di Andrea Cabassi

MEMORIA DELL’ACQUA, MEMORIA DELLE MONTAGNE

foto rec. febbraio 1 20210111_162417

Recensione al libro di Federico Pagliai

LA TORRENTA. Una storia di acque in risonanza (Tarka)

LA TORRENTA. Una storia di acque in risonanza

Da ragazzo andavo spesso a fare escursioni per i sentieri del nostro Appennino. Mi piaceva esplorarli, poi sostare, quando si aprivano slarghi, e contemplare il paesaggio, pensare che oltre c’era il mare. E, quando scrutavo quell’oltre, mi veniva sempre in mente il racconto di Pavese “Il mare”, quel racconto in cui alcuni ragazzi decidono di inerpicarsi su un colle con la speranza, una volta arrivati alla sommità, di vedere il mare.

Era tonificante l’ombra dei boschi, era bello sentire il gorgogliare dei rigagnoli che, poi, spesso, si sarebbero trasformati in ruscelli e, ancora più a valle, in torrenti. Torrenti che sarebbero confluiti nel Po’ e che, alla fine, avrebbero mischiato le loro acque con quelle del “mare grando”, come chiamava l’Adriatico il grande poeta gradese Biagio Marin. Ma quello che cercavo di scorgere dalle parti del mio Appennino non era l’Adriatico. Era il Tirreno.

Questi ricordi della mia giovinezza sono riaffiorati impetuosamente alla lettura del libro, bello, suggestivo, evocativo di Federico Pagliai “La torrenta. Una storia di acque in risonanza”, pubblicato dall’editore Tarka (Tarka. 2020) nella collana Appenninica, diretta da Paolo Ciampi e Marino Magliani; una collana che ha fra i suoi obiettivi quello di valorizzare l’Appennino che, con tutte le sue contraddizioni, i suoi problemi, le sue risorse, è la colonna vertebrale dell’Italia; una collana che ha l’obiettivo di valorizzare l’Appennino dando voce ad autori che, o nella dorsale appenninica vi sono nati, o vi abitano, o vogliono narrarne; una collana che ha dato già voce a Marisa Salabelle con “L’ultimo dei Santi” (2019), a Marco Candida con “Incendio nel bosco” (2019), a Rocco Morandi con “L’Appennino Piemontese” (2019).

E ora a Federico Pagliai.

Chi è Federico Pagliai? E’ una guida ambientale escursionistica, volontario del Soccorso Alpino Toscano, nato in prossimità del torrente Lima, uomo degli Appennini, camminatore, fungaio, grande conoscitore dei crinali e dei boschi della Montagna Pistoiese. Ha scritto numerosi libri: “I miei crinali, sedici colpi di pennato” (Maria Pacini Fazzi. 2008); “Rughe da salita” (Biblioteca dell’Immagine. 2011); “Come un filo che pende” (Ouverture. 2012); “Nel bosco di nessuno di voi” (Fabbri. 2013); “Dottorafrica” (Ouverture. 2015); “Storie di Stinchi e… contorni” (Pendragon. 2016); “Figli della colpa” (Pendragon. 2017); “Montanari indigesti, effetti collaterali dell’andare per funghi” (Pendragon. 2018).

Questo suo ultimo libro ha per titolo “La torrenta” e ha come protagonista il torrente Lima che nasce dalle parti dell’Abetone, percorre zone della montagna pistoiese e si getta nel Serchio (in Lucchesia) di cui è il maggior affluente. E’ un libro che parla di escursioni, esplorazioni, camminate, incontri, riflessioni. A fianco la Lima che, da fosso, precipitando a valle, diventa torrente.

Ma perché il femminile? Ritorno per un attimo alla mia città. Il torrente che la attraversa si chiama Parma. Il femminile qui ha una valenza pragmatica. E’ per non far confusione: il Parma è la squadra di calcio, la Parma è il torrente. In realtà si potrebbe anche dire il “torrente Parma”, ma si usa pochissimo. Per tutti noi il torrente viene designato come “La Parma”. Non so se ci siano altre e ulteriori motivazioni per la designazione al femminile. Quelle di Pagliai per definire la Lima torrenta e non torrente fanno riflettere.

