Intervista a Tommaso Pincio, traduttore di “Archivio dei bambini perduti” di Valeria Luiselli (La Nuova Frontiera)

Con questa prima intervista sono lieta di inaugurare una nuova rubrica dedicata ai traduttori. Il titolo “Nello studio” mi è sembrato il più pertinente alla mia idea di traduzione, in cui lo studio, che vuol dire anche cura e competenza per il passaggio delle parole da una lingua all’altra, è la predominante del lavoro del traduttore e, a mio avviso, la sua caratteristica saliente. Volevo una rubrica che mi rappresentasse come lettrice e che soprattutto desse voce alla mia ammirazione per la figura del traduttore, un vero traghettatore nelle pagine di un romanzo scritto in lingua diversa dall’italiano per me che non conosco le lingue straniere. Non, quindi, una rubrica dedicata alla traduzione, per la quale non avrei le competenze, ma al traduttore in un confronto su un determinato titolo. Da lettrice posso parlare solo di libri entrando nello specifico di un libro.

Poter inaugurare la rubrica con Tommaso Pincio è un dono del cielo, di cui lo ringrazio pubblicamente. Continuarla con Martina Testa e Silvia Pareschi significa sentirsi baciata dalla fortuna. E altri ne seguiranno.

Pincio Luiselli

Ho amato incredibilmente il romanzo di Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, che si pone in sequenza con Dimmi come va a finire, il pamphlet di Luiselli che mi ha fatto aprire gli occhi e il cuore sulla figura dei minori non accompagnati (QUI il racconto dell’incontro a Più Libri Più Liberi in una colazione organizzata dalla casa editrice La Nuova Frontiera che pubblica in Italia i libri della scrittrice).

Non credo che sarebbe stato lo stesso senza la traduzione liquida e multiforme di Tommaso Pincio, quella scorrevolezza ricchissima e lessicalmente fluente che Pincio ha nella sua stessa prosa e che ho riscontrato anche in traduzione. Sei d’accordo con me, Tommaso, che un libro si apprezza anche per com’è tradotto?

Non sta certo a me dirlo. Credo possa al più ringraziarti e aggiungere la seguente considerazione. Per quanto un traduttore si sforzi di rendere al meglio un testo, quanto di buono arriva al lettore lo si deve comunque all’originale. Volendo fare un esempio forse inappropriato, un traduttore è come un maître: che il servizio sia impeccabile, che l’atmosfera in sala sia accogliente sono senz’altro elementi importanti per apprezzare una buona cucina, forse anche molto importanti, ma alla fine ciò che davvero conta è il lavoro dello chef e se il piatto non è buono, un maître può fare assai poco per migliorarlo, semmai può circondarti di attenzioni affinché tu non presti troppa attenzione a ciò che stai mangiando e non ti accorga che il cibo è scadente. In questo caso, però, ti renderebbe davvero un buon servizio? Non sarebbe forse un inganno? Qualcosa di simile avviene nella traduzione. Non si dovrebbe mai migliorare il testo originale né cercare di distrarre il lettore da sue eventuali manchevolezze.

Archivio dei bambini perduti è un romanzo composito e strabordante, in cui il concetto stesso di romanzo viene rigenerato e rifondato insieme: quali sono gli spazi del traduttore in un contesto narrativo così fecondo e potente?

