Giardini della Guastalla

Se avessi dovuto scegliere un luogo per incontrarci ti avrei proposto di vederci ai Giardini della Guastalla, di cui si parla anche nel romanzo: si tratta di un giardino storico di Milano che si trova tra la Sinagoga Ebraica, la Statale, il Policlinico e il Tribunale. Un posto raccolto e che mi piace molto, proprio nel cuore della città. 

Ecco l’appuntamento che mi avrebbe dato Silvia Bottani e che estendo idealmente anche a voi lettori, se vorrete accompagnarci in questa chiacchierata.

Il giorno mangia la notteL’esordio di Silvia Bottani per SEM, “Il giorno mangia la notte” (che la scrittrice ha festeggiato sul blog con i Dieci Buoni Motivi per NON leggerlo) è un libro “positivamente urticante”, nel senso che è proprio attraverso la natura urticante, e a tratti irritante, dei personaggi che la scrittrice prende distanza e trascina a distanza il lettore dai temi dominanti del romanzo: la violenza in genere e quella ideologica nello specifico. Questa postura le consente di non giudicare né i personaggi né le situazioni di cui sono artefici e protagonisti, ma di riservarsi, e attraverso di lei di offrire al lettore, lo spazio dell’osservatore, attento e critico. 

Sbaglio o non era nelle tue intenzioni rendere Naima, Stefano e Giorgio simpatici? Non solo nel senso comune del termine, che in un romanzo potrebbe significare coinvolgere il lettore nel loro mondo emotivo e farglielo condividere, ma anche nel senso più radicale ed etimologico di suv-pathein, cioè avere e quindi ricevere la capacità di soffrire insieme con gli altri. È proprio questa loro mancanza di “simpatia” a cui miravi nel tracciare le loro figure?

Silvia BottaniHai colto nel segno. Quando ho cominciato a immaginare i caratteri di Stefano, Naima e Giorgio mi sono resa conto che si trattava di personaggi spigolosi, “fallati”, e sin dalle prime pagine ho deciso di rispettare la loro verità, senza smussare nessuno dei loro tratti distintivi. Non mi piace la letteratura che blandisce il lettore: se deve esserci consolazione – e utilizzo il “se” – questa non può passare attraverso un’edulcorazione del racconto. Mi interessava porre il lettore in una condizione di iniziale distanza emotiva dai personaggi perché volevo condurlo lungo un percorso preciso, portandolo a comprendere le ragioni che determinano le scelte dei protagonisti non attraverso una facile adesione emotiva o un rispecchiamento immediato, ma attraverso una prossimità più profonda. Volevo che il lettore assumesse il punto di vista di personaggi di cui non condivide le scelte, che magari ritiene esecrabili: la narrativa ha questo straordinario potere di farci vestire i panni di chi ci è più distante e ci offre la possibilità di assumerne la visione. Credo sia un esercizio fondamentale per ampliare il nostro sguardo e fare esperienza dell’umano in tutta la sua complessità, un modo per evitare la tendenza ad interpretare la realtà attraverso categorie rassicuranti, operando una semplificazione che riduce pericolosamente il nostro orizzonte. 

In questa scelta c’è poi anche una componente di gusto: gli autori che sento più vicini e che risuonano in me sono scrittori in qualche modo crudeli in senso artaudiano, assoluti nel loro tentativo di restituire una verità delle cose.

 

Come esergo a “Il giorno mangia la notte” hai scelto dei versi dell’Ecuba di Euripide, che riescono a rendere l’atmosfera del romanzo con precisione e vividezza:

Nefando, innominabile crimine, al di là di ogni stupore, empio, intollerabile. Dov’è la giustizia degli ospiti?

In effetti il romanzo si apre con un crimine, innominabile nella sua banalità e per questo empio e intollerabile. Ma chi sono, se ci sono, gli ospiti nel tuo romanzo?
Naima rappresenta la seconda generazione di emigranti: figlia di genitori marocchini, nata e cresciuta in Italia. La sua aggressività può scaturire da questa sua condizione anagrafica? O invece con ospiti dovremmo indicare Giorgio e Stefano, insieme al suo gruppo “politico”, che non conoscono il diritto e il dovere all’ospitalità e all’accoglienza? Un’incapacità che non è solo verso chi considerano straniero come Naima, ma anche nei confronti del diverso, come gli omosessuali? O al contrario la definizione di “ospite”, nella sua accezione classica, non li riguarda?