Nel suo itinerario la Lima comincia come un fosso che, forse, corre troppo e “Chi corre troppo tende solo a un traguardo che, beffardo, si sposta sempre più in avanti, costringe all’ansia di raggiungerlo e in quell’affannarsi si scorda da dove è partito: il dramma di chi corre è la dimenticanza di un’origine, la maledizione degli uomini sta in ciò che vogliamo dimenticare quando, invece, ci sarebbe tanto da ricordare… Era così arrogante, il fosso! E anche ingenuo…” (Pag. 30-31). E’ questo fosso così arrogante e ingenuo che, ad un certo punto, si mette a viaggiare in parallelo con un altro corso d’acqua che scende tranquillo e frusciante. Poi ecco che i due si incontrano. Sembra un abbraccio. “Un abbraccio così lo avrebbe potuto compiere soltanto una mamma… ed è da quel punto, e da quel momento, che quello che sulle carte è chiamato ‘il torrente’ Lima è, per me, diventato ‘La Lima’.

Un fosso femmina: la torrenta” (Pag. 32-33).

E’ la torrenta che scende a valle fra dimenticanza e memoria. Soprattutto la memoria perché la memoria dell’acqua – insieme alla possibile salvaguardia della natura dalle devastazioni prodotte dall’uomo – è uno dei temi centrali del libro e a questa memoria Pagliai dedica pagine dense e bellissime: “La pelle non è soltanto un tessuto che recinta le anime ma anche un guscio che racchiude ciò che ci è accaduto e più passano gli anni e più ci discostiamo dal primo e ferale contatto con le acque materne, e quindi, dalle ragioni della vita stessa” (Pag. 50-1). Ma l’acqua e le acque conoscono questo limite, questa nostra limitatezza mentre esse hanno doti di indulgenza, perdono e memoria: “L’acqua ha una ricordanza che non confida a nessuno se non tramite sottili vibrazioni che toccano le corde dell’istinto e che percepiamo fugacemente solo in determinati luoghi e immergendoci in talune acque: E’ una memoria che si è modellata nei secoli, generazione su generazione, mosaico di umanità vissuta e della quale noi uomini serbiamo soltanto recondite sensazioni” (Pag. 51). L’umanità intera è storia di acque che vengono liberate dal vincolo di un corpo dalla morte: “Nell’acqua che serbiamo dentro i nostri corpi ci sono piccole e infinitesimali porzioni di memorie di uomini e donne passate, generazioni lontane, genti vissute e che, dopo la fine della parentesi terrena, vengono seppellite per poi liquefarsi e tornare così a scorrere nella terra e, quindi, nei fossi, torrenti, fiumi.

Fino al mare: non un capolinea, ma un nuovo inizio: E’ tutto un circolo” (Pag. 51). Un circolo come le gocce d’acqua che Pagliai aveva raccolto all’inizio del libro e che, alla fine, restituirà alla torrenta. Una memoria che è memoria immemoriale, ancestrale, memoria di un tempo che non sappiamo, non ricordiamo, non possiamo ricordare di aver vissuto. Una memoria del corpo che può, per un istante, entrare in risonanza con la memoria delle acque. Perché la risonanza è un altro dei temi cruciali del libro e che emerge con forza dalla suggestione di una notte trascorsa sul greto della torrenta: “Nonostante lo scomodo giaciglio le mie acque, quelle che compongono per il novanta per cento il mio stesso corpo, tentavano di mettersi in sincrono e sulla stessa lunghezza d’onda di quelle del fosso. Siamo fatti di acqua: un giorno dovremo restituirla, ché ci è stata data solo in prestito. Può darsi che, alla fine del ciclo terreno, la riconsegneremo inquinata e logora. Va bene così: le esistenze vanno consumate. Ci penseranno poi i fiumi a raccoglierla e ripulirla, quell’acqua. Come dialisi dell’umanità, faranno filtrare le acque che avevamo in prestito attraverso i loro letti di ghiaia e pietre: E saremo, ancora, nuovi e pronti, in chissà quale futura forma di vita, a ricevere altra acqua e nuova esistenza” (Pag. 87) E’ in quel momento che le acque della torrenta e quelle del fosso cercano di entrare in risonanza. Questione di un istante: “Una risonanza non del tutto compiuta. Le due acque rimasero in quello stato per poco tempo: non potevano riuscirci di più e appieno, ché la mia barriera di pelle, muscoli e ossa non facevano sconti. Per entrare in piena sincronia e risonanza con le acque non dovremmo avere più un corpo che le recinta: ci riusciremo solo dopo aver chiuso la parentesi terrena, quando restituiremo le acque ricevute in comodato d’uso ai fiumi e, poi, al mare.

