Dizengoff Square, a Tel Aviv

Visto che bar e ristoranti sono ancora chiusi a causa dei provvedimenti anticovid  (fanno solo consegne), ti porto a Dizengoff Square, a Tel Aviv. Ci sediamo sulle sedie colorate messe a disposizione dal comune, insieme a molti altri giovani israeliani che scelgono di fare l’aperitivo all’aperto. Porto una bottiglia di un bianco del Sud, dove le viti crescono in mezzo al deserto, per quanto riguarda il cibo, scegliamo un ristorante e ci facciamo fare una consegna. Che ne pensi di ceviche di cernia con kiwi e lemongrass?

Resta ancora un poE con questo invito la mia gratitudine nei confronti di Ghila Piattelli, che mi ha regalato dei momenti piacevolissimi non privi di un sostrato di riflessione e di introiezione, cresce ancora. Ho letto Resta ancora un po’, l’esordio per Giuntina, che mi ha conquistato dalla prima scena. Sono stata trasportata dall’ironia mai saccente né sarcastica ma sempre leggera ed immediata con cui ha saputo sdrammatizzare il tema della morte, della guerra, della perdita e del disamore senza togliere a questi complessità e profondità. Era proprio il libro di cui avevo bisogno in questo momento.

Prima di conoscere Giuditta (che bello trovare personaggi straordinari ed eccentrici che portano il mio nome: è come vivere altre vite) e la sua famiglia, il suo presente (a tratti esilarante) e il suo passato (tragico e coraggioso ma vissuto e ricordato con estremo humour), vorrei prima presentare Ghila Piattelli, al suo esordio narrativo. Nel suo nome già la particolarità biografica che rispecchia anche l’effervescenza narrativa di Resta ancora un po’, il romanzo con cui la conosciamo grazie a Giuntina e con il quale – lo confesso senza esitazioni – mi ha entusiasmata sin dalle prime pagine per il tono ironico e toccante. Ghila ci riporta ad Israele e Piattelli all’Italia, che sono anche i due poli ideali su cui ruotano con altri ibridismi le radici e le esistenze dei personaggi del romanzo, a partire da Giuditta, regina indiscussa da cui tutto si muove.

Dall’Italia ad Israele, come Giuditta, anche Ghila, che scrive in italiano, perché nata a Roma, e ambienta la vicenda in Israele, tra Gerusalemme e Tel Aviv, dove vive dal 1992: romanzo israeliano in lingua italiana, infatti, si legge sulla quarta di copertina.

Quanto del tuo mondo c’è in Resta ancora un po’

Ghila PiattelliRISPOSTA: In ebraico esiste un modo di dire che è l’equivalente dell’espressione italiana tenere il piede in due staffe: ballare contemporaneamente a due matrimoni, ed è questo che c’è del mio mondo, anzi dei miei due mondi, nel romanzo. Come me Giuditta è nata in Italia, e pur amando profondamente Israele, porta l’Italia nel cuore. Non è divisa ma moltiplicata, accoglie questa sua duplicità e ne fa il suo punto di forza, anche se questo la rende un po’ eccentrica. È un grande privilegio amare due Paesi e sentirsi parte di entrambi. Questa è la genesi di Resta ancora un po’: scrivere di Israele da israeliana, usando la lingua italiana, mi ha offerto una prospettiva interessante, mi ha permesso di osservare  Israele con lo sguardo disincantato di chi appartiene a questa realtà, ma allo stesso tempo ho avuto la possibilità di raccontare Israele passando attraverso il filtro di una lingua ‘’straniera’’, estranea alla realtà che stavo descrivendo; questo mi ha permesso di non dare niente per scontato, di potermi meravigliare di nuovo per cose che altrimenti avrebbero fatto soltanto da sfondo. Scrivendo questo romanzo, ho accolto in me due sensibilità diverse, irriducibili, ma che hanno convissuto, e convivono tuttora fianco a fianco. 

