di Andrea Cabassi

TRIESTE E LA SUA ECO

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Recensione al libro di Giuseppe A. Samonà

                                          “La frontiera spaesata” (Exòrma)

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Era il settembre 1989 e due mesi dopo sarebbe caduto il muro di Berlino. Noi eravamo a Trieste. Stavamo facendo una vacanza sul confine. Trieste ci accolse bene e la girammo a piedi per alcuni giorni: i vicoli, il Porto Vecchio, Piazza Unità d’Italia, Miramare e sopra la città, il sentiero dei poeti, Monrupino e, fuori dalla città, la passeggiata Rilke che collega Sistiana a Duino. Si respirava aria di mitteleuropa. Eravamo sul confine, ma non ci sembrava di essere in Italia. Ci affascinava il Caffè degli Specchi dove speravamo di incontrare Claudio Magris che, però, non incontrammo mai; ci piaceva vagabondare tra i vicoli o lungo il mare. Provammo emozioni che non è facile descrivere.

A esprimere quelle emozioni di allora ci aiuta oggi un libro molto bello di Giuseppe A. Samonà “La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani” pubblicato da Exòrma (Exòrma 2020).

Ho detto un libro molto bello, ma dovrei stare attento con i superlativi e le iperboli perché, proprio nel libro, Samonà scrive:

“Tuo padre ti diceva: per carità, niente aggettivi qualificativi a sfondo estetico-morale, inutilmente vaghi, né le espressioni a incenso che gli equivalgono, o li accompagnano” (Pag. 91).

E allora come definire questo libro che suscita riflessioni, ricordi, grandi emozioni? Difficile da dire ma, intanto, si può dire qualcosa dell’autore. Giuseppe A. Samonà è nato a Roma nel 1958, ha vissuto e insegnato a Parigi, New York e Montreal. Ha pubblicato diversi libri sul Vicino Oriente e sull’America degli indiani. E’ stato cofondatore della rivista franco-italiana Altriitaliani ed è condirettore della rivista transculturale franco-canadese ViceVersa. Per la narrativa ha pubblicato, fra gli altri, Quelle cose scomparse, parole (Illisso 2004). Fa parte dell’antologia La terra della prosa (L’Orma 2014) e Con gli occhi aperti (Exòrma 2016);  la sua ultima traduzione dal francese è I fannulloni nella valle fertile di Albert Cossery (Einaudi 2016). Attualmente vive a Parigi.   

“La frontiera spaesata” è un libro molto difficile da recensire per  gli argomenti trattati (Trieste, Zagabria, Lubiana, Pola, Fiume, il rapporto storico tra l’Italia e la Jugoslavia, l’implosione della Jugoslavia, la letteratura, i paesaggi, il confine, l’autobiografia) per  la sua ricchezza, per la sua poesia, perché tocca le tue corde più profonde, perché è come uno specchio del mio viaggio di allora (e di altri viaggi) che ho rivissuto leggendo queste pagine.

Si diceva più sopra di Trieste, di quella Trieste che è oltre ogni definizione:

“Politicamente è italiana, geograficamente, se la geografia ha un senso nel definire i paesi (ma cosa lo ha?), no, e infatti gli stranieri che imparano la lingua di Dante, nelle classi con la carta appesa al muro di fondo, non riescono a vederla: mais où est-elle?  Storicamente lo è e non lo è; di fatto, ha toccato il suo apogeo proprio quando sognando di esserlo ancora non lo era, all’inizio del secolo scorso…” (Pag.7).

Trieste che è oltre ogni definizione e che è stata testimone di numerosi atti di violenza:

“Uno su tutti, il ricordo, attraverso cui leggerà l’infinitamente oscuro Novecento lo scrittore Boris Pahor, che all’epoca aveva sette anni: il rogo del Narodni dom, la casa della cultura slovena, con cui la città si attacca al senso stesso della propria storia. Perché Trieste era e sarà sempre anche Trst, tetragramma impronunciabile che non può essere ignorato, o sconfitto” (Pag. 8).    

E ancora: quella Trieste così particolare che potrebbe essere la città di Pessoa, quella Trieste così strana di cui parla Proust a proposito di Albertine, uno dei personaggi più importanti della Recherche, e che Proust vede come una città maledetta “permanentemente conficcata nel cuore, come una punta”. Quella Trieste descritta da Marisa Madieri  –  che fu moglie di Magris –  scrittrice evocata poeticamente da Samonà :

“Era di Fiume, Marisa Madieri – vi nacque e visse i primi anni della sua infanzia – non di quell’Istria in cui ti appresti ad andare; ma era anche di Trieste, dove trascorse la maggior parte della sua vita, fino alla morte; e anche, soprattutto, forse proprio per via di questo entre deux, stava al di sopra, in una sorta di spazio comune a tutti. E’ senz’altro la prima lettura da intraprendere nel momento in cui lasci Trieste” (Pag. 54-55).

E non solo questo: Trieste è la porta da cui entra la psicoanalisi in Italia; è il luogo in cui ha operato Basaglia; è il luogo di Marco Cavallo, il cavallo che esce dal manicomio e viene portato in giro per la città da centinaia di matti,  nel 1973.

Trieste è la vera protagonista de “La frontiera spaesata” anche quando si parla di altre città, anche quando vengono descritti altri itinerari perché:

 “Trieste riaffiora continuamente alla memoria, con mille associazioni, echi che continuano a seguirti, e se ne parla in tutti i capitoli. Fin dove arriva l’eco di Trieste: sarebbe potuto essere il sottotitolo o persino il titolo del libro, e ne è il filo (ma sono cosciente che altri avrebbero potuto pensarlo come Fin dove arriva l’eco di Zagabria…) ) (Pag.287).

La flanerie, comunque, non si limita a Trieste. Ci sono anche Lubiana e Zagabria.

Ancora uno specchio: Lubiana e la sua atmosfera mitteleuropea; Lubiana e la sensazione di sentirsi altrove, forse a Vienna, forse in qualche altra città dell’impero absburgico.

Ero molto giovane quando andai per la prima volta a Lubiana. Non ricordo molto di quella prima volta. Ricordo, appunto, l’atmosfera. Non mi sembrava di essere in Jugoslavia. Mi sembrava di essere molto, molto più distante dall’Italia. E intanto avevo cominciato a nutrirmi dei testi di Magris, una frequentazione che dura tuttora.  Ricordo quanto fui influenzato dalla lettura di “Il mito absburgico nella letteratura austrica moderna” la cui prima edizione era del 1963. Ne fui influenzato in quella mia prima permanenza anche se si parlava di letteratura austriaca e non di letteratura slovena. Questo per dire quanto sentivo dis/locata Lubiana.

Itinerari di viaggio tra Pola, Trieste, Zagabria. Itinerari in un libro che non è e non vuole essere una guida, che non è un romanzo e non vuole esserlo, in un libro che è e non è autobiografico ma che fa riemergere ricordi che sono parte della mia storia: una permanenza a Fiume, un soggiorno al lago di Bled, l’essere spesso sintonizzato con Tele Capodistria e le cronache sportive di Sergio Tavcar.

A proposito di Tele Capodistria: fu vedendo, insieme a un amico, quello che accadde il 13 maggio 1990 durante la partita di calcio  Dinamo di  Zagabria –  Stella Rossa Belgrado che mi resi conto che la situazione sarebbe precipitata.

La settimana prima l’Unione Democratica Croata di Tudjman aveva vinto le elezioni in Croazia. La partita assunse il significato di una prova di forza fra serbi e croati. Gli ultras serbi del famigerato Arkan, i Deljie,  affluirono in massa allo stadio di Zagabria e si scontrarono con i Bad Blue Boys della Dinamo. Ci furono atti di vandalismo, una invasione di campo durante il riscaldamento, intervenne la polizia contro i tifosi della Dinamo con reparti antisommossa. Il giocatore Boban colpì con una ginocchiata un militare che stava manganellando un tifoso della Dinamo. La guerriglia si spostò fuori dallo stadio e durò fino a notte fonda. Ci furono molti arresti, molti feriti, molte auto distrutte. Il telecronista di quella partita, Sergio Tavcar, nel bel libro scritto con Marco Ballestracci “Lo sport e il confine del mondo” (Mattioli 1885  2019),  sostiene che quello fu il vero antefatto della guerra in Jugoslavia.