Ciò nonostante ‘percepivo’ la torrenta. La sentivo sfilar via senza inizio e senza fine e lo faceva con una voce che pareva sempre uguale ma che invece era mutevolezza continua. Fu in quei momenti che riflettei su quanto la vita fosse copia calcante dell’acqua di un fosso, la brutta copia.

Siamo fatti della mutevolezza propria dell’acqua e chi prima si convince di questo meglio vive. Le cose solide, i programmi, la gestione spasmodica del futuro sono gabbie che il nostro essere acqua rifugge e facciamo di tutto per renderle afflitte e spente come certe pozze rafferme della torrenta” (Pag. 87). E poco più oltre: “Poi arriverà la fine; saremo terra, polvere, cenere. Le acque che un tempo stavano nel guscio del corpo andranno via, filtreranno libere nella (e oltre) la terra. Si metteranno a fluire, tutte assieme, nel sottosuolo e poi nei rivoli, fossi e fiumi. E quindi, fino al mare: il serbatoio delle memorie delle acque, quelle che stanno racchiuse nelle cellule che, dei vivi, compongono i nostri corpi” (Pag. 88). Ma il mare non rappresenta la fine, il mare è moto perpetuo. Dal mare riprenderà il circolo: “Perché tutto torna e anche noi non sfuggiremo a questa regola universale, a questo viaggio a ciclo continuo, chiuso, senza fine e inizio, perfetto.

Torneremo, sì.

Lo faremo come pioggia, neve, nebbia. Saremo portatori silenti e inconsapevoli di una memoria insondabile ai vivi, una tacita memoria che fa cumulo di anime di generazioni lontane che poi si mettono in transito nei torrenti e lo fanno sotto lo sguardo dei viventi, di uomini, donne e bimbi che un giorno rovesceranno anche le loro, di acque, in quegli stessi torrenti” (Pag. 88).

Risonanza è un termine che ha echi bachelardiani e che si sposa con “assonanza”, con “consonanza”. C’è bisogno d assonanza e consonanza perché ci sia ri/sonanza.

Ma la torrenta ha anche un’altra caratteristica: è come un libro che trascina a valle storie, racconti, drammi, tragedie, pezzi di Storia.

Nelle mie escursioni attraverso l’Appennino io non ascoltavo, forse non sapevo ascoltare, i racconti che l’acqua portava con sé. Immaginavo già l’altrove, immaginavo il mare, immaginavo il Tirreno della mia infanzia e della mia adolescenza. Immaginavo e ricordavo, ma non ascoltavo. Qualche volta m capitava di immaginare la foce che Pagliai definisce come “il luogo dove il fiume sa di andare a morire. Così come lo sono gli ospizi per i vecchi” (Pag. 49). Però sapevo solo percepire il gorgogliare del rivolo, del ruscello, del rigagnolo. Non ero in grado di leggerne le pagine come danno fare certi anziani o esperti camminatori.