 

Passiamo a presentare la strana famiglia di Giuditta: la figlia Ahuva, avvocato di successo in Israele, e il marito, gastroenterologo affermato, primario nel migliore ospedale di Tel Aviv, e i loro figli, due donne con matrimoni scombinati e un ragazzo Yoni, iscritto alla facoltà di letteratura latinoamericana a Gerusalemme, cosa che viene ripetutamente ridicolizzata dai familiari.

A lui è rivolto l’invito della nonna, che come tutto ciò che riguarda Giuditta suona più come un comando, di accompagnarla per i vari cimiteri del paese alla ricerca di quello giusto per lei. In queste escursioni incontra la ragazza del nipote e il suo coinquilino. Un quartetto variegato, all’interno del quale la presenza di Giuditta, politicamente scorretta, dona al romanzo una vivacità a tratti esilarante, elemento che mi ha subito incantata.

La morte è uno dei personaggi del romanzo, indagata in duplici aspetti. In quello tragico rappresentato dalla morte nel 1973 durante la guerra del kippur del giovane fidanzato di Ahuva; in quello ludico e spensierato della visita ai vari cimiteri, che contempla la morte nella sua naturalità; infine in quello più introspettivo che è la reazione dei personaggi alla perdita e al lutto. 

Che rapporto hanno i tuoi personaggi nei confronti della morte e che ruolo essa stessa gioca nel romanzo? C’è stata da parte tua la volontà di presentarla sotto vari aspetti? Più ancora che l’amore non è la relazione con la morte che tiene avvinti tra di loro i tuoi personaggi?

RISPOSTA: La grande domanda che percorre il romanzo, che viene sussurrata tra sé e sé da Giuditta mentre contempla l’infelicità di sua figlia Ahuva, è: quante vittime collaterali ha potuto fare un cecchino siriano sulle alture del Golan nel corso della Guerra del Yom Kippur?  A morire sulle alture del Golan nel 1973 è stato Yonatan, il fidanzato di Ahuva, ma la maggior parte dei personaggi riportano i postumi di quell’evento traumatico. In quel giorno d’ottobre del 1973 sono morti un po’ anche Ahuva ed Erez amico d’infanzia di Yonatan, incapaci di superare il dolore per la perdita di Yonatan lo hanno addomesticato, gli hanno permesso, ognuno a suo modo, di segnare il percorso delle loro vite. Anche gli altri personaggi convivono con questo lutto che non è stato mai elaborato e che continua a proiettare la sua ombra sulle loro vite.
 Non è tanto la morte a legare i personaggi tra di loro, quanto la consapevolezza della perdita, di quello che sarebbe potuto essere se Yonatan non fosse morto. Il ventaglio infinito delle possibilità, tutto quello che è andato perduto. Vita e morte danzano insieme, per tutto il corso del romanzo, il loro è un valzer infinito, che le vede come le due facce della stessa medaglia. Alla fine, però, è la vita ad avere la meglio, perché sono proprio i personaggi che scelgono di continuare a vivere.

La vita ha sempre esercitato sull’immaginario ebraico, e di conseguenza su quello israeliano, molto più fascino di quanto abbia fatto la morte. Israele è un Paese dove non si celebra la morte, dove non esistono martiri e gli eroi sono coloro che sopravvivono. Anche ai miei occhi la vita è molto più sexy della morte. In Resta ancora un po’ i personaggi fanno resistenza alla morte, anche cercando di mantenere in vita in modo artificiale, attraverso l’idealizzazione, chi non c’è più. È così che prendono vita i fantasmi che tengono in ostaggio la famiglia Dvori, ed è proprio Giuditta che decide di spezzare questo incantesimo. Giuditta  guarda il nemico negli occhi, dichiarando guerra aperta alla morte, alla perdita e al dolore.  Quale terreno più adatto avrebbe potuto scegliere Giuditta per affrontare questa battaglia se non un cimitero?

 

Giuditta guarda negli occhi il nemico, ma in realtà guarda negli occhi con divertita spavalderia, mista a malinconia, tutti coloro che la circondano, e dunque la vita in generale.

