Sono molto felice di tornare a chiacchierare con te!

forse-mio-padre-cover-ebookÈ la prima cosa che il cuore mi suggerisce di dire a Laura Forti, dopo essermi dedicata al nuovo romanzo dal titolo bellissimo, Forse mio padre, in cui l’avverbio è nerbo della narrazione e groviglio psicologico e introspettivo, in un miscuglio complesso e stratificato come sa fare lei e come ha già fatto con L’acrobata, il suo esordio nella narrativa, (QUI la nostra precedente chiacchierata sul primo romanzo) dopo numerosi testi teatrali. Entrambi i romanzi sono pubblicati dalla casa editrice Giuntina, specializzata in letteratura ebraica.

Come prima domanda del Chiacchierando partirei proprio dal filo rosso, non a caso il colore del sangue, che tiene avvinti i tuoi due romanzi: la storia del ramo della famiglia che subendo ben due persecuzioni, quella russa e quella nazista, emigra in Cile per ritrovarsi fatalmente tra le fauci di un’altra cruenta dittatura, in L’Acrobata, e ora con Forse mio padre la tua famiglia nucleare che resta in Italia, per affrontare la guerra e la Resistenza.

foto Lucia Baldini
foto Lucia Baldini

RISPOSTA: Il sangue che unisce i due libri è il sangue di un’arteria che si spezza, un sangue che viene dall’anima. Non è una semplice macchia, scorre all’interno dei personaggi. È  la fuoriuscita da una ferita, un grido di verità. È vero, in tutte e due i libri c’è il sangue della Storia, della dittatura, della persecuzione; ma anche un sangue più intimo, interiore, raggrumato, quello dei tagli che non guariscono mai, delle cicatrici silenziose con le quali siamo costretti a convivere. Il colore rosso delle due copertine (non è una scelta casuale, in effetti) vuol anche dire che esiste nel percorso di un essere umano un punto di rottura, un bisogno di denuncia che alla fine impone di mettersi a nudo e rivelare il segreto, la pena, di prendere coscienza del dolore anche se il processo richiede ulteriore sanguinamento. Ma in questo caso il sangue diventa anche creatività, ritorno alla vita, accompagna una rinascita.
Ma c’è qualcosa di più intimo e autentico, che tiene annodati i due romanzi ed è il fantasma del padre, che dal primo si ripete moltiplicandosi nel secondo, e la madre che emerge in entrambi come figura dominante e a tratti soverchiante, che non salva e non è àncora.

Sei tu stessa a tracciare una linea tra i due romanzi e la loro relazione in Forse mio padre, quasi a suggerire che dal primo è nato il secondo; o che se non ci fosse stato il primo non avrebbe potuto esserci il secondo.

RISPOSTA: In effetti è proprio così, lo spiego anche nel mio ultimo romanzo: un libro ha dato la spinta all’altro. Per molti anni ho avuto paura ad affrontare la mia storia personale e ho usato la storia dell’Acrobata per incoraggiarmi e per elaborare nel profondo. Perché a volte la scrittura avviene così: si cova dentro una storia, si scrive nell’inconscio anche se materialmente non lo si sta facendo. Scrivere un libro può significare cominciare a scriverne un altro. Nell’Acrobata c’è una madre/nonna che cerca di ricostruire il corpo del figlio ucciso, di ridargli vita e ricordi, perché il nipote a cui si rivolge possa conoscere un padre che non ha mai vissuto nella sua umanità. È un racconto pieno di amore, l’amore di una madre per un figlio; ma l’amore non è mai qualcosa di semplice e di lineare. Insieme al racconto dell’amore si narrano anche altri sentimenti, il senso di colpa per aver lasciato il figlio libero di scegliere una strada che lo ha portato alla morte, l’angoscia di aver trasmesso un senso di instabilità, di ansia, di incapacità di equilibrio personale dovuta all’esperienza dell’esilio. Tuttavia qui la protagonista è una madre addolorata, che ama in modo viscerale, fino al sanguinamento. La madre di Forse mio padre è diversa: è un demone con cui la figlia si deve confrontare. È una madre che ha tradito la fiducia di Laura ingannandola, negandole la verità, impedendole di conoscere il suo padre biologico e non proteggendola dal clima di violenza che regnava in casa. Una madre in conflitto con la propria sofferenza, con la propria fragilità, una bambina che ha dovuto crescere troppo in fretta annullando i sentimenti, che non ha conosciuto l’amore e che è stata incapace di darlo. Una madre che cerca di amare sé stessa rispecchiandosi nella figlia ma non ci riesce e proietta su di lei sentimenti conflittuali e contraddittori. 
Sei partita da una storia che ti apparteneva a distanza e che era a suo modo immersa nella reticenza dei racconti famigliari, per poi immergerti in una storia che ti apparteneva profondamente, avvolta in un segreto che non si può più dipanare fino in fondo, come l’avverbio del titolo, forse, svela irriducibilmente.