Credo tu abbia ragione, Archivio dei bambini perduti è un romanzo al contempo classico e nuovo. Del resto, un’opera letteraria davvero innovativa tende sempre a una certa classicità ovvero a trovare un punto di equilibro, un’armonia quasi inattesa tra passato e futuro, noto e ignoto, tra zone già abitate della tradizione e spazi ancora poco esplorati o da mappare. I romanzi destinati a lasciare un segno sono quelli che ci offrono l’illusione di un giardino perfetto, una sorta di mondo chiuso e autosufficiente in cui troveremo tutto ciò che si può chiedere a un libro, ma di fatto non chiudono il cerchio del tutto, lasciano di proposito alcune fessure per consentire al mondo esterno, quello vero, di penetrare e turbare un’armonia che altrimenti sarebbe soltanto estetica e dunque asfittica. Diceva un filosofo dei tempi andati: non presumere mai, uno dei ladroni fu dannato; non disperare mai, uno dei ladroni fu dannato. La letteratura che merita di essere letta e discussa funziona in fondo alla stessa maniera: si regge sempre su equilibri delicati in cui convivono appunto dubbi e certezze, il conforto del racconto e la realtà spesso spietata di quel che resta fuori. Archivio dei bambini perduti appartiene a questa preziosa genia di romanzi. La sua forza commovente deriva proprio dal continuo e stratificato gioco di specchi tra interno ed esterno. Pensa, per esempio, allo spazio chiuso e protetto dell’abitacolo dell’auto in cui viaggia la famiglia e che per buona parte del libro è il centro dell’azione, e pensa al modo in cui questi confini si slabbrano espandendosi in maniera indefinita negli spazi aperti e ostili del deserto che devono affrontare i migranti. Oppure all’importanza che ha la scrittura nel romanzo, che sia quella dei tanti libri evocati o dei numeri di telefono che i bambini portano con sé, nascosti nei vestiti, e a come la scrittura venga di continuo contrapposta alla fuggevolezza dell’oralità e dei suoni in generale. Valeria Luiselli ha costruito un meraviglioso labirinto di rimandi. Come traduttore non ho cercato di prendermi spazi, ma di orientarmi. Finché di un labirinto non conosciamo la struttura è di fatto una prigione, ma appena cominciamo a decifrarne i percorsi e le vie d’uscite, la sua complessità perde i contorni sinistri e ne cogliamo la bellezza. Per me, tradurre è anche questo: passare dal momento in cui, a forza di conoscerlo, il labirinto di un libro, da trappola, si trasforma in una casa.

Come lettrice l’impressione è che Archivio dei bambini perduti potrebbe avere infinite letture e lasciare a chi legge sempre una nuova suggestione e un diverso approccio meditativo a ogni ri-lettura. Cosa è avvenuto a te come traduttore?

Qualcosa di molto simile, direi. Tradurre e leggere sono discipline affini. Per certi versi, sono la stessa disciplina praticata in forme diverse. Quando mi incaglio in una frase senza riuscire a trovare un modo soddisfacente di renderla in italiano, la rileggo più volte, spesso ad alta voce, finché i nodi più spinosi non cominciano a sciogliersi. Un lettore non fa forse altrettanto nell’affrontare passaggi particolarmente delicati di un libro: li rilegge per apprezzarli meglio e perché sa che qualcosa può essergli sfuggito? La vera esperienza della lettura non la facciamo forse nel momento in cui rileggiamo? Per un traduttore è lo stesso: rilegge, torna di continuo sulle stesse frasi. Il resto è una conseguenza. Ci vogliono sì il mestiere, tanta fatica e forse anche un po‘ di talento, ma la pagina tradotta è innanzi tutto una conseguenza, il frutto di molte letture, e non soltanto del libro su cui si sta lavorando ma della lettura in senso ampio, della lettura come disciplina. Un libro come Archivio dei bambini perduti è peraltro emblematico anche sotto questo aspetto. È un romanzo che mostra in modo limpido come i libri siano fatti di altri libri e soprattutto di letture e traduzioni. La parola chiave di Archivio dei bambini perduti è «eco» ed è forse questa la sensazione che ho percepito con maggiore intensità nei mesi di convivenza con il romanzo: un eterno ritorno di storie, parole e situazioni, che è poi l’essenza del mito, del bisogno di raccontare.

(Tommaso Pincio è anche autore di uno dei libri più belli che abbia mai letto sulla figura del lettore, Panorama, NN editore: QUI la mia chiacchierata con lui sul romanzo).

 

Il tema delle migrazioni è così delicato e sfuggente che la precisione lessicale è fondamentale. Ci sono state incertezze e complicazioni nel rendere alcuni termini, e quali?

Poni una domanda interessante perché malgrado le migrazioni siano un fenomeno planetario e riguardino un diritto universale e di per sé evidente, come riconosce in teoria la stessa dichiarazione d’indipendenza americana,  ovvero quello di cercare la felicità o almeno di sfuggire all’infelicità, la legislazione in materia è diversa da paese e paese e si regge pertanto su termini e nozioni diverse. In America, il diritto di asilo viene riconosciuto quando il migrante dimostra un credible fear di tornare nel proprio paese. In italiano non si è ancora imposta una locuzione per esprimere in maniera definitiva questa nozione. Di solito si cerca di renderla più o meno alla lettera con paura credibile, timore plausibile ecc.  Alla fine ho optato per “timore fondato” perché è un’espressione tipica del nostro lessico legale, tanto che la si trova anche nella traduzione della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato. L’attributo «fondato» ha però un valenza più oggettiva. Anche se il senso è di fatto lo stesso, credible contiene una sfumatura sinistra che in italiano va perduta, quella per cui il migrante deve risultare credibile agli occhi di chi è chiamato a decidere se concedergli il diritto di asilo.  