Nella prima passeggiata per i cimiteri che vede Giuditta con Yoni, Ittai il coinquilino di Yoni, e Noga, la sua ragazza, che diventano ogni volta delle avventure rocambolesche in quattro, di fronte alle intemperanze di Giuditta, in particolare nei confronti delle origini yemenite di Noga, Yoni tra sé medita: quante affermazioni politicamente scorrette possono essere contenute in una sola frase? quanti stereotipi, quanti preconcetti, quanta superiorità? La nonna sta straripando come i torrenti del fiume del Negev dopo un bel temporale.

Ma non è proprio questo suo essere straripante, autentica, immediata e scorretta che rende Giuditta così unica e speciale, ingombrante e insostituibile? Il perno della famiglia e quindi anche del romanzo?

Inoltre che ruolo gioca il politicamente scorretto in Resta ancora un po’? E che rapporto ha con l’ironia profonda e sdrammatizzante, a tratti dissacrante ma mai astiosa né asprigna che volteggia nella tua scrittura?

RISPOSTA: Giuditta è di una schiettezza spesso imbarazzante, dice sempre la verità usando le parole senza remore. È l’unico personaggio del romanzo che non mente e non tace. Non risparmia commenti nei confronti degli yemeniti, delle signore che alla sua età indossano tute da ginnastica e si tingono i capelli. Se la prende con i mariti delle sue nipoti ‘’un Don Giovanni’’ e un ‘’inetto’’, con la pancia di Zvika, marito di sua figlia, con la presunta (o reale?) omosessualità del coinquilino di Yoni.

In una società che ha fatto del politicamente corretto la sua bandiera, Giuditta è un vero terremoto. Ma è un terremoto che scuote le coscienze, che mostra le cose come realmente sono e non come noi ci illudiamo che siano. In una famiglia dove predominano i silenzi e le parole non dette, Giuditta con la sua schiettezza, innesca una reazione a catena che toccherà gli animi di tutti i personaggi e li sveglierà dal letargo. La sincerità di Giuditta è contagiosa: come se l’incantesimo che ha tenuto in ostaggio la famiglia Dvori per quarant’anni si spezzasse, pian piano i personaggi, iniziano a parlarsi, a guardarsi negli occhi ed è proprio questo il momento in cui i fantasmi svaniscono. 

 

Accanto a Giuditta, altro personaggio a cui si finisce per legarsi indissolubilmente di affetto e vicinanza è Yoni, il nipote. L’unico nipote maschio per Giuditta, che porta una croce sulle sue spalle: essere il prediletto della nonna. Come ebreo prima ancora che come nipote sa che questa eredità richiede un immenso sacrificio. A lui affidi in parte ma non del tutto la narrazione del romanzo, che alterna al racconto in prima persona di Yoni sul presente, in cui il tono ironico e divertente è evidente e trascinante, quello in terza persona, soprattutto rivolto al passato e a svelare al lettore la presenza del fantasma che ha reso così difficile e triste, mancata e strozzata la vita famigliare della famiglia Dvori.

Ha solo una motivazione legata ai diversi tempi della narrazione, o c’è una valutazione più intima e profonda che ha reso Yoni un narratore a metà del romanzo?

Forse come narratore si sarebbe rivelato come è stato al matrimonio della cugina italiana in cui traduce dall’ebraico il discorso di un parente, concedendosi troppe libertà e qualche sfumatura nel lessico che ne modifica, a sua insaputa, il testo e il contesto? Ti confesso che ho riletto più volte quel brano, ridendo anch’io di cuore come gli invitati italiani. 

