Terrazza Mascagni

Ti avrei dato appuntamento nel gazebo della terrazza Mascagni.

Niente caffè per SpinozaE non saremmo state sole, perché di sicuro in quel luogo tanto amato da Alice Cappagli ci avrebbero raggiunto anche Cecilia (che forse sarebbe stata lì con noi da subito: chi ha letto la nota finale di “Ricordati di Bach” avrà capito il perché) e Maria Vittoria, in groppa al suo sbuffante scooter.

Dopo l’esordio travolgente con “Niente caffè per Spinoza“, pubblicato da Einaudi nel 2019, Alice Cappagli torna tra le mani dei lettori con un nuovo avvolgente romanzo sempre per Einaudi:Ricordati di Bach”. Due titoli bellissimi.

Ricordati di BachDa Spinoza a Bach il passo è breve, soprattutto per una violoncellista del Teatro alla Scala di Milano laureata in filosofia. 

In entrambi i casi si tratta di una storia d’amore: per i libri che ci cambiano la vita e per la musica che dà un senso alla vita.

Due libri che raccontano una storia di riscatto, in cui la forza delle protagoniste è quella di alzare lo sguardo e lasciarsi prendere per mano, senza mai perdere la consapevolezza dei propri passi.

Due libri che si parlano a distanza e si intrecciano, dando al lettore un profondo appagamento.

Partirei da un oggetto: la viola di Elisa, la figlia strampalata del vecchio e cieco professore di filosofia presso il quale Maria Vittoria, protagonista e voce narrante di “Niente caffè per Spinoza”, va a servizio fortunosamente in  un momento della sua vita di totale inaridimento; e il violoncello di Cecilia, che la ragazza dopo un incidente automobilistico che le ha danneggiato il funzionamento della mano sinistra si ostina a voler suonare, contro le aspettative dei genitori.

“Questa storia è la mia storia, Cecilia sono io”, confessi ai lettori nella nota finale di “Ricordati di Bach”.

È stata Elisa del primo romanzo a suggerirti la protagonista autobiografica di “Ricordati di Bach”, o hai sempre saputo e voluto raccontare la tua storia ed Elisa di “Niente caffè per Spinoza” ne è la prova?

Alice CappagliRISPOSTA: In effetti Elisa e Cecilia sono legate da uno strumento: la viola di Elisa ha l’identica accordatura di un violoncello con la differenza che si tratta di un’ottava sopra. Non è stata Elisa a suggerirmi di parlare della mia storia ma, mentre raccontavo di lei, Cecilia continuava a ripetermi “guarda che quello non è un oggetto ma un mezzo per comunicare, non una cosa da spolverare, ma una voce.” Infatti anche Elisa si mette a suonare Bach verso la fine del romanzo, e mentre lo fa suo padre si riprende dal suo stato di catalessi “inspiegabilmente.”

Forse è stato  questo avverbio a convincermi di parlare di me. Mi sono ripresa dai miei guai “inspiegabilmente”. E il fenomeno andava analizzato, sciolto in un racconto semplice ma esaustivo. Ho sempre avuto il desiderio di indagare cosa sia la musica o che significhi eseguirla (la mia tesi di laurea fu proprio sulla valenza etica dell’esecuzione) e potevo partire da me. Inoltre c’era il problema di trasmettere i concetti di metodo, costanza, sacrificio che oggi sono abbastanza emarginati o spesso creduti erroneamente decaduti. Invece per un musicista sono imprescindibili, come nello sport.

 

Quello che emoziona in “Ricordati di Bach” è la possibilità di entrare, attraverso le tue parole, nel percorso di formazione del musicista, intrecciato alla storia personale della protagonista, al suo sudore e alla strenua volontà di farcela. Un ritratto tridimensionale, in cui il miracoloso è che l’immedesimazione scatta anche in chi come me non sa tenerlo neppure in mano il violoncello, eppure a volte sentivo le dita doloranti.

Come anche in “Niente caffè per Spinoza” nessun percorso può essere completato e neppure intrapreso senza un maestro. Se nel primo caso il maestro era di vita, perché innegabilmente la filosofia sa aiutarci a vivere meglio, in “Ricordati di Bach” non si potrebbe dare un titolo diverso da “Maestro” a Smotlak, il musicista che vuole Cecilia con sé e che con una stramberia di modi e incitamenti opposti a quelli dolci e meditati del Professore di “Niente caffè per Spinoza” è un perno e un punto fermo nella preparazione musicale ma ancora di più nell’attitudine alla “lotta per la sopravvivenza” di Cecilia.

Smotlack è uno scommettitore, e la parola “scommessa” avrà un riverbero profondo nella formazione di Cecilia. Come non pensare a Pascal, così caro al Professore di “Niente caffè per Spinoza”?

La realizzazione di ciò che desideriamo è una scommessa che i buoni maestri fanno su di noi, per chi abbia la fortuna di Maria Vittoria e di Cecilia di incontrarli sulla propria strada? o invece sia l’una che l’altra devono la meta raggiunta, la propria indipendenza per Maria Vittoria e l’essere una musicista per Cecilia, alla scommessa con sé stesse?

