di Andrea Cabassi

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UN ARTISTA CULLATO DALLA SUA OPERA

Recensione al  libro di Daniel Guebel

“L’uomo che inventava le città” (Amos Edizioni)

 

DEL RIGORE NELLA SCIENZA

… In quell’impero, l’Arte della Cartografia raggiunse una tale Perfezione chela mappa di una sola provincia occupava tutta una Città e la mappa dell’Impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe Smisurate non soddisfecero più e i Collegi dei Cartografi crearono una Mappa dell’Impero che aveva la grandezza stessa dell’Impero e con esso coincideva esattamente. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive capirono che quella immensa Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell’Ovest restano ancora lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti; nell’intero paese non vi sono altre reliquie delle Discipline Geografiche.

Suarez Miranda, Viajes de varones prudentes, Libro Quarto, cap. XLV, Lérida,1658.

 

Questo fulminante e straordinario racconto di Borges è contenuto ne “L’artefice” (Adelphi. 2016. Trad. it. Tommaso Scarano. Pag. 183). Uno dei suoi nuclei tematici è il rapporto tra la mappa e il territorio dove, qui, sembrano coincidere;  quel rapporto mappa e territorio che è stato approfondito dai teorici dei sistemi; quel rapporto che ho, a lungo, studiato ai tempi in cui frequentavo la scuola di Terapia della Famiglia di Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin e meditavo sui testi di Gregory Bateson, Humberto Maturana, Francisco Varela. In una sua interessante e importante analisi intitolata “Mappa e territorio. Il problema del referente nelle rappresentazioni del mondo” (Noema. Numero 5-2, anno 2014- Ricerche.  noema.filosofia.unimi.it) Luca Mori passa in rassegna le diverse posizioni di filosofi, biologi, scienziati. Uno dei primi ad affrontare questa tematica fu Alfred Korzybski che sosteneva che la mappa non è il territorio che si rappresenta. Bateson, invece, sosteneva che noi conosciamo  il territorio  sempre e solo tramite una selezione di differenze che emergono dall’osservazione. Riteneva che la mappa non è il territorio, ma che il territorio non è accessibile direttamente, un po’ come “la cosa in sé” di Kant. Il biologo e scienziato Humberto Maturana pensava che noi possiamo solo conoscere mappe, di mappe, di mappe, un pensiero simile a quello del suo collega Francisco Varela, anche se Varela era alla ricerca di un punto intermedio tra la soggettività e la realtà oggettiva. In anni più recenti la ricerca è proprio stata focalizzata sul concetto di mondo intermedio. Negli studi di Alfonso Maurizio Iacono la mappa è una selezione di differenze, un insieme strutturato di differenze  che fanno la differenza per l’osservatore. I segni sono i sostituti con cui l’essere umano si relaziona con il mondo. I segni danno la possibilità di articolare in mappe le differenze selezionate. Noi non abbiamo un accesso cognitivo diretto al territorio, possiamo vedere, conoscere le differenze infinite  che attribuiamo al territorio, il territorio è solo un territorio intravisto.

Non sembri fuori luogo, in una recensione, questo excursus alle problematiche che sollevano i rapporti tra mappa e  territorio. Questo rapporto è uno dei nuclei tematici del libro di cui sto per parlare. Ma prima mi si conceda un’altra breve digressione che riguarda il campo della letteratura:  se trasponiamo il rapporto mappa/territorio nell’ambito letterario allora in questo rapporto ne va proprio della letteratura: ossia dell’allegoria in relazione al reale; del simbolo in relazione al reale. Descrivere, scrivere, dipingere, comporre musica sono simbolo e allegoria del reale? Con il buon senso ci verrebbe da dire di sì, ma il libro che mi accingo a recensire mette in crisi le nostre certezze.  Si tratta di un racconto lungo, un piccolo grande gioiello della letteratura argentina, che si intitola in italiano: “L’uomo che inventava le città”. Il suo autore è Daniel Guebel. Guebel è nato a Buenos Aires dove è sempre vissuto. Il romanzo El Absoluto ha vinto il Premio Nacional de la Literatura Argentina, El hijo ha vinto il Premio della Critica della Feria Internacional  del  Libro. Nel 2012  le “Edizioni La Linea” hanno pubblicato Carrera e Fracassi.