RISPOSTA: L’uso esclusivo della terza persona impone una prospettiva dogmatica alla narrazione delle vicende. È così e non sarebbe potuto essere altrimenti. Lo scrittore diventa una specie di dittatore, l’unico a riportare come sono andate le cose. Un’altra voce in campo, quella di Yoni nel nostro caso, aggiunge informazioni, allarga la possibilità di interpretazione, dà la possibilità al lettore di cambiare opinione nel corso del romanzo. Ci sono eventi che sono narrati sia da Yoni che in terza persona. Quando li racconta Yoni hanno tutto un altro sapore. Lo fa con la sua lingua semplice, con gli occhi del ragazzo poco più che ventenne, con la meraviglia che accompagna i primi approcci nella vita. È lui a introdurre la nonna Giuditta nelle prime pagine del romanzo, e lo fa con una carica emotiva che manca al narratore in terza persona.
Quando racconta, Yoni ci mette il kishka (budella in yiddish), anche se il suo tono resta asciutto e minimalista. Ne viene fuori una narrazione intima e familiare.
Contro la centralità bizantina della narrazione in terza persona, c’è la voce di Yoni, che fa da controcanto, che talvolta amplifica e talvolta abbassa i toni, in un crescendo che va di pari passo alla crescita del personaggio. 

 

Un’ultima riflessione sulla lingua italiana, di grande immediatezza e speziata dai sapori e colori dell’ambientazione ebraica.
Per Ghila Piattelli è la lingua madre, una lingua letteraria o un ritorno ad una lingua che padroneggia nei vari registri incluso quello letterario? Cosa l’ha spinta a scrivere in italiano invece che in ebraico?

RISPOSTA: La scelta dell’italiano piuttosto che l’ebraico, è stata una scelta naturale. Io conto in italiano, sogno in italiano e quando mi arrabbio, lo faccio in italiano. È stato naturale per me che la scrittura che è un processo totalizzante, che coinvolge sia il kishka (per tornare a questa perla dell’anatomia gastronomica del mondo yiddish) che il cervello, fosse nella mia lingua madre. Talvolta l’ebraico irrompe nella narrazione, ed è come se i personaggi si ribellassero all’uso dell’italiano che gli ho imposto. Così ad esempio Zvika sussurra nu, una sillaba che esprime tutto: insofferenza, fretta, o impazienza. Yoni quando deve pronunciare una maledizione va a cercarla nella Bibbia, e con la leggerezza di cui solo Yoni è capace, dice: la tua lingua si attaccherà al tuo palato se lo dimenticherai. Se l’italiano è il mio ambiente naturale, è l’ebraico a esserlo per i personaggi. I loro nomi, tutti ebraici, hanno un significato che li lega alle vicende del romanzo: Ahuva vuol dire amata, Yonatan è un personaggio biblico, amico fraterno del re David, mentre l’ufficiale dell’esercito che va di casa in casa ad annunciare alle famiglie la morte dei soldati, si chiama Hayim, vita. L’ebraico fa da sostrato al mio italiano, quando i personaggi parlano, anche se il romanzo è scritto in italiano, noi sappiamo che parlano in ebraico.

Mi concedo anche un’ultima domanda bis: Resta ancora un po’ è un romanzo concluso, ma come per tutti i personaggi riusciti lascia nel lettore il desiderio di continuare a frequentare la famiglia Dvori. A quale dei suoi personaggi Ghila Piattelli direbbe “resta ancora un po’”?

RISPOSTA: Forse dovrei essere politicamente corretta o imparziale come le mamme nei confronti dei loro figli e risponderti che direi a tutti i personaggi ‘’resta ancora un po’ ‘’, e in parte è vero. Però cedo alla tentazione e visto che la nostra in fondo è una chiacchierata, ti confesso che il personaggio che vorrei trattenere ancora per un po’ è Ittai. Nel romanzo compare per l’ultima volta addormentato sul divano abbracciato a una Lonely Planet dell’Argentina, oggetto dal quale lui ha deciso di non separarsi, e di trattenere con sé. Si è addormentato così candidamente malgrado i pensieri e i rimpianti che passano in quel momento nella sua mente.  Ittai ama senza saperlo, sente di essere giudicato, etichettato dagli altri, mentre lui ancora non ha capito bene chi è e che cosa gli sta succedendo. È un personaggio non completamente risolto che ha ancora un grande potenziale di crescita, forse per questo vorrei prenderlo per mano e accompagnarlo ancora per un po’ in questo percorso.  

Chiacchierando con… Ghila Piattelli
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