Se la torrenta è libro, un libro tutto da leggere e tutto da ascoltare, ecco che chi la conosce, chi la frequenta, chi l’ha frequentata se ne fa portavoce: Ecco che prendono forma tante storie: quella del fosso degli imposti; quella narrata dal vecchio Otello sulla fluitazione dei tronchi lungo la torrenta; la tragica storia di Gelsomina e dell’albero con la valigia, narrata dal boscaiolo Remo; la drammatica storia del ragazzino Tita, recuperatore di ordigni della guerra appena terminata; la storia della profezia di Brache che ci riporta ad un tema molto attuale: quello della gestione di una risorsa come l’acqua per la quale, forse, un giorno neppure tanto lontano, dovremo combattere; la storia del ranaro di Bagni di Lucca e quella dell’ingegnere illuminato Lapo Farinati degli Uberti; la storia di Fabio e Roberto, detto Provella; la storia della leggenda della strega della torre del Fattucchio, quella della Filanda dei Tronci, della ferriera Petrucci, quella di Renato che dice all’autore che noi siamo “fatti di acque, vibrazioni, risonanze” (Pag. 148) e che se le vibrazioni sono cattive ci ammaliamo.; la drammatica storia d’amore che conclude il libro, narrata all’ autore da un uomo incontrato lungo il torrente. Ed è in quel frangente che Pagliai restituisce l’acqua che aveva raccolto in una boccettina all’inizio delle sue esplorazioni, delle sue camminate al fianco della torrenta. E qui fermo la mia elencazione lasciando al lettore il piacere di addentrarsi in queste narrazioni.

E poi tanta, tanta altra acqua, ruscelli, rii, torrenti che si gettano nella Lima: quello più importante, il Sestaione, poi il Rio Maggiore, la Volata, la Verdiana e altri ancora.

Quando l’acqua tace sono i ricordi a parlare. Sono i ricordi che Pagliai ha de La Lima, il paese più in ombra d’Italia, quel paese che con la sua cartiera aveva sognato un periodo di sviluppo, uno sviluppo che aveva preso le forme della modernità, una modernità in cui la vecchia locanda veniva soppiantata per un nuovo locale, covo di tifosi del Bologna (tifosi tra cui annoverare anche il padre di Federico, Alessandro). Sono i ricordi di un’utopia che, come ogni utopia, non si è realizzata, sono i ricordi di paesi che balbettavano uno sviluppo e che, poi, sono stati dimenticati per l’incuria dell’uomo che l’ecologia di quei luoghi non ha rispettato. Sono i ricordi che dovrebbero essere valorizzati e custoditi in un museo come “Il Museo della gente dell’Appennino Pistoiese” a Rivoreta. Ma sono anche i ricordi d’infanzia come quello del pallone di cuoio, regalato a Federico dal padre, che viene portato via dalla torrenta.

I ricordi sono fatti di luoghi, persone che vivono ancora in quei paesi, persone che non ci sono più, ma di cui si ha memoria; eppure i ricordi d’infanzia sono fatti anche di odori, profumi, sapori. Uno mi è rimasto impresso: il “petricore”. “E’ in quei giorni, quando la primavera sfocia nell’estate, che le acque vanno in amore. Ci resteranno per un mese, non di più. Poi, dovranno anche loro subire quella legge universale secondo la quale ogni amore pretende una pari rata di dolore e noia: luglio, ma soprattutto agosto, racconteranno di acque ferme, putride, morte, in attesa di piogge che le ravvivino n po’.

E’ questo, il momento del “petricore”, con la terra che inizia a rilasciare il profumo della pioggia quando cade e si spenge su un suolo inaridito. E’ un odore particolare, deriva da un’essenza che trasuda da alcune piante nei periodi siccitosi. Questa essenza oleosa, quando si rimette a piovere dopo tanti giorni di assenza di precipitazioni, si diffonde nell’aria combinandosi con un altro composto, la geosmina, producendo così il tipico profumo dei temporali estivi, fatto di terra e di muffe” (Pag.105).

Mi piace pensare che il petricore sia uno stretto parente dell’odore che mi inebriava nelle estati della mia infanzia e della mia adolescenza trascorse al mare, sul Tirreno, che saliva dalle foglie cadute sul marciapiede dopo un temporale.

Lo Scaffale di Andrea: “LA TORRENTA. Una storia di acque in risonanza”