 

Come è proprio di Valeria Luiselli, nel libro c’è un cambio di voci narranti: dall’io della donna e madre, all’io del maschio, il figlio maggiore di una decina d’anni. È cambiato qualcosa anche nel traduttore nel passaggio da una donna adulta alle prese con la fine di un amore e il bisogno di realizzare il progetto che le sta a cuore, a un bimbo che affronta un viaggio alla ricerca dei bambini perduti, di cui sente di fare parte, con la responsabilità nei confronti della sorella minore che ha spinto all’avventura?

Sicuramente la seconda parte del romanzo ha comportato maggiori difficoltà. Nella prima parte, la voce narrante coincide con quella dell’autrice, sembra di sentir parlare Valeria Luiselli. Si esprime come lei, ha una visione del mondo simile alla sua e anche i riferimenti culturali, i libri letti, sono o potrebbero essere suoi. Lavorare su quella parte è stato per molti versi più agevole, anche perché mi aiutava il conoscere Valeria, averla sentita parlare, vista gesticolare. Nella seconda parte è invece subentrato un piccolo alieno. Lo chiamo così non soltanto per le caratteristiche molto speciali del personaggio ma perché rendere la voce di un bambino è una sfida sempre insidiosa. Si corrono vari rischi, tra cui quello di abbassare più del dovuto il registro, quando invece i bambini si esprimono spesso in maniera sorprendentemente accurata. Non ho figli e sono dunque maggiormente esposto a farmi un’idea semplificata della lingua infantile. In più di un occasione, pensare ai figli degli amici, al loro modo di parlare, mi aiutato a evitare, o almeno così spero, a non rendere troppo bambinesca la voce della seconda parte. Se parliamo di difficoltà, i problemi maggiori me li hanno posti i brani del libro immaginario dell’altrettanto immaginaria Ella Camposanto che punteggiano la seconda parte del romanzo.

 

C’è un luogo, uno spazio, una camera studio a cui senti che la traduzione del libro è debitrice?

Tranne questo periodo che mi vede bloccato all’estero per via della pandemia, traduco sempre nella stanza, seduto allo stesso tavolo, con un computer che mi accompagna da dieci anni. Sono in debito con Google e la rete in generale che mi consentono di vedere cose che non conosco, come i vagoni merci americani, per esempio, che nel romanzo di Luiselli hanno un ruolo fondamentale. Vederli su internet, mi ha aiutato non poco nella resa di certi termini e descrizioni.

 

Le storie di Valeria Luiselli sono sempre colte e pregne: film, musica, storia e controstoria americana, libri. Quanto è stato difficile riproporre al lettore italiano l’infinita massa e il “guazzabuglio” colto e sofisticato di Valeria Luiselli?

La presenza di molti riferimenti implica il lavoro aggiuntivo della ricerca. Richiede tempo ma spesso, anziché complicare la vita al traduttore, la semplifica o, per meglio dire, danno indicazioni precise su quel che il traduttore deve cercare di ottenere. Per trovare qualcosa bisogna in primo luogo sapere cosa si deve cercare. Gli scrittori più rognosi per un traduttore sono appunto gli scrittori imprecisi, quelli che procedono alla cieca. Valeria Luiselli invece, nonostante la grande massa di echi e richiami culturali, ha il dono dell’esattezza; sa sempre cosa sta dicendo e perché, e questa sua profonda consapevolezza è una benedizione per un traduttore.

 

Che posto occupa la traduzione di Archivio dei bambini perduti nell’opera di Tommaso Pincio?