“L’uomo che inventava le città” è ottimamente tradotto da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi ed è pubblicato da Amos Edizioni. Casa editrice che ha il merito di aver pubblicato “Ritornerai a Région” (2015) del grande Juan Benet e due preziosi testi di Marino Magliani “Un soggiorno a Zeewijk” (2014) e “Carlos Paz e altre mitologie” (2016).

E’ probabile che Daniel Guebel avesse in mente il brevissimo racconto di Borges, citato all’inizio, quando ha scritto questo racconto lungo, come ci fa notare nella sua bella e articolata post/fazione “La città e il desiderio: Daniel Guebel tra utopia e storia, Luigi Marfè.   

Rafael Zarlanga è il protagonista del racconto. E’ un artista argentino a cui, in un primo momento, Peròn  in esilio, gli affida l’incarico di ritrovare i pezzi del bandonéon del grande musicista Annibal Troilo noto come El Gordo Pichuco. Poi, in un inarrestabile crescendo, Peròn gli chiede – non ordina – di visitare i quartieri popolari di New York: “… chiese a Zarlanga di compiere una nuova missione: visitare i quartieri popolari di New York alla ricerca di locali dove organizzare unità di base destinate a spargere nell’anima dell’impero la dottrina peronista della terza posizione. Il momento era propizio”. (Pag. 21). E, ancora, suggerisce – non ordina – di realizzare “una scultura di caratteristiche astratte e di dimensioni superiori a quelle usuali, fino a raggiungere, ad esempio, le proporzioni dell’Obelisco. Realizzata con elementi geometrici autonomi e assemblata mediante un sistema di ingranaggi, pulegge, ganci e ferri, la scultura, una volta montata, avrebbe potuto sollevarsi fino ad attraversare le nubi basse del cielo Buenos Aires e ripiegarsi fino a formare (esternamente) una superficie convessa non più alta di otto metri. Se necessario, doveva anche essere in grado di muoversi” (Pag. 23). Zarlanga comprende che, con la scultura, Peròn “voleva realizzare un atto politico di prima grandezza, che con il suo stile geniale aveva escogitato un gesto di resistenza straordinario, un gesto che riuniva e enfatizzava tutte le potenzialità dell’arte contemporanea nella sua dimensione contestatrice. La scultura era lui, lui stesso”. (Pag. 24). Seguono ricerche e sperimentazioni che ricordano la torre Eiffel, la torre di Pisa e, su suggerimento di Peròn, il rollè di salsiccia creola. Ma il progetto viene accantonato e Zarlanga vive l’accantonamento come un fallimento. Non per questo termina il rapporto tra l’artista e Peròn che lo incarica di progettare la città utopica peronista. Da questo punto in poi progetti su progetti proliferano, vengono coinvolti architetti e ingegneri e altri esperti ancora. Le carte si espandono in assenza di un piano generale dove non conta più il concetto di abitabilità, dove le strade sono senza nome, senza simmetria logica, organizzazione, dove la città assomiglia sempre più a uno scarabocchio “costituito da una somma di impulsi, ciascuno momentaneo e autonomo. Ogni volta in cui si confrontarono con questi disegni sparpagliati, i costruttori di plastici, architetti, ingegneri, illustratori, progettisti di cementi armati, disegnatori, specialisti di installazioni sanitarie e altri tecnici di edilizia, si chiedevano se avessero a che fare con qualcuno che non aveva la minima idea di come ci si approccia all’architettura o se, al contrario, se ne intendeva tanto da aver deciso a un bel momento di rivoluzionare i metodi di progettazione e disegno”. (Pag. 36).  A questo punto viene da domandarci  se la mappa è il territorio, o se la mappa è una mappa di mappe, di mappe.  Ed è in questo preciso momento che lo spazio di progettazione si trasforma in allegoria: “Ad un certo punto, a causa del ritmo di lavoro e di accumulo di disegni e di modelli, la crescita costante di quanto veniva accantonato fece sì che lo spazio della progettazione si trasformasse in una allegoria del progetto, come se la città utopica peronista avesse abