Parco della Vetra

Al parco della Vetra, sotto la basilica di San Lorenzo.

L’appuntamento me lo darebbe Anna Siccardi, che esordisce con “La parola magica” per la casa editrice NN editore. E come capita ogni volta con gli autori italiani di NN editore, ma anche con quelli stranieri per la verità, ne sono entusiasta.
Oh che bello ricevere un invito il venerdì sera! – mi scrive Anna Siccardi, e la gioia è condivisa. In questo momento di isolamento, con le librerie chiuse e l’urgenza di restare a casa, il Chiacchierando diventa un confronto ancora più prezioso.

Cominciamo dunque a chiacchierare e vi invitiamo con entusiasmo a unirvi a noi: non ve ne pentirete!

La parola magicaNel leggere “La parola magica” di Anna Siccardi, con la girandola di personaggi che si incontrano, si sfiorano, si urtano e si allontanano, ho avuto come l’impressione di un treno a velocità rallentata, che consentisse al lettore di posare lo sguardo sui volti ai finestrini, considerarne l’espressione, il movimento, la postura momentanea, vederli scorrere davanti al proprio sguardo, perderli di vista, per poi ritrovarli in qualche altro vagone in fondo, più veloci loro del tempo del treno, che è quello della lettura. 

Nel libro si attraversano vite, si entra nelle case e negli spazi per un tempo limitato, che però lascia affiorare come nelle fotografie gli attimi fondamentali, quei momenti che sono specchio e strumento introspettivo.

Tutti i personaggi del romanzo mostrano una fragilità, una crepa, una manchevolezza che si incista nelle loro esistenze: scardinandole, modificandole, potenziandole.

“La parola magica” del titolo è la leva con cui i “difetti” affiorano in superficie, o è invece l’ancora di salvezza che permette di rimanere a galla?

Foto di Consuelo Canducci
Foto di Consuelo Canducci

La parola magica è diversa per ogni personaggio – e, credo, per ogni lettore – perché è al contempo ciò che affiora dalle diverse esperienze esistenziali e ciò che in taluni casi può rappresentare una svolta: la “Pietà” di Irene è ciò che prova per se stessa, ma anche ciò che alla fine la salva. Il “Buio” di Chiara è la dimensione in cui entra – guidata dal suo cieco, lei che dovrebbe essere guida – e in cui vede per la prima volta una parte nascosta di sé. Il “Minibar” di Leo è metafora della propria esistenza fin lì, e i “Pianeti” di Diana sono l’unica dimensione in cui sembra poter sopravvivere la sua speranza. Voglio pensare che attraverso la lettura di queste storie ogni lettore si soffermi sulle parole con cui tratta e si racconta la propria esistenza, e magari cerchi per sé le parole più giuste per ripararsi. 

 

Minibar, pietà, inventario, membrana, aiuto, controluce, stadio, pianeti, buio, addio, sassi, soffio.
Questi sono i Dodici Passi che ispirano le storie di “La parola magica”.

Si chiese come mai i comandamenti fossero dieci e invece i passi fossero dodici. Qualcosa era sfuggito, evidentemente, al manuale d’istruzioni. I comandamenti mancanti avrebbero potuto essere Non rompere le cose che ami e Non anelare a ciò che non desideri. Gli parve di non aver fatto altro in vita sua: infrangere due comandamenti invisibili.

Leo, Irene e Riccardo, Anna e Chiara, Filippo ed Edoardo, Armen, Diana, Carlo e Claudia: cos’è stato più incisivo nelle loro esistenze, i comandamenti mancanti o i dodici passi? A cosa avrebbero dovuto dare più credito per sentirsi meglio e non ferirsi? Che cosa davvero gli è mancato?

RISPOSTA: Il brano che tu citi è uno dei passaggi fondamentali del libro, forse quello più esplicativo del legame profondo tra i personaggi; non a caso si trova nell’ultimo capitolo, da cui credo che getti una luce prospettica su tutte le varie storie che lo precedono. E credo che, ognuno a modo suo, ogni personaggio abbia infranto almeno uno o entrambi questi “comandamenti invisibili”, maltrattando ciò che avrebbero dovuto curare in nome di desideri inappagabili o sbagliati (l’anelito, al contrario del “sano” desiderio, ha una componente di astrazione e inappagabilità). I titoli dei capitoli non sono propriamente dei Passi, ma dei residui, dei precipitati delle vite dei vari personaggi: come spiriti guida, sono parole che aleggiano intorno alle loro esistenze.

 

I tuoi personaggi sono caratterizzati da un equilibrio fragile, da una crepa ben riconoscibile ma irrimediabile. Tu li accarezzi con mano ferma e leggera, e li mostri al lettore nella grazia infinita di un momento ben definito o di una scelta che sembra banale e che invece si rivela fatale.
C’è un personaggio da cui hai imparato di più? O uno che ti si è presentato per primo, trascinandosi via via tutti gli altri? Come sono caduti nelle tue pagine: da quali mondi provenivano o sono nati nel libro e insieme al libro?

RISPOSTA: Il primo personaggio che si è affacciato è stato Leo, colui che si trova nella situazione più “estrema”. Poi la mia attenzione si è progressivamente spostata su situazioni meno estreme e personaggi più sfumati, forse anche più complessi proprio perché i loro dolori sono diluiti in vite per molti versi banali. Anche se è solo Irene ad incontrare e confrontarsi direttamente con i propri fantasmi (che sembrano personaggi reali),  ogni personaggio deve fare i conti con i propri. Da Anna e Chiara mi sembra di aver imparato molto sulla precarietà degli equilibri emotivi, a posteriori mi sembrano quasi due voci di un unico personaggio. L’episodio con il cieco viene da un’esperienza di vita reale, e anche il cane Kitsch arriva dalla mia infanzia. Poi ci sono personaggi secondari, come Giacomo o Diana, che sono nati dalle pagine e credo infatti che il loro essere totalmente narrativi dia loro un passo diverso, come un’aura eterea e più universale. Non amo l’autofiction e credo si capisca.  

 

Il passo leggero e carezzevole contraddistingue tutti i tuoi personaggi. Lo stesso Leo, che apre e chiude i dodici passi della narrazione ha una dolcezza corazzata che lo rende amabile e delicato. Il capitolo sui padri che ha avuto è stato per me uno dei più belli.
Racconti o capitoli?
“La parola magica” gode della perfezione dei racconti e chiede il respiro al romanzo.
Cosa voleva scrivere, Anna Siccardi, se mai questa decisione è stata alla base della propria ispirazione: racconti o romanzo? Oppure l’idea dei Dodici Passi è estranea alla forma narrativa, e ed è motivata più dal cosa che dal come del libro? O ancora l’idea era proprio di sperimentare una forma ibrida che non fosse propriamente né l’uno né l’altro?

RISPOSTA: Sono certamente stata influenzata dalla mia grande passione per i racconti: Munro, Paley, Cheever e Carver sono i miei autori di riferimento. D’altronde, anche nel romanzo contemporaneo si vede ricorrere la forma delle linked stories, il “romanzo a quadri” in cui i diversi capitoli vivono di vita propria pur componendo una narrazione ampia: penso a Rachel Cusk, Jennifer Egan e alcune opere di Yasmina Reza, ma anche al Cognetti di Sofia si veste sempre di nero. Questo genere di struttura mi è sembrato il più adatto alla storia che volevo raccontare, perché è in realtà una catena di storie. Mi sembra, tra l’altro, il modo più fedele di riprodurre la realtà delle relazioni e della vita: ognuno ha la propria storia, che è fatalmente connessa a quella degli altri ma anche irriducibilmente solo propria. Ritengo che La parola magica sia fatta di capitoli – non di racconti – perché trovano senso compiuto solo nella loro interdipendenza. Per il mio prossimo libro sto affrontando la forma romanzo “puro” e confesso che trovo un che di artificioso nella costrizione di attenersi a un’unica narrazione principale; ma è anche molto stimolante.

 

Vorrei aggiungere al tuo bellissimo catalogo, da lettrice appassionata del “romanzo a quadri” una scrittrice, a cui ho pensato intensamente leggendo “La parola magica”: Elizabeth Strout. 

E con questa domanda siamo giunte al passo finale.

La tua scrittura ha la leggerezza di un velo: si posa per salvaguardare, per descrivere senza mai giudicare. I personaggi e le storie che vivono sono sempre guardati dal di dentro, con grande partecipazione, un tocco di emozione e nessuna pretesa di spiegare, ancora meno di giustificare, le loro reazioni e i loro comportamenti. Nessun giudizio sulle loro cadute. Trasudano umanità e sono umani, vulnerabili e fragili, senza colpe. 

La tua scrittura è tersa e nitida, sobria e controllata. Proprio con l’essenzialità ottiene un massimo di sentimento. Non ci sono colpi di scena, in “La parola magica”. Non ci sono rivelazioni e misteri. Ed è questo che colpisce e si imprime nel lettore.

Cos’è “la parola” per Anna Siccardi?

RISPOSTA: La parola, per lo scrittore, è e deve essere più di uno strumento espressivo. Io la intendo come liquido di contrasto per misurare quanta vita e verità – intesa come verosimiglianza alla Stanislavsky – c’è o meno in una storia. Tecnicamente, ogni storia può essere raccontata e spesso sono le storie più semplici ad essere le più difficili da raccontare. La parola “letteraria” agisce a mio avviso come una chiave per aprire scrigni nascosti o appena visibili del reale. Se nella storia che vuoi raccontare c’è qualcosa di importante e universale, allora le parole scaturiranno con una forza superiore alle tue intenzioni, tracceranno sentieri e punti di vista inaspettati. Se sei in perfetto controllo di ciò che scrivi probabilmente sei davanti a un resoconto, non a un processo creativo. In quello scarto tra intenzione e creazione riposa la magia delle parole.

Chiacchierando con… Anna Siccardi