C’è un momento del romanzo in cui la documentarista rievoca il periodo in cui assisteva alle udienze del tribunale per l’immigrazione di New York e registrava le deposizioni dei bambini pensando di organizzare quel materiale per dargli una sequenza narrativa. In quella pagina il personaggio, di fatto un alter ego dell’autrice, solleva un dubbio che ritengo fondamentale: «Cosa mi autorizza anche solo a pensare che posso o dovrei fare arte con la sofferenza altrui?» Ecco, se per opera intendi la mia opera letteraria, penso qualcosa di simile: cosa mi autorizza a dare al romanzo di Valeria Luiselli, un posto nella mia opera? Non lo dico per ostentare modestia, ma perché quando traduco divento il libro che sto traducendo, sparisco nelle sue pagine, mi dimentico di chi sono, mi spoglio di qualunque ambizione o desiderio di esprimermi. Conta soltanto il libro da tradurre, e malgrado ci metta il sangue, malgrado spesso dedichi più energie ai libri altrui che non ai libri miei, alla fine non lo sento mio. Meno c’è di mio, più sento di avere fatto bene il mio lavoro. Archivio dei bambini perduti occupa perciò un posto nel mio cuore, prima ancora che nella mia opera. Mi ispira sentimenti di gratitudine e ammirazione; gli stessi sentimenti che prova un lettore, con l’aggiunta di un privilegio, quello di avere lavorato sulle sue pagine.

 

Ci racconti come questo libro è arrivato nelle tue mani e l’impressione che hai avuto all’inizio, prima di iniziare a tradurlo?

Alla maniera in cui quasi sempre un libro trova il suo traduttore ovvero grazie all’intuizione dell’editore. Lorenzo Ribaldi della Nuova Frontiera mi aveva già contattato in precedenza, sempre per un libro di Valeria. All’epoca, però, dovetti rinunciare alla proposta perché dovevo lavorare ad altro. Si è poi rifatto vivo con Archivio dei bambini perduti. Non saprei dire secondo quali criteri gli editori stabiliscano che un certo traduttore può essere adatto per un certo autore, ma con gli anni ho imparato a fidarmi perché spesso, magari anche soltanto per istinto, sanno quello che fanno. Al fiuto e alla grande passione, Ribaldi unisce inoltre una qualità rara: la determinazione schiva e garbata di un gentiluomo. È un piacere lavorare con lui.

 

E qual è stata invece l’impressione finale, una volta che hai finito la traduzione? Soddisfazione, mancanza, o cosa?

Non si finisce mai una traduzione. Arriva sempre un momento in cui l’editore ti strappa il file dalle mani perché bisogna impaginare e andare in stampa, ed è quello il momento in cui decidi che il tuo lavoro è finito. Senza quel momento, proseguiresti a tempo indeterminato. Non è mai facile staccarsi da una traduzione in corso. In primo luogo, perché il libro finisce per diventare una parte di te. Per settimane e mesi è stato la cosa che più ti ha riempito la testa e perciò tendi a rimandare il momento in cui non dovrai pensarci più. La vivi come una specie di addio, e dire addio non è mai facile. Io in particolare, poi, come dice un mio amico, tendo a congedi infiniti. C’è poi la paura del libro stampato. In effetti, si tratta più di una certezza che non di una paura. Ogni volta che apro un libro che ho tradotto, l’occhio mi cade immancabilmente su un giro di frase che non mi torna più, una soluzione insoddisfacente, qualcosa che è sfuggito, sia a me sia al revisore. È accaduto anche con Archivio dei bambini perduti: mi sono accorto di un errore davvero stupido e questo errore, per quanto in fondo irrilevante, si staglia nella mia mente, indelebile come le macchie di Macbeth. Anche se i motivi di contentezza non mancano. Lorenzo Ribaldi mi ha detto che gli sembrava di sentire parlare Valeria mentre leggeva la prima parte del romanzo tradotto. E la resa della voce è tutto o almeno tantissimo. Sui singoli termini si può in fondo discutere all’infinito senza arrivare a una soluzione perfetta e definitiva, ma se perdi la voce, hai perso tutto o quasi. Va anche detto che la voce di chi sa scrivere è solitamente così marcata e riconoscibile da arrivare all’orecchio del lettore anche attraverso il filtro di una cattiva traduzione, sicché i meriti non compensano mai le mancanze nel nostro mestiere, ed  giusto che sia così. Essere destinati comunque all’errore, all’imperfezione conferisce a questo mestiere i caratteri della sfida continua.

Nello studio di… Tommaso Pincio, traduttore di “Archivio dei bambini perduti”
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