Nel mezzo, per te che parti dal teatro e che in esso ti sei formata, il romanzo. Anche se entrambi i tuoi libri sfuggono alle definizioni canoniche di romanzo, ma del romanzesco hanno il ritmo, l’introspezione acuta, i temi e le riflessioni approfondite, e inoltre l’iconicità dei personaggi.

RISPOSTA: Credo che quando si affronta la memoria personale, una memoria che come in questo caso destabilizza, non riflette più l’identità , la storia familiare conosciuta, ma si riempie di crepe, di misteri, di buchi che vanno riempiti, di relazioni che vanno riviste, la narrazione non possa che procedere per balzi, per inceppi, per epifanie improvvise, per arresti perché ripercorre il processo e il bisogno di rielaborazione implicito nel libro. Quello di riaffrontare il proprio vissuto, di interrogarlo e metterlo in discussione, di provare a riempire quei vuoti con l’immaginazione: “quando la memoria non c’è, non basta o resta muta, bisogna costruircene una nostra. Bisogna avere fede nella fantasia”, dice Laura alla fine del suo viaggio. Naturalmente sta parlando della memoria personale, non della memoria storica (quella è oggettiva e va tramandata come tale). Ma davanti all’abisso, al vuoto che lascia un padre mai conosciuto lo scrittore ha la possibilità di intervenire provando a fare supposizioni, creando trame alternative, parallele o coincidenti. In questo caso, grazie alla scrittura, sarà la figlia a generare il padre che l’ha generata, l’incontro che non è mai potuto avvenire.

 

Nel romanzo i padri si triplicano: c’è il padre naturale a cui Laura si rivolge con un tu che ingloba tutti i sentimenti che si agitano in lei: dal desiderio al bisogno, dalla rabbia alla colpa; c’è il padre “anagrafico” che è una figura negativa ed essenzialmente negata nella sua paternità; e c’è un padre putativo che è stato donato a Laura e che avrà un ruolo fondamentale nella sua vita e nello scovare il bisogno che la donna ha di dipanare il mistero e di non mistificare più il segreto che avvolge la sua nascita, di farlo uscire dal sogno e di renderlo tangibile attraverso un’indagine che è scavo profondo dentro di sé.