RISPOSTA: Questa è davvero una bella domanda. Smotlak mi disse una volta: “non ti ho insegnato niente, hai fatto tutto da sola.” 

Non so perché io avessi la fissazione di doverlo ringraziare, immagino perché mi stupivo dei miei stessi risultati, così via via gli facevo notare che secondo me era stato bravo a farmi capire le cose. Invece secondo lui no: aveva solo mostrato una strada da percorrere e io mi ero incamminata per quella via sulle mie gambe. In certo senso aveva ragione.

Credo che sia fondamentale scommettere su noi stessi, e nello stesso tempo sfidare la propria pigrizia, rassegnazione, pessimismo, disfattismo, fatalismo, arrendevolezza, noia, autocommiserazione. Cose su cui si può inciampare strada facendo, scuse buone per non prendere i tornanti della salita e arrendersi. In fondo non solo un maestro vero e proprio può fare da reagente alle nostre possibilità, ma anche fatti o incontri casuali. In “niente caffè per Spinoza” dicevo che Aristotele parla della “potenza” e dell’ “atto.” A determinate condizioni un fenomeno possibile passa all’atto così come Maria Vittoria, che aveva in sé tante potenzialità, è andata “in atto” per quell’incontro col Professore. Forse sarebbe accaduto anche in un altro momento della sua vita in un altro modo. Lo stesso è stato per Cecilia: ha inciampato in un violoncello e a catena, nel tempo, tutto è cambiato per lei. In entrambi i casi però c’era una cosa fondamentale da parte delle protagoniste per progredire: la volontà di capire.

 

Accanto a Maria Vittoria in “Niente caffè per Spinoza” e a Cecilia di “Ricordati di Bach” c’è un’altra protagonista che attraversa entrambi i romanzi, e per me che li ho letti uno dopo l’altro, li unisce in un abbraccio: Livorno. 

Hai il dono di far vivere gli umori della città, intesi sia in senso fisico e fisiologico che psicologico e introspettivo. Come già la Ferrara di Bassani, o la Torino della Ginzburg, per citare due delle mie città letterarie per eccellenza, conosciute prima tra le pagine dei libri e poi ri-conosciute nella loro topografia reale,  dopo i tuoi romanzi anche Livorno è per me una città in cui ho abitato e intimamente vissuto, senza per il momento mai averci messo piede. Mancanza che dovrò necessariamente colmare.

Il mare, i colori e i profumi in “Niente caffè per Spinoza”; il conservatorio, ancora Istituto Musicale Mascagni, quando Cecilia vi si iscrive in “Ricordati di Bach”, un mondo musicale di eccellenza grazie a uno dei sublimi personaggi secondari del romanzo, il Maestro Cini.

Immagino che come violoncellista della Scala tu sia stata spesso lontana dalla tua città. 

Qual è il tuo rapporto, non solo personale ma anche narrativo, con la tua città natale: una restituzione, un omaggio o un necessario ritorno a casa?

RISPOSTA: Il raffronto con scrittori di così alta levatura mi lusinga e m’intimidisce. Sono miei miti entrambi, e ovviamente inimitabili.

Tuttavia credo che il legame con il luogo d’ambientazione possa essere della stessa natura: una sensazione di appartenenza, che si voglia o no, e la consapevolezza che quell’aria e quelle strade siano il terreno su cui si è costruita la propria vita.

Per quello che riguarda me direi che si aggiunge un mio riconoscimento tardivo al valore che la città ha avuto nella storia e nell’arte. Non l’ho mai abbastanza apprezzata, né oggi gode di grande attenzione sotto quest’aspetto. Offuscata dalle città d’arte vicine (come Pisa solo a 20 km) è spesso relegata a porto, luogo di snodo, di incroci e scambi di gente e religioni, contesto paesaggistico irrinunciabile per passeggiate lungomare. I livornesi sono accoglienti e ritenuti dei toscani anomali dalla battuta sempre in tasca e la passione travolgente per gli scogli.

Non è solo così: Livorno è la città di Cambini, Nardini, Calzabigi, Mascagni, di Fattori, Oscar Ghiglia, Silvestro Lega, Natali, Modigliani, Caproni, di un passato elegante e fervido d’inventiva ed eleganza (si vede dalle molte ville di inizio’900). Ma a parte questo è la città che mi ha formato le ossa, l’ho abbandonata come un bozzolo inutile una volta volata via, ma è stata necessaria finché ero un baco. Forse sì, è un primo ritorno messo nelle pagine in attesa del secondo, quello che metterò fra quattro mura, un tetto e una porta.

 

I titoli dei due romanzi, oltre ad essere bellissimi racchiudono molto del libro e svelano anche nel confronto le loro differenze. Intanto le due protagoniste invisibili e onnipresenti di entrambi: la filosofia nel nome di Spinoza e la musica in quello di Bach. Ma “Niente caffè per Spinoza” che è poi una battuta di Maria Vittoria rivolta al Professore e alla sua combriccola di amici, ha una verve e una brillantezza ironica, piena di grazia e di leggerezza che corrisponde all’atmosfera del romanzo, che pur trattando di temi dolorosi come la perdita, la scomparsa, la malattia, lo fa con il sorriso sempre dispiegato. Sorriso sagace e arguto.

