di Andrea Cabassi

FOTO DI GRUPPO CON SIGNORE E STORIE DI FAMIGLIA

Andrea Cabassi ai Diari di Bordo con il libro che recensisce questo mese.
Andrea Cabassi ai Diari di Bordo con il libro che recensisce questo mese.

Recensione al libro di Paolo Miorandi

“L’unica notte che abbiamo” (Exòrma)

E’ un piacere recensire un libro di un collega. Un collega che lavora come psicoterapeuta in Trentino, attività che ho svolto anch’io, per anni, nei Servizi Sanitari della mia città. Il piacere è raddoppiato se il libro da recensire ha una scrittura di alto profilo, elegante, sontuosa. Con “L’unica notte che abbiamo” (Exòrma 2020) Paolo Miorandi ci ha regalato un libro notevole. E non è certo il primo. Basti pensare allo straordinario “ Verso il bianco” (Exòrma 2019),  memoir, saggio, romanzo su Robert Walser. Ed  è ancora di più un piacere recensire un libro che tratta di argomenti che suscitano in me una profonda risonanza emotiva; argomenti che ho affrontato sia nella mia esperienza psicoterapeutica, sia in quella di scrittura. Miorandi ci parla di una storia familiare che dipana la sua aggrovigliata matassa grazie all’acuto sguardo dato a foto ritrovate in cassetti e cassapanche. Ci parla di una storia familiare dove ha grande importanza anche il ritrovamento di documenti, pagine di un diario destinato ad essere bruciato, lettere ingiallite dal tempo e a malapena leggibili. Tutti elementi con cui si possono imbastire – come dice l’anziana signora, una delle protagoniste del romanzo – vere e proprie ricerche storiche. Foto, documenti, lettere compongono quelli che, da qualche parte, ho chiamato archivi disseminati della famiglia. A cui aggiungerei altri impalpabili elementi: lacune nella storia familiare da ricostruire, atmosfere particolari, non detti, segreti di famiglia che, se non svelati, possono portare all’insorgenza di sintomi e disturbi psichici anche gravi, come hanno dimostrato alcuni psicoanalisti francesi tra cui Serge Tisseron.

La trama del romanzo in breve: Elena Braus arriva in uno sperduto paese di montagna, ha due figli da un uomo che, poi, fuggirà in Argentina dove troverà la morte. I due figli saranno abbandonati e accolti dalla scuola del paese da due maestre che svolgeranno un ruolo importante nell’economia del romanzo: Hilde Rabensteiner e Maria Martini. Gioacchino e Ernesto saranno due spostati. Il primo sposerà in prime nozze una bellissima donna svizzera, Hannelore, poi si separerà e avrà altre storie; il secondo sposerà Georgette, una malinconica e inconcludente  pittrice. Avranno una figlia che è l’anziana signora che racconta e che racconta anche dei suoi nonni materni, della problematica vita che hanno vissuto e dell’importanza della nonna Elisabetta. Il paese in cui si svolge la vicenda è un paese abbandonato al momento della narrazione dell’anziana signora, un paese fantasma che ricorda, ad altre latitudini, il villaggio descritto dallo scrittore spagnolo Julio Llamazares ne “La pioggia gialla” (Einaudi 1997, poi Il Saggiatore 2019).

L’anziana signora narra ad un anonimo ascoltatore, che ascoltatore lo è diventato per caso, a causa di una lettera a lui recapitata, ma, in realtà, indirizzata all’anziana signora. Sarà lui il depositario della storia di famiglia narrata. Perché l’intero romanzo è una deposizione in quanto l’anziana signora depone le sue parole sul depositario. Perché questo? Perché – come scriveva Paul Celan – è necessario che ci sia un testimone che testimoni per il testimone? O perché c’è la necessità di riconnettere fili sconnessi che, comunque, stanno in sospeso sull’abisso delle nostre esistenze? O perché le storie e le parole non vanno lasciate morire in quanto ognuno di noi è protagonista del romanzo della sua vita e ha un romanzo da raccontare in cui intrecciare quei fili sparsi di cui si parlava sopra in una tenue tessitura e ognuno di noi – come sosteneva il protagonista del film di Wim Wenders “Nel corso del tempo” – è la nostra storia?   Al lettore scoprirlo e dare la risposta.

Qui è opportuno citare un altro romanzo recentemente uscito che parla di tematiche simili a “L’unica notte che abbiamo”, anche se declinate in maniera completamente diversa; parla anch’esso di archivi disseminati della famiglia, di foto, documenti, diari. Si tratta di “Memoria della memoria” (Bompiani. 2020) di Marija Stepanova, considerato uno dei più importanti romanzi russi degli ultimi anni. La protagonista, attraverso narrazioni, foto, oggetti ricostruisce con fatica le vicende inter e transgenerazionali della sua famiglia di origine ebraica. Si accorge di fare un lavoro sulla memoria della memoria, deve fare i conti con la memoria digitale, con la post/memoria, con l’impossibilità della memoria, con la pluralità dei passati ma, alla fine, fornisce una storia, anche se zoppicante, anche se incompiuta, a una famiglia che ha vissuto, in modo non spettacolare e grigio, nelle zone liminari della Storia benché la Storia abbia cercato di fagocitarla con le sue guerre e rivoluzioni, con le sue persecuzioni e violenze. Questo per dire che i due libri, nella loro bellezza e nella loro diversità, – e questo mi sembra particolarmente significativo – ci inducono entrambi, quello della Stepanova con ampie digressioni e quello di Miorandi con la compattezza della narrazione, a riflettere sul fatto che ogni famiglia ha un romanzo, ogni famiglia è un romanzo, ogni famiglia ha il diritto di avere un romanzo fatto di memorie, invenzioni, segreti, nodi irrisolti, di figure evanescenti che si fanno voce.    

La scrittura di Miorandi è densa, intensa, con  un periodare lungo e raffinato. E’ una scrittura precisa in cui ci sembra di percepire il respiro dei protagonisti, le pause, le lacune, i rimpianti, il loro riflettere. E’ una scrittura che indaga e cartografa l’animo umano senza mai giudicarlo. E’ una scrittura in cui non è presente un narratore onnisciente, ma intessuta di voci, voci che si alternano, voci che sembrano bisbigli, voci portate dal vento – per parafrasare il titolo di un bellissimo racconto di Antonio Tabucchi – , dalla pioggia, dalle indecifrabili lontananze della notte, dall’oltre dei monti e delle colline. Voci che, in qualche modo, l’anziana signora senza nome ha la funzione di raccogliere. Così possiamo ascoltare quella di Ernesto e di Georgette, quella di Gioacchino e di Elisabetta, quella delle due maestre Maria e Hilde. E poi, intercalata, quasi un controcanto, un contrappunto, la voce apparentemente fuori campo, resa graficamente in corsivo. In realtà è il depositario della storia che si sdoppia e su cui tornerò dopo.

Le foto che l’anziana signora mostra al suo interlocutore assurgono a vere e proprie protagoniste del romanzo. In uno degli incontri che ha con il suo ascoltatore l’anziana signora narra l’impatto e l’importanza che ha avuto il ritrovamento dell’archivio: “Mio padre non buttava via praticamente nulla – e in questa tendenza a non buttar via le cose, come vede, ho preso da lui – e, non so se per mia fortuna o per mia disgrazia, dalla casa sono affiorati molti documenti, chiamiamoli pure così, soprattutto queste fotografie, ma anche lettere o semplici promemoria, note di spese effettuate. Ricevute di alberghi e ristoranti, appunti presi al volo, tutte carte rimaste per decenni ammucchiate alla rinfusa in cassetti e cassapanche e che una persona un po’ più equilibrata di lui avrebbe senz’altro affidato immediatamente alla carta straccia. Da lì è cominciato il mio lavoro, o se vuole la mia ossessione, per cercare di dipanare quel confuso groviglio di accadimenti che ha reso la  storia della mia famiglia simile alla trama di un romanzo d’ appendice. Zeppa com’è di figli illegittimi, amori sbagliati, segreti inconfessabili, cattiverie gratuite, insomma tutto il repertorio che caratterizza il genere” (Pag. 71-2).

Come si può vedere non è una ricerca facile perché emergono emozioni forti, ma è una ricerca che può alleggerire e essere terapeutica. L’anziana signora lo riconosce lucidamente: “… sono più che convinta che gran parte dell’esistenza di noi sventurati sapiens sapiens consista nel tentativo, il più delle volte fallimentare, di guarire dagli influssi perniciosi e dalle devastanti patologie provocate dai morbi che si annidano e ingrassano nei focolari domestici (almeno in questo, devo ammetterlo, il dottor Freud ci aveva visto giusto); fin dall’inizio ne siamo intaccati, dallo strato più superficiale della pelle fino all’interno delle ossa, e nessuna vernice protettiva può arginare l’avanzare del degrado, in fondo non siamo altro che l’intrecciarsi confuso delle nostre patologie, e i corpi che esibiamo, ed è questo che ne determina la consistenza, sono la matassa di escrescenze che la malattia ha prodotto, un grumo di cellule venefiche, un bubbone sempre sul punto di spaccarsi e riversare particelle contagiose nell’aria, ed è forse per questo – capisco che le sembrerà una teoria alquanto bizzarra – che le ricerche storiche che negli ultimi anni ho condotto  sulla mia famiglia, mano a mano che la nebbia si diradava e ciò che era muto ritrovava la sua eloquenza, hanno determinato in me una progressiva perdita di peso e di sostanza, come se la materia greve e dolorante da cui il mio corpo era costituito andasse via via sgretolandosi per venire sostituita da una sostanza sottile ed eterea, di natura più spirituale che fisica, in un processo di mutazione che, come può vedere, mi permetterà in breve tempo di raggiungere la trasparenza assoluta” (Pag. 110-11).