RISPOSTA: Nei giorni in cui riflettevo sulla citazione da inserire in esergo, i giornali traboccavano di notizie sulle tragedie dei migranti e di cronache di conflitti internazionali legati al tema dell’appartenenza etnica, geografica, politica, religiosa. Mi sono resa conto che la dialettica tra dare e ricevere ospitalità, tra chi accoglie e chi viene ricevuto, era un tema ritornato improvvisamente al centro delle nostre vite quotidiane e uno dei motori della mia storia. Nella Grecia classica la xenìa, l’ospitalità, era espressione di una cultura consapevole della ricchezza ma anche delle criticità insite nell’incontro tra due soggetti e, soprattutto della reciprocità che legava in maniera indissolubile l’ospite e l’ospitante: si pensava che le parti prima o poi si sarebbero potute invertire e questo legame, considerato sacro, chiamava in causa addirittura gli dèi. Con il passare dei secoli la nostra sensibilità è cambiata così tanto che oggi l’ospitalità verso chi è straniero viene spesso ritenuta una specie di favore che si può concedere o no, a seconda del nostro proprio buon cuore e sempre in subordinazione a benefici economici o di ordine sociale e personale. Non dimentichiamo che estranei sono gli stranieri ma anche gli omosessuali, i rom, gli ebrei, i malati psichici, perché l’estraneità ha a che fare con il confine tra ciò che consideriamo umano, e quindi gode dei nostri stessi diritti, e ciò che non lo è. 

Nel romanzo, Giorgio e Stefano considerano Naima e la sua famiglia come estranei. Provenienti da fuori, per loro non godono degli stessi diritti e possono essere de-umanizzati: Stefano lo fa seguendo una visione politica basata sulla discriminazione, Giorgio attraverso un egoismo che lo rende indifferente. Per Naima, Giorgio e Stefano rappresentano invece l’alterità all’interno del sistema, due elementi pericolosi e ostili. Ho pensato che solo una forza come quella del desiderio potesse scardinare questa contrapposizione, una forza ingovernabile e irrazionale, e infatti solo la dialettica tra Naima e Stefano subisce una vera evoluzione, mentre il conflitto tra Giorgio e Naima si dimostra insanabile. Tutti però sono accomunati dall’esperienza della paura, che si traduce in rabbia. Naima prova a vivere la propria identità fuori dagli schemi precostituiti, ma si trova a scontrarsi con un mondo che vuole imporle un ruolo e poi le infligge il dolore bruciante di un’ingiustizia; Stefano ha subito la disintegrazione del suo nucleo familiare e cerca un senso nel perseguimento di un ideale politico distorto; Giorgio combatte con i propri fantasmi e si fa divorare dal desiderio di rivalsa. L’aggressività è qualcosa che sperimentano tutti e tre i protagonisti, anche se con ragioni ed esiti differenti.

 

Mai avrei creduto che il motivo dell’ospitalità potesse essere di così stringente e tragica attualità proprio lì dove è nato: i fatti di Lesbo sono una ferita e un’aggressione profonda a tutti i valori classici che ho sempre immaginato immortali.
Uno degli aspetti più affascinanti di “Il giorno mangia la notte” è nella forte e violenta (gli aggettivi non sono usati a caso) attrazione che nasce improvvisa tra Naima e Stefano. Inevitabile e ineludibile. Contrastata da quello che sono o credono di essere.
Una speranza? Un monito che l’amore vince sempre? Che le barriere che imponiamo agli altri e a noi stessi possono essere abbattute dalla prepotenza di un sentimento che non si può generalizzare? O invece altro?

RISPOSTA: Non so dire se l’amore vinca sempre, ma sono certa che sia la forza che ci ha permesso di evolverci come specie. La costruzione di legami, la capacità  di collaborare e fare comunità è quello che ci ha consentito di costruire la civiltà, elaborare il diritto e lo stato sociale, migliorare le condizioni di vita delle persone. Credo che il nostro futuro, come spiega Donna Haraway in Chthulucene, oggi dipenda più che mai dalla nostra capacità di elaborare nuove modalità di relazione superando la nostra visione antropocentrica, quindi riscrivendo il nostro rapporto con gli altri esseri viventi e con l’ambiente di cui siamo parte. Quello che stiamo vivendo in questi giorni, con l’epidemia del Covid-19 da un lato e l’Europa che va in pezzi al confine greco dall’altra, ci mette alla prova rimettendo in discussione il nostro rapporto con l’altro e con l’idea di un amore non solo di coppia, ma più ampio: l’amore fraterno e quello per un’idea di comunità umana giusta, di cui tutti dovremmo essere parte.

In parallelo corre il tema del desiderio e dell’amore erotico, che non ritengo meno importante e che nel romanzo prende possesso di Naima e Stefano. Penso che l’idea dell’amore pseudo-romantico, matrimoniale, che ci trasciniamo dall’Ottocento sia una riduzione perniciosa. Volevo invece raccontare di una forza scardinante, qualcosa di ineluttabile che arriva e spazza via tutto, un sentimento non addomesticato, l’“Eros invincibile in battaglia” cantato dal coro dell’Antigone di Sofocle: “Nessuno degli immortali / né degli umani effimeri / può sfuggirti, / e chi ti ha in sé delira”. Volevo ritrovare quella forza originaria, farlo di nuovo essere un soggetto che agisce. In tutto il romanzo i protagonisti sono alla deriva,  sono immersi nel caos: ho voluto far emergere un senso di smarrimento che sento onnipresente e l’idea di un mondo al collasso, in cui tutto quello che abbiamo creato, dalla tecnologia al sistema economico, al lavoro, ai rapporti personali, sembra franare sotto la spinta di forze che ci sovrastano. L’amore però illumina le macerie di questo mondo che finisce e quello di domani. Un mondo che forse è già nato e non riusciamo ancora a vedere con chiarezza.

