case del villaggio si ammassano a ponente. Hanno un lato chiaro e netto, e un lato oscuro che si allunga come una punta verso il mare. Il faro svetta dietro alle case, ancora illuminato dal sole, e per questo sembra più lontano e più alto. Mano a mano che Oreste si avvicina, il faro si sposta verso sinistra, sempre al di sopra dei tetti, e poi entra nel mare” (Pag. 22-3).

Oreste è in attesa di salpare per un luogo che non sa neppure se esista davvero:

“Domani una nave lo porterà via, lontano da qui, non sa dove, ma la cosa non gli pesa, non lo rattrista. Per lui non c’è storia né passato, solo la notte, la pienezza del tempo dove l’uomo ritrova il suo centro” (Pag. 32).

Tutto è come sospeso tra la realtà e la fantasia mentre di Oreste non si sa nulla o quasi:

“Con una borsa sulle spalle, dà un’ultima occhiata alla stanza e per un po’ rimane in piedi sulla porta con aria forestiera. Questo è Oreste Antonelli, o meglio Oreste e basta. Un vagabondo, quasi un oggetto” (Pag. 46).

Infine la nave arriva con Oreste, uomo di tristezze, che attende:

“Oreste continua a starsene immobile sulla porta della baracca. Sente il suo corpo più leggero, i piedi gli ballano dentro le scarpe, si sente già altrove, la nostalgia gli scava un buco dentro. E’ sempre un uomo di tristezze.

Con uno sforzo il Manana vira e si indirizza verso il molo. Quando è vicino la sua sagoma è più netta. E’ un piccolo vapore con un fumaiolo sudicio e grasso, un tendone che spunta fuori come un guardaroba e ad ogni sbandata si inclina fino a sporgere dal bordo, un albero che serve da braccio di carico, una tolda ridotta e una prua ammaccata. Ha una polena incomprensibile che regge sulla testa un corto bompresso. Il rumore che fa è sproporzionato con le dimensioni di quella carretta. Si sente un vuoto risonar di ferraglia, i ticchettii del telegrafo, e un suono di burrasche che esce dall’alto della tuga” (Pag. 40).

Se, fino a questo momento, la cifra narrativa è stata improntata ad atmosfere malinconiche e nostalgiche, agli struggimenti, con l’arrivo della nave essa vira verso il picaresco e il grottesco. Questo grazie ai personaggi che compongono l’equipaggio, grazie a coloro che si imbarcheranno come il Principe e Mascarò.

E così inizia il viaggio. Prima tappa Palmarès. Una meta a cui sembra che non si riesca mai ad arrivare a causa di bonacce e tempeste. Una meta a cui sembra non si riesca mai ad arrivare tanto che ci si chiede se Palmarès esista davvero. Dopo lo scampato pericolo dalla forte tempesta che ha sorpreso l’equipaggio e le affermazioni del capitano che, prima a poi, Palmarès comparirà all’orizzonte “il Principe propose di celebrare lo scampato pericolo. Il capitano fu d’accordo. La vita è tutta una traversata, si è in viaggio fin dalla nascita, ogni piccolo spiraglio di luce è un avvenimento così raccolto, così breve, come tutto ciò che lo segue” (Pag. 78).

Ho accennato all’inizio a come sia importante la dimensione simbolica del circo. Lo è altrettanto la dimensione simbolica del viaggio. Si ha come l’impressione che la nave stia facendo rotta verso luoghi dove l’Arte è destino, dove l’Arte è sovversione e libertà, dove più si va avanti più si perde zavorra, si gettano letteralmente a mare i pesi che avevano condizionato le nostre vite e che ci avevano assillato sino a quel momento. E’ questa sovversione che spaventa il Potere, che mobilita le popolazioni, le donne, gli uomini che saranno raggiunti dal circo.

L’arrivo a Palmarès coincide con il fondamentale incontro con Scarpa, padrone del circo omonimo e con gli elementi che ancora lo compongono come il nano Perinola, il pacifico leone Budinetto, il cane Califa a cui si aggiungeranno, in seguito, Maruca – che diventerà Sonia – il lottatore Carpoforo e altri ancora che andranno a formare il Circo dell’Arca.