Non c’è nel deporre dell’anziana signora un intento giudicante. Non si paragona né a un chirurgo che debba asportare una parte del corpo intaccato, né a un giudice che, al termine di un’udienza, debba emettere una sentenza. Si paragona, invece, a un passeggero che, dopo aver viaggiato a lungo, decide di aprire la valigia con cui ha viaggiato per vedere cosa vi è dentro. E’, forse, da questo atteggiamento che nasce un sentimento di pietas nei confronti di Ernesto, quel padre con cui ha avuto un rapporto molto difficile e complesso, quel padre che è rimasto traumatizzato dalla guerra di Russia. Il senso di pietas si manifesta nel momento in cui l’anziana signora mostra al suo interlocutore una delle foto che ha trovato e che immortalano il padre: “Lo guardi, con un fazzoletto annodato sotto il mento, con gli occhi bistrati e in mano la chitarra da due soldi che si era comprato per intrattenere le sue amichette nordiche con canzoni napoletane o dalla vaga atmosfera latina, e  questo pur non essendo capace né di cavar fuori dallo strumento un accordo credibile né di cantare, e di certo senza prendersi la briga di imparare anche solo qualche parola del testo degli sbilenchi motivetti che a tarda notte farfugliava sulle panche di qualche osteria sul lago… (Pag. 226-7). Questo porta l’anziana signora a fare un’analisi accorata: “D’altro canto – adesso forse lo capisco – ognuno di noi cerca come può e con i mezzi che ha di incontrare gli occhi degli altri per trovare comprensione e affetto, o, se di comprensione e affetto non c’è traccia, almeno un moto di stupore, un’occhiata incuriosita, un minuto di attenzione; anche uno sguardo di biasimo può essere meglio di niente in questa affamata ricerca che ci fa tendere la mano verso gli altri come mendicanti seduti sul marciapiede; così ci dipingiamo la faccia e facciamo il nostro numero senza renderci conto che il più delle volte calchiamo i toni della recita fino a sfiorare il ridicolo” (Pag. 228).

Gli incontri tra l’anziana signora senza nome e il depositario senza nome ricordano le sedute di una lunga psicoterapia dove, però, è l’interlocutore che va nell’appartamento della signora e si accomoda in poltrona, anche se  ascolta silente quello che lei dice e guarda altrettanto silente quello che lei gli mostra. Mai una interpretazione, mai una parola in più, mai un commento. Ma, come potrà constatare il lettore, il depositario avrà un ruolo attivo.

Lo status narrativo del depositario, come accennavo più sopra, è particolare. Il depositario senza nome sembra, a sua volta, impegnato ad ascoltare le voci portate dal vento, parole che gli arrivano da un indefinito altrove, forse dal riemergere di reminiscenze, forse è il ritorno del rimosso. Voci che, forse, prendono vita dalle altre, da quelle a cui ha dato vita l’anziana signora. Con la necessità di intrecciare i fili delle une con i fili dell’altre in quell’unica notte che abbiamo : “Ho il bambino sulle ginocchia, ripete la voce ultramarina, agita il braccio per salutare, come chi arriva, come chi parte; alzo anch’io  il braccio e lo appoggio al vetro della finestra, sento la distanza adagiarsi sul palmo della mano, è l’unica notte che abbiamo; ricordo le rovine di una città in riva al mare, ci ero arrivato per caso, si stendeva sull’erba riarsa, nella luce della sera, tra l’ossame degli olivi, centinaia di piccole stanze disegnate con righe di pietra; ogni anima una babele di voci, ogni corpo un corpo che cade; da un lontanissimo luogo mi dico, eppure vicini” (Pag. 240).

Alla fine, quando sono giunto alla fine, all’ultima pagina, mi sono accorto che dovevo elaborare il lutto di questa fine. E allora, ringraziando Paolo Miorandi per quello che ha scritto e per come lo ha scritto,  ho deciso di ricominciare a leggere.

Lo Scaffale di Andrea: L’unica notte che abbiamo
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