di Federica Pergola

Federica

 

 

 

Gravesend

Foto di Federica Pergola
Foto di Federica Pergola

 Quando l’assassino di suo fratello esce dal carcere e torna a Gravesend, il quartiere di Brooklyn dove sono cresciuti, Conway sa di dover fare qualcosa. E’ finalmente il momento di agire.

“Nessuno di loro sapeva che Conway aveva con sé una pistola. Nessuno sapeva che sarebbe salito sulla sua auto, diretto a Nord, e avrebbe ucciso Ray Boy Calabrese. Forse nessuno di loro conosceva Ray Boy. Forse non ricordavano la faccia che avevano visto  sui giornali. I ragazzini non erano neanche nati, all’epoca. Si dimenticano un sacco di cose in sedici anni. Conway ripensò alla tomba di Duncan: quanti papaveri di carta aveva lasciato durante le sue visite una volta alla settimana …Si era inginocchiato e aveva fatto una promessa di cui nessuna delle persone sull’autobus era a conoscenza”.

William Boyle, classe 1978, è ormai considerato “una delle voci più originali e interessanti del noir americano” ed è stato candidato – proprio con Gravesend– al Grand Prix de La Litérature Policière in Francia, ed è risultato finalista del John Creasey (New Blood) Dagger in Inghilterra.

In un romanzo che diventa sempre più cupo man mano che avanziamo nell’intreccio, Boyle riesce a far emergere la vita quotidiana del quartiere – e quella, nascosta, della malavita italoamericana.

  “Mentre guidava lungo Benson Avenue Conway cercò di non pensare al Vecchio nel loro triste soggiorno, con il crocifisso impolverato affisso al muro, i calendari della Sacred Heart Auto League appesi ovunque e il paralume dalla tela consunta. Ma l’immagine arrivò comunque. Il Vecchio su una poltrona reclinabile lacera mentre, circondato dai cuscini, tendeva una mano per prendere il telecomando e cercava di capire che cosa stessero dicendo alla televisione” (…)

 “Cinquanta dollari gli avrebbero fatto comodo. Non era così strana, come richiesta. L’aveva visto nei film. Quel genere di persone usava i ragazzini come corrieri perché, anche se li arrestavano, non era la fine del mondo e al massimo si prendevano qualche sculacciata. (…) Quale ragazzo avrebbe detto no a cinquanta dollari? Quella somma significava una valanga di caramelle, Gatorade, carte dei giocatori di baseball, sigarette, riviste pornografiche. Per Eugene significava sopravvivere per altri due giorni senza tornare a casa”.

 Ed ecco sorgere davanti ai nostri occhi personaggi bifronti, ambigui, che non riusciamo a decifrare se non, forse, alla fine del cerchio.

Perché Boyle sa che è difficile tracciare confini.  Sa che le frontiere tra buono e cattivo, giusto e sbagliato sono labili e provvisorie. Sa che gli esseri umani si contraddicono. Che, come diceva Walt Whitman: sono vasti, contengono moltitudini.

 “Conway gli strappò un angolo del nastro adesivo dalla bocca ed esclamò: -Dì non farlo. Dì non farlo, ti prego. Ma Ray Boy non disse niente. Aveva ancora le labbra incollate al pavimento marcio e scrostato della veranda. Conway notò uno dei tatuaggi sul braccio. Era il nome di Duncan scritto a caratteri tremolanti con l’inchiostro verde. Sotto, la data della sua morte.

-Che cazzo significa? – Chiese.

Ancora nulla.

-Che cosa ti ha detto mio fratello quella notte? Ti ha supplicato? (…)

Ray Boy rispose: Ha detto: “Ricordi la terza elementare? Eravamo amici. Ti prego, non farlo”.

E scoppiò a piangere.

 

Così assistiamo impotenti ad un destino che precipita impetuoso come un fiume verso il salto di una cascata; dove, a un certo punto, gli eventi sembrano prendere vita propria e trascinare con sé i protagonisti.

Dove l’urgenza della vendetta; la disperazione di una vita fino a questo momento sprecata in questa attesa; l’autocommiserazione e il disprezzo di sé e il peso della colpa passata travolgono il  desiderio (inespresso e forse addirittura inconsapevole) di fuggire da quello che sembra un destino già tracciato da altri : dai doveri verso i propri genitori; dal rispetto delle convenzioni sociali; dalla pusillanimità, la mancanza del coraggio necessario a tracciare un nuovo cammino e fondare un diverso futuro…

“Non aveva 14 anni. Ne aveva 29, era ubriaco fradicio e aveva fallito in tutto. (…) Conway era sempre stato un coglione di prima categoria.  Non avere né speranza né palle era una combinazione disastrosa. (…) Forse voleva solo morire, sentirsi sopraffatto, fallire per l’ultima volta.

Per questo alla fine di tutto non si può non riandare ai bellissimi versi de La città di Kostantinos Kavafis posti in esergo:

 

Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi-non sperare-

Non c’è nave per te, non c’è altra via.

Come hai distrutto la tua vita qui

in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta

 

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Gravesend, di William Boyle, traduzione di Raffaella Vitangeli, minimum fax, pp. 300, €18.00

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