Prima di partire per Tapado ( è da qui che comincia la seconda parte del romanzo) Oreste si interroga:

“Oreste, solo un po’ commosso si domanda se tutto questo sia mai accaduto. Arenales, Lucho, Faccia di Trippa, la Pila, Pepe, Bimbo, la Tere, Cafuné il fantasma, quella barchetta del Manana, il rumoroso capitano Alfonso Domìnguez, il tremendo cavaliere Mascarò, la Trova… la dolcissima Trova di Arenales. Sono mai esistiti per davvero?” (Pag. 203).

Dov’è la realtà? Dov’è la fantasia? Non lo sappiamo. Oreste non lo sa.

In questa seconda parte del romanzo è il circo ad assumere un ruolo centrale con il suo infinito viaggiare per le strade e i paesi dell’Argentina. In una delle rappresentazioni fatte a Tapado il Principe descrive in questo modo il senso e le attività del circo:

“Questa sera, con la nostra leggera imbarcazione fatta di capricciosi incantesimi e ingegnosi espedienti prenderemo il largo negli spazi eterei della bellezza, dello spirito e della poesia. Aprite dunque i cuori agli effluvi e alle emanazioni dello spirito, dimodoché in reciproca e ordinata mescolanza possiamo lanciarci nelle feconde praterie della nostra breve e dolce esistenza, congiunti e congiungenti nell’intenso turbamento dell’arte, che trasforma, cambia e sovverte la realtà forgiando una dimensione nuova, magica, potente!” (Pag. 227).

Risulta, qui, evidente che il ruolo del circo è quello di forzare il reale di dare spazio all’immaginazione tanto che, leggendo, viene in mente un vecchio slogan del 68, “l’immaginazione al potere” . Ma di riflessioni sull’arte e sul suo senso è costellata la narrazione di Conti. In un’altra rappresentazione a Tapado si dice che “alcuni numeri furono mantenuti, anche se con contorsioni e variazioni, e anche improvvisazioni, perché l’arte procede senza lasciarsi imprigionare negli stampi, tanto più che la vita stessa di quei vagabondi procedeva ad libitum, e con lo stesso sistema vennero introdotti numeri nuovi” (Pag. 246).

Dopo Tapado le cose cambiano. Ce lo dice anche il narratore:

“Dopo Tapado le cose cominciarono a cambiare. In realtà non fecero che cambiare continuamente. Questo è il punto.

Il carrozzone prese la direzione di Manzano, ma ci fu vento per quasi tutto il giorno, e la sabbia li accecò. Non trovarono Manzano e proseguirono” (Pag. 256).

Ci saranno altri incontri, altre avventure. Ci sarà l’incontro – molto importante per l’economia del romanzo – con Basilio Agrimòn, novello Icaro, che compare in cielo con una strana macchina:

“Era certamente un uccello, ma sbatteva le ali in uno strano modo e veniva diretto verso di loro. E poi avanzava con eccessiva lentezza” (Pag. 263).

Un uccello, come potrà constatare il lettore, che non è per niente simpatico ai rurales.

Se la cifra narrativa, agli inizi, è stata improntata ad atmosfere malinconiche e nostalgiche, poi al picaresco e grottesco, ora si assiste ad un’ ennesima trasformazione: si percepisce l’ansia dei personaggi. E’ un’ ansia che è ad un passo dal farsi angoscia, che diventa attesa di qualcosa che, prima o poi, dovrà accadere. Stemperata, però, dall’ironia che percorre molte pagine del libro.

Quando il circo arriva a Rocha, definita la rosa che sboccia, a parte un attacco ad opera del Parroco di S. Bernardino sul Messaggero di Rocha, che ha condannato la Balsa (il valzer), esso è al massimo del suo fulgore tanto che “finora il Circo dell’Arca non ha mai conosciuto tempi migliori” (Pag. 277).

Malgrado ciò il Principe non è contento:

“Eppure il Principe sembrava indifferente a questi trionfi e la sua soddisfazione più evidente erano quei semicupi. Per dir la verità il suo scopo non era mai stato quello di far soldi, e nemmeno di fondare un ‘circo stabile’. Il suo vero scopo era sempre stato un modesto ‘circo di prima parte’ o al massimo ‘di prima e seconda’ purché non fosse qualcosa di impegnativo: lui concepiva il circo soltanto in forma itinerante. Quanto meno gli altri tipi di circo non lo interessavano Anzi, il circo non era neanche la sua massima aspirazione perché, in fondo, quel che voleva era semplicemente esistere” (Pag. 277).