“Ricordati di Bach”, che è invece una frase di commiato del maestro Smotlak alla sua allieva, in quel verbo racchiude la carica e la potenza del ricordo e della memoria, che supportano la narrazione facendola oscillare elegantemente tra fiction e autofiction, senza che il lettore lo percepisca se non nella nota finale.

Ad un’indagine filologica più accurata di quella che questo spazio riserva, si potrebbero però ritrovare combinate con un diverso peso specifico, in entrambi i romanzi: perché la musica non manca in “Niente caffè per Spinoza” e neppure la forza del ricordo, soprattutto nel cuore e nella percezione del Professore; come la filosofia e l’ironia non mancano in “Ricordati di Bach”, anche se combinati in maniera diversa e ugualmente affascinante rispetto al tuo esordio.

Filosofia e musica, ironia e memoria si possono definire come il “quadrivio” della tua scrittura? 

RISPOSTA: Trovo stupefacente questa analisi di Giuditta, riesce a guardare in controluce i miei due cocktail letterari e ci scova gli ingredienti.

Di certo è così, ci sono quattro ingredienti di base in questi libri. E di sicuro non ci avevo fatto caso nemmeno io. Sull’ironia torno al dono che mi ha fatto Livorno, l’impronta smitizzante data appunto dalla “filosofia” propria della città. Invece la vera Filosofia, quella che cito in modo esplicito, è stata un’opportunità successiva che mi ha dato Milano. Quasi quarant’anni vissuti in un luogo che mi ha insegnato a costruire la mia visione completa della musica attraverso il mondo del teatro, e che mi ha dato la possibilità di laurearmi in una passione che avrebbe arricchito culturalmente questa esperienza.

Infatti la musica ha in sé una pluralità di aspetti che si prestano a delle analisi che oltrepassano poi la dimensione tecnica: il significato del linguaggio musicale, la temporalità, il vissuto comunitario dell’orchestra, l’evoluzione storica, il problema interpretativo, l’ importanza del Melodramma italiano, il confronto fra i grandi repertori europei, il sinfonico, la musica per il ballo, il ruolo culturale della musica nel mondo e qui, in un paese che non coltiva l’educazione musicale ma la relega alla “nicchia” o al fenomeno transitorio. Quindi il libro (o i due libri) è una rielaborazione di temi prodotta negli anni, una stratificazione di esperienze-memorie.

 

Come già Maria Vittoria, lasciamo anche Cecilia in “Ricordati di Bach” sulla soglia del futuro, immaginato, sognato, conquistato con tenacia e perseveranza, e grazie a quel pizzico di fortuna (o come la chiamerebbe il Professore?) che consente di vivere il kairos.

Per chi come me ha amato Cecilia e la sua storia, nutrendo una passione non coltivata per la musica, possiamo aspettarci che Alice Cappagli ci racconti il seguito milanese, o è tutto racchiuso in quel monito: Ricordati di Bach?

RISPOSTA: Questa domanda è davvero difficile! Devo un po’ guardare meglio cosa galleggia nel  vaso delle ispirazioni, perché non si sa mai che mi combina la Musa.

Posso dire che di certo prima o poi mi devo spostare da Livorno questo sì, se voglio decollare verso nuovi lidi. Però non so quando e soprattutto non so se volerà Cecilia o qualcun altro. Per me la scrittura è l’ “upgrade” nel cammino della comunicazione, è una codificazione adulta (se così si può chiamare) dell’indistinto musicale in cui il significato è sempre subacqueo. E io sono e rimango per mia natura una musicista perché violoncellista ero e sono, soprattutto nel modo di pormi con la vita. Come infatti ho detto per 250 pagine. Magari un po’ anomala, magari che suona solo due note ogni tanto, ma ormai ho compiuto il mio ciclo e alla musica ho dato nel mio piccolo tutto quello che potevo.

La Scala è stata un gigante per me, e non solo per me. È un altro maestro, una piattaforma internazionale di conoscenza e di viaggi, un’esperienza umana e artistica per cui è naturale che m’ingombri la memoria anche temporalmente: 10 anni di studio a Livorno, due di contratti determinati, 38 di contratto indeterminato alla Scala. Quindi ho bisogno di un distanziamento psicologico. Non si riesce a descrivere con cura qualcosa che ci sta ancora appiccicato addosso, e forse non mi riuscirà neanche farlo in un unico modo.

Detto questo posso aggiungere che tutta questa esperienza mi ha fatto capire bene una cosa: la musica è un varco verso la metafisica. Ambizioso il concetto? Possibilissimo, ma questa è la mia conclusione. Tutta l’arte è una via verso qualcos’altro e ha dei connotati ben precisi che si distanziano dalla banalità o dal cliché o il puro edonismo. Mi piace guardare in alto perché a guardare in basso si rischia di non vedere di che colore sono le nuvole, o se per caso è comparso o no l’arcobaleno.

Chiacchierando con… Alice Cappagli
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