 

E accanto ai personaggi, accanto non dietro, c’è la città di Milano. Non più quella da bere che aveva fatto la fortuna di Giorgio, e poi la sua disgrazia, e che è ormai rintanata negli uffici e nei terrazzi di un certo tipo di borghesia affarista ed egocentrica. La Milano vissuta e multietnica, che forse stenta o fatica a ritrovare una voce autentica che la rappresenti in pienezza. Anche Naima in questo contesto fatica a trovare il suo posto e il suo spazio. In questo vuoto le forze di estrema destra trovano appartenenza e identità, si vestono di nuovo e diventano credibili.

In che modo Milano li rappresenta? e in che modo loro, i giovani estremisti di destra come Stefano, la rappresentano?

RISPOSTA: La figura di Stefano, con i suoi amici camerati, porta a galla alcune contraddizioni che riguardano realtà metropolitane come quella di Milano e che possono fare luce su una serie di nodi che riguardano la nostra contemporaneità. 

Con la sua paura che si trasforma in violenza e il suo ostinato bisogno di imporre un ordine impossibile alla realtà, nel tentativo di dominarla, Stefano rappresenta una certa postura che appartiene a Milano ma non solo. La ricerca di soluzioni semplici a una realtà sempre più complessa è una tentazione che riguarda tutti. La sua ferocia, come quella di Giorgio, si alimenta degli umori della città, cresce all’interno di un contesto urbano e ne è un portato: così come Giorgio ha nutrito il suo appetito e il narcisismo durante gli anni del boom pubblicitario, facendo propri il ritmo forsennato e la bulimia che ha segnato la città, così Stefano è un’espressione della frustrazione generata da un modello economico alienante e di una lacerazione del tessuto culturale.

Da un certo punto di vista, Stefano e i suoi camerati rappresentano un residuato storico. Oggi però osserviamo un fenomeno interessante: una parte della politica si è avvicinata – si direbbe per pura convenienza – ad alcune posizioni radicali che cavalcano inquietudini diffuse legate a temi come l’immigrazione o la crisi del mondo del lavoro. Temi che acquistano particolare rilevanza nei grandi centri urbani, dove i conflitti trovano piena espressione, e che vengono poi proiettati anche nel resto del Paese, nelle città di provincia e nei centri più piccoli, che spesso vivono per proprietà transitiva tensioni sociali che impattano più diffusamente sulle realtà metropolitane. Stefano quindi è espressione di un malessere metropolitano contemporaneo, ne incarna uno dei possibili caratteri oscuri.

 

Per concludere la nostra chiacchierata, il titolo del tuo romanzo ha un piglio poetico, che io ho interpretato in senso positivo e ottimistico. Anche se il finale aperto del tuo romanzo, lascia anche il titolo suggestivamente indeterminato nella sua accezione. Forse sentirlo poetico è dovuto a una suggestione di Mario Benedetti, che ti rivolgo come domanda finale: Quante volte (tu Silvia Bottai) hai fatto a pugni con la notte? È stato come un combattimento di boxe esordire nella narrativa?

RISPOSTA: Come scrittrice penso che il mio compito sia fare a pugni con la notte. A volte abbracciarla, in un “clinch”, a volte incassare i suoi colpi. 

Per quanto riguarda il mio esordio, posso dire che è stato un incontro di boxe ma non con gli editori, bensì con me stessa. Scrivo da quando ho vent’anni, occupandomi di giornalismo, critica e poi comunicazione e solo un paio di anni fa ho trovato il coraggio di affrontare la narrativa: prima di essere scrittrice sono una lettrice onnivora e nel corso del tempo, affrontando Dostoevskij, Céline, Woolf, London ho maturato il timore reverenziale di scrivere anche solo una pagina. Poi però le storie sono arrivate e ho capito che era giusto accoglierle e dare loro vita attraverso la mia scrittura. Per circa un anno mi sono dedicata alla stesura del romanzo, sotto la supervisione di Lorenza Ghinelli che mi ha fatto da writing coach e che mi ha aiutato ad acquisire consapevolezza nei miei strumenti. Una volta finita la prima stesura, ho sottoposto il manoscritto a SEM, una casa editrice di cui apprezzavo il progetto editoriale e di cui seguivo le attività da tempo, grazie anche ai loro giovedì, serate in cui la casa editrice si apre per eventi e incontri con gli autori. Tutto poi è venuto di conseguenza. Oggi posso dire che, al netto di tanti anni di lavoro, penso di essere stata fortunata a incontrare dei professionisti così attenti e capaci, che hanno creduto nel mio romanzo da subito e mi hanno permesso di esordire. 

Chiacchierando con… Silvia Bottani
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