E’ questo un brano molto bello e indicativo. Il circo ha, forse, raggiunto il suo apogeo. L’inizio del declino è prossimo? Ma non è il declino che interessa al Principe. E’ che il successo lo fa sentire prigioniero. E’ che il successo lo zavorra. Con il successo non si percepisce più leggero come lo era prima. Per questo motivo vorrebbe rinunciare e sciogliere tutto. Rinunciare e slegarsi, riacquistare la libertà, soprattutto quella interiore. Lui vuole solo esistere, esistere di una esistenza piena e priva di condizionamenti. Però questo è anche il momento degli incubi, del sogno sui rurales, quasi come se il Principe presentisse l’addensarsi di nere nuvole su di lui e i suoi collaboratori.

Quando il circo arriva a Paiquìa Vejo si imbatte nel funerale di Sebastiàn Arache. A quest’uomo il circo dedica uno spettacolo. Poi via di nuovo, ancora sulla strada: Alacran, Soca, Madariaga. Madariaga sembra un paese uscito dalla penna di Juan Rulfo anche se Haroldo Conti è sempre molto originale, con uno stile tutto suo, con una forza narrativa straniante tutta sua:

“Il paese sembrò uscire dal nulla e venne loro incontro, sospeso in quel chiarore attaccaticcio che pizzicava la pelle. Sembrava un paese piuttosto grosso. Forse anche una città, se non fosse stato per il silenzio: la massa appuntita della chiesa galleggiava altissima, in mezzo ad altre ombre che si rimescolavano, e a momenti sparivano.

Un po’ più avanti la sabbia prese la forma di una strada, con la chiesa in fondo, un magazzino a due piani con un porticato sul davanti, qualche casa di mattoni e i ranchos alle spalle. Tutto intravisto, monocromo, di giallastra vecchiaia.

Il carrozzone rotolò per la strada fino alla chiesa, ma nessuno si affacciò alle porte o alle finestre. Era un silenzio speciale. La chiesa aveva un campanile con una campana annerita scossa dal vento e quando la raffica era più forte suonava con un rintocco sincopato del battacchio che batteva sullo stesso lato, piano, un po’ triste” (Pag.293-4).

Ed è proprio a Madariaga che il circo si esibisce senza il pubblico. Dove si recita solo sé stessi, ammesso che si reciti. Ritengo questa una delle pagine più belle dell’intero romanzo:

“E lo spettacolo inizia, procede, conclude con una esuberanza finora sconosciuta, che supera i vecchi successi della strada percorsa; ciascuno è perfettamente immerso nella sua arte senza imperfezioni o inconvenienti, compiuta meraviglia, non già maschere, né travestimenti, né finzioni, con altri attori alle spalle, ma protagonisti in tutto e per tutto, fino alla fine, fino al completamento dell’impegno.

Ovviamente, questa volta lo spettacolo si concluse senza applausi. Tutta la compagnia fece la passerella, come sempre, e alla fine ascoltarono in silenzio, in piedi al centro della pista, il tremolante rintoccare della campana” (Pag. 296).

Un brano straordinario, poetico, toccante che ci dice quanto sia stato grande Haroldo Conti.

Il viaggio continua, ma lascio al lettore il piacere (o la rabbia, o l’apprensione) di scoprire cosa succederà al circo, cosa succederà e cosa farà Mascarò che – come si è già accennato – scompare e ricompare, pur essendoci sempre; lascio al lettore l’incombenza di scoprire come andrà a finire la cospirazione di Cernuda, ispirata dal circo perché “l’arte è una cospirazione per natura” (Pag. 307); lascio al lettore l’incombenza di scoprire cosa accadrà a Oreste, quali saranno le sue disavventure e avventure.

Mi piace concludere la recensione al capolavoro che è “Mascarò” con la risposta del Principe a una domanda di Oreste che gli chiede chi egli sia adesso:

“ ‘ – Un Principe. Cosa credi? Sono padrone della mia vita e in un certo qual modo sono padrone del mondo. Per questo mi dichiaro e mi presento come Principe. E posso farlo perché volerlo e deciderlo dipende solamente da me’ ” (Pag. 144).

Lo Scaffale di Andrea: Mascarò