RISPOSTA: È vero, prima tu hai notato che Acrobata e Forse mio padre hanno in comune proprio l’assenza di un padre. La nonna lo restituisce al nipote tramite i suoi ricordi, qui è una figlia che se lo deve inventare mettendo insieme pochi indizi come se si trattasse di un’indagine poliziesca. Un padre anagrafico c’è, il marito della madre. Ma il sospetto e l’ambiguità circa la paternità avvelenano il rapporto tra Mauro e la figlia rendendolo problematico e conflittuale, al punto che Laura non viene accettata dalla famiglia proprio perché già dalla sua nascita girano voci e dicerie sul fatto che sia nata da un amore clandestino, di cui peraltro nessuno parla apertamente per mantenere una facciata di normalità perbenista, anche se mantenere il segreto ha dei costi altissimi per tutti i personaggi. Non voglio certo sostenere nel libro che il vero padre è quello biologico. Il vero genitore è colui che ti ama. In questa storia però il padre anagrafico è incapace di amare la figlia che non sente sua; Laura non deve ricreare solo il corpo del padre mai conosciuto mettendo insieme i dettagli a disposizione e integrandoli con supposizioni e creazioni letterarie nate da un forse (ma tutta la memoria è un grande “forse”). Deve anche porsi davanti alla domanda più scottante e dolorosa: questo padre che non ho potuto conoscere mi ha amato? Deve provare a ricostruire i sentimenti del forse padre assente, tenuto lontano dalla madre stessa che impedisce tra i due un contatto diretto e addirittura, fino al momento della morte, non dice la verità alla figlia. Deve provare a ricostruire l’amore, sottraendolo al silenzio, intuendolo. E alla fine ci riesce. Si porta in eredità un amore insolito, vissuto da lontano, l’occasione perduta di qualcosa che avrebbe potuto esserci, che lascia tristi perché irrecuperabile ma mette in pace perché se ne intravede la potenzialità luminosa. L’eredità con cui la figlia si congeda dal padre, che porterà nel suo presente, è un sentimento nuovo per lei, abituata alla paura e alla rabbia invadente della madre: quello della delicatezza, della dolcezza, della non prevaricazione, dell’attesa, di chi ha saputo amare in punta di piedi, nell’ombra, sacrificando se stesso. Anche se l’avventura insieme non è mai iniziata e resta solo un nome disegnato sulla sabbia, una barca che non è mai partita e soltanto il sogno del mare aperto. 

 

In Forse mio padre tu affronti con grande lucidità l’importanza della scrittura nella tua vita e ti interroghi sul senso e il valore del libro che stai scrivendo. Io aggiungo a quel percorso presente tra le pagine, come domanda un chiarimento: cosa rappresenta per te la forma del romanzo, e a quale esigenza risponde nell’affidargli le memorie famigliari e i rovelli esistenziali?

RISPOSTA: Non credo che esistano romanzi autobiografici ma che si scriva sempre di sé, travasandosi nei personaggi. Non so neanche se esiste più una forma di romanzo canonico (penso a Safran Foer di Ogni cosa è illuminata ad esempio): probabilmente anche il genere ha subito delle evoluzioni e dei cambiamenti, diventando qualcos’altro, qualcosa di postmoderno (per usare un termine in voga), diventando un contenitore diverso di racconto e comunicazione. Personalmente non penso che esista la scrittura autobiografica, esiste la scrittura. Per me Forse mio padre è una storia dove si incontrano dei personaggi e la protagonista fa un percorso. Che poi si chiami Laura e che sia la mia storia è un fatto secondario: il lettore vivrà Laura come personaggio nel quale forse potrà identificarsi. E questa la magia e la forza di una narrazione: riuscire ad accompagnare il lettore in un percorso  di luci e di ombre, un viaggio di rinascita e di scoperta. Forse proprio per il mio passato teatrale io scrivo pensando a un dialogo, al pubblico, a chi mi leggerà. Non è un caso che questi due romanzi abbiano la forma della lettera e cerchino un interlocutore. Ma il destinatario  non è solo quello letterario, il padre di Forse mio padre o il nipote dell’Acrobata. È il lettore stesso. Si può dire che ogni romanzo sia una lettera mandata a qualcuno, un legame di ascolto  tra chi parla e chi riceve quelle parole e le fa sue. 

Per fare questo, bisogna essere autentici, condividere la propria esperienza, ciò che abbiamo scoperto su noi stessi. Raccontare qualcosa di intimo, di profondo, che parli dell’anima e metterlo a disposizione di altre anime, di altre vite, di altre esperienze. Quando questo avviene la scrittura ridona speranza a chi scrive e a chi legge e diventa un atto di amore che ci salva dalla solitudine.

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Laura Forti
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