Ulivo secolare

Nella veranda della casa in campagna dei miei nonni. Quand’ero piccolo ci andavo spesso, passavo intere settimane lì, e penso che Antonio e Paolo, per certi versi, provengano da quel posto. Sterpaglie, ulivi secolari e sole che brucia.

Gli AffamatiHo letto forsennatamente “Gli affamati” di Mattia Insolia, edito da Ponte alle Grazie, con due giovani fratelli protagonisti, Antonio e Paolo appunto, senza riuscire a staccarmi dalle pagine e soprattutto da questi due giovani uomini, rabbiosi e arrabbiati, vitali e vivi.

Bisognerà tenerlo d’occhio, Mattia Insolia, perché ha stoffa e talento, e sono felice di fare un pezzetto di strada insieme a lui con in mano “Gli affamati” tra gli ulivi dei nonni. Voi raggiungeteci là leggendo la chiacchierata che segue: non ve ne pentirete!

 

Sono affamati di vita e di opportunità, di occasioni e di affetto, i due giovani fratelli protagonisti dell’esordio portentoso di Mattia Insolia per Ponte alle Grazie.

Antonio e Paolo, orfani di padre, ubriacone e violento, e abbandonati dalla madre, che cerca la propria salvezza nella fuga senza la zavorra dei figli.

Paolo lavora in un cantiere con ritmi massacranti e poi dissipa il suo tempo consumato nella rabbia, nel tentativo di sentirsi onnipotente per nascondere la fragilità che lo dilania da dentro, nelle canne e nell’alcol. Antonio, il più piccolo, è alla ricerca di sé e si sente in balia degli altri, denigrato e non compreso persino dal suo migliore amico, Italo, tanto diverso da lui per condizioni famigliari ed economiche.

Sono affamati, “Gli affamati” di un sud che non ha misericordia per i suoi figli, che tarpa le ali e non consente resurrezioni.

Di cosa hanno fame i due fratelli?

Mattia InsoliaRISPOSTA: Di tutto. Antonio e Paolo hanno fame di tutto. L’abbandono dei genitori è un vuoto che riempie ogni cosa, che fagocita e che loro non riescono né a elaborare né a dimenticare. Questo vuoto che si espande sempre più, che nella sua crescita non ha più solo a che fare con i genitori ma con tutte le sfere della vita, è desiderio di essere e avere tutto ciò che si può, è fame cieca, è necessità di riempire lo spazio lasciato desolato dall’abbandono. Dall’incapacità di saziarsi, dall’impossibilità di trovare un surrogato che funzioni, deriva la rabbia. Una rabbia distruttiva e senza mire, ma in sé totale.

 

Con lucida spietatezza e una maturità di scrittura sorprendente per un esordio, con una voce di impatto e di tenuta, ci trascini negli inferi esistenziale dei due fratelli, ritraendo una relazione complessa e cangiante, in cui fragilità e crudeltà si mescolano insieme in un cocktail emotivo che è come una scazzottata per il lettore. Carnefice e vittima si cambiano di posizione, assumendo posture scomode e stranianti.
Essere fratelli per Paolo e Antonio è l’unica cosa che rimane nella loro desolazione affettiva ed esistenziale. Nido e gabbia. Prigione e consolazione.
Quali modelli, letterari e non solo, hanno influito nel tuo immaginario così giovane e fresco, e così composto e maturo, nell’articolare un concetto di fratellanza stratificato e multiforme? A chi somigliano Paolo e Antonio?

RISPOSTA: Il rapporto tra Paolo e Antonio è profondo, un legame viscerale, sfaccettato che è fatto di amore e odio, di ferocia e tenerezza, di repulsione per l’altro e necessità d’averlo accanto. Si aggrappano vicendevolmente, si tirano giù quando si calano a raschiare il fondo della loro esistenza misera e si tirano su quando capiscono d’averne bisogno per sopravvivere. È una sorta di amore per necessità, il loro. Lo definirei così. E in questo, credo, si avvicinano molto a Rino e Cristiano Zena di “Come Dio comanda”, di Niccolò Ammaniti. I personaggi ammanitiani sono padre e figlio, ma penso che le due coppie possano essere accostate. 

 

Nel leggere il tuo romanzo, nella mente continuavo a ripetere rivolto a entrambi i fratelli: “Non essere cattivo” con riferimento e con tutta la tenerezza che emerge dal film testamento e lascito di Claudio Caligari. E a Vittorio e Cesare pensavo insistentemente nel leggere di Antonio e Paolo, quasi a sovrapporre anche a loro il viso leggermente più giovane di Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Come nel film di Caligari, con la sceneggiatura di Francesca Serafini e Giordano Meacci, nessuna salvezza arriva per i due giovani; nessuna realizzazione alla spinta vitalistica che li anima, come se la vita ogni volta li mettesse a tacere, inesorabilmente e tragicamente e cadesse su di loro come un castigo, ingiusto e fatale.
Rispetto alla periferia pasoliniana in cui vivono Vittorio e Cesare, l’humus in cui crescono e si forgiano Paolo e Antonio è quello di un Sud atavico e ancestrale, con le sue carenze strutturali: occasioni e possibilità; pregiudizi e idiosincrasie.
Ma “Gli affamati” è una storia pienamente e fortemente introspettiva, in cui i contorni sono sfumati e sgranati, perché le figure in primo piano risultino in tutto il loro vigore.
Quella di Paolo e Antonio è una storia ambientata al Sud, o in periferia? C’è differenza tra i due contesti, o invece il Sud di “Gli affamati” è la periferia del mondo?