Accadde tutto a Zagabria che è l’altra città teatro della flanerie di Samonà. Ce la descrive  come un luogo in cui il clima politico resta teso, dove gli animi non sembrano pacificati, dove gli echi della guerra sono ancora presenti. Malgrado ciò, a Zagabria, si possono ancora incontrare tracce di una grande cultura, di grandi scrittori come quelle del grandissimo Miroslav Krleza a cui Samonà dedica pagine molto importanti.

Mi sia concesso, a proposito di Krleza, un altro ricordo personale. Dovevano essere i mesi prima della caduta del muro di Berlino. Ero in libreria e, scartabellando tra gli scaffali, trovai un libro in cofanetto edito dalla Studio Tesi di Pordenone. Ne fui immediatamente affascinato e lo acquistai. Si trattava di “Sull’orlo della ragione” di Miroslav Krleza. Quando tornai a casa cominciai subito a leggerlo. Mi fece una impressione così grande che tornai in libreria e ordinai gli altri suoi romanzi. Lessi anche Danilo Kis, Matvejevic,  rilessi Andric.  Là trovai anche i libri della casa editrice Hefti e divenni uno dei pochi affezionati acquirenti dei testi pubblicati da quella casa editrice. “Breviario mediterraneo” di Matvejevic lo lessi nelle edizioni Hefti.

Samonà chiama giustamente groviglio le relazioni storiche tra Italia e Jugoslavia, la situazione politica, geografica, storica jugoslava:

“Il groviglio è complesso. Le interpretazioni spesso discordanti, le memorie in conflitto, se solo ci si aggrappa a un filo, per risalirlo, o a un altro, ad esempio cominciando il percorso con l’incendio del Narodni dom, o la foiba di Basovizza. Una cosa si può affermare, in generale: elevare una memoria, con il suo pezzetto di storia a verità della Storia è un oltraggio alla giustizia, alla verità: è solo nel considerarli nel loro globale aggrovigliamento, e diacronicamente, che si può capire il senso, appunto complesso degli eventi” (Pag. 85).

Segmentare, isolare e separare sono tutti modi per arrivare a nazionalismi che si riveleranno, alla fine, sanguinosi. Non c’è autoctonia, veniamo sempre da un altrove. Siamo sempre groviglio. Anche la lingua dovrebbe esserlo perché non diventi un dissennato strumento d’ identità:

“La lingua, da queste parti, come in altre la religione, è stata un dissennato strumento d’identità – ma la lingua, a differenza della religione, include, non esclude, identifica ma anche comunica, apre, esce fuori, ama impiastricciarsi con le altre, e accetta facilmente la pluralità” (Pag. 86-87).

Mappe e foto (scattate da Sophie Jankélévitch) fanno da contraltare alla scrittura. Come se la spiegassero, come se l’approfondissero, come se la commentassero. Come se il confine fra le discipline fosse facilmente attraversabile, come se la frontiera fosse liquida: niente muri, niente fili spinati. E in effetti:

“Da un lato, il tuo occhio arrivò a scorgere Grado, la sua punta, l’isola forse – o era un miraggio? – persino Venezia; dal lato opposto, in un attimo, semplicemente volgendo le spalle a Grado, e scivolando nell’infinito orizzonte orientale, ti ritrovasti senza saperlo in Slovenia, e attraversasti il verde, le case, sempre più lontano, sino a Lubiana ( a occhi aperti, sognando), poi, girandoti poco sulla destra, scavallasti un altro orizzonte, un’altra linea, per arrivare proprio a Zagreb, in Croazia, e persino più in là, fantasticando viaggi e avventure… Accanto a te c’era una ragazza australiana. ‘Where is the border?’ chiese. ‘Frontiera’ le rispondesti ‘è quel verde infinito, e quell’ombra, è nebbia e aria, e mare – è ovunque, anche qui, dove stiamo parlando adesso’” (Pag. 215).

Lo Scaffale di Andrea: La frontiera spaesata
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