RISPOSTA: La storia dei miei ragazzi, di Antonio e Paolo, è ambientata sia al Sud, sia in periferia. Spesso, credo, le due cose coincidono. E questo è il loro caso. Il Sud c’è. Nel caldo che stende, nei campi incolti, nel desiderio di viaggiare verso un Nord mai ben definito e sempre tanto sognato. La periferia c’è. Nella lontananza siderale da una civiltà che vive davvero, nella povertà quasi assoluta, nell’incapacità di andare oltre dei confini che non esistono e che pure non possono essere valicati. I miei ragazzi vivono al Sud, ma vivono anche in periferia.

 

Accanto a loro, maligna dea ex machina: la Rabbia, sorda e cieca. Che sfocia in violenza, gratuita ed efferata. O si chiude in un silenzio altrettanto sordo e ostile. Una rabbia che supera la fame, o che si sprigiona per non sentire i morsi della fame, la mancanza di affetto, la sensazione di sentirsi inadeguato e sbagliato.
Alla rabbia tu hai saputo dare sempre le parole giuste, i giusti contesti in cui mostrare il suo sguardo annebbiato e la sua insensatezza, le reazioni meno scontate e sempre vere. Quella verità che attinge direttamente alla vita, alla crudeltà maligna che sa mostrare e alla tenerezza infinita che sempre si dirama dove ci sono giovani che annaspano per non annegare nel proprio destino e che straborda da un eccesso di vita, che è la cifra dei tuoi personaggi e quella della tua scrittura.
Come si interpreta la rabbia nel destino di Paolo e Antonio e qual è stata la chiave per farne il perno narrativo del romanzo senza assumere pose scomposte e senza cadere nel patetismo? Anche in questo caso ci sono stati dei modelli a cui hai guardato?

RISPOSTA: A costo di suonare ripetitivo e banale, devo tornare a Niccolò Ammaniti e al suo “Come Dio comanda”. In quel romanzo di rabbia ce n’è tanta. È una rabbia diversa, multiforme pure quella, certo, ma modellata attorno a nucleo che differisce sotto diversi aspetti dal sentimento dei miei ragazzi. Quel che è certo, però, è che ho guardato molto ai protagonisti ammanitiani, alla loro voglia di riscatto, al loro desiderio di tutto, alla loro incapacità di elaborare che sfocia nell’attacco cieco. Se di rabbia vogliamo parlare, poi, credo di aver guardato molto anche a Bret Easton Ellis e alla confusione rabbiosa dei suoi personaggi, al movimento letterario dei Cannibali italiani e alla loro voracità perenne.

La chiave di cui chiedi, invece, penso sia stato il loro passato. I miei ragazzi vivono in un presente che non concede pure l’idea del futuro e che cerca in un moto continuo di cancellare il passato. Eppure quello, il passato, sta lì, e li governa. Ecco, questa è stata la chiave, per certi versi.

 

Caro Mattia, siamo arrivati all’ultima domanda. Ti ringrazio per il tuo tempo e il tuo modo così maturo e pieno di approcciarti. Sempre.

“Gli affamati” racconta una storia che valica i confini della giovinezza e quelli di ogni geografia, perché non ha confini e gli orizzonti sono larghi, profondi e introspettivi. Anche la focalizzazione strettamente interna e claustrofobica sui due protagonisti assolve ossimoricamente la funzione di trascinare e immergere il lettore in una storia e una vicenda esistenziale che dalla sua eccezionale particolarità assurge a condizione universale.

Quali erano le tue intenzioni? Raccontare la “gioventù bruciata” o una storia che con la tua generazione non avesse che un legame anagrafico?

RISPOSTA: Credo che i miei ragazzi, per certi versi, raccontino piuttosto bene la mia generazione. Tralasciando gli aspetti più immediati, come la condizione economica e sociale o il territorio d’appartenenza o la catastrofe famigliare con cui devono convivere tutti i giorni, hanno molto in comune con la generazione a cui appartengo. La rabbia, il desiderio di spingersi oltre i propri confini ideali, la necessità di una libertà che non sia di plastica ma ampia e totale, la solitudine che pervade i contesti più affollati, la mancanza di punti di riferimento. Sono tutti elementi che penso caratterizzino sia gli affamati, sia i ragazzi miei coetanei.

 

Ultima domanda in aggiunta. Mattia Insolia è al suo esordio letterario, che è più che promettente e dimostra una gran stoffa di scrittore: cosa bisogna conoscere di te?

RISPOSTA: Niente. Assolutamente niente. Vorrei che i miei personaggi parlassero per me; come ho scritto nella dedica, alla fine del romanzo: non sono mai stato capace di vivere, così ho fatto vivere voi – voi, i miei affamati. Ecco, lascerò che siano loro a parlare per me.

Chiacchierando con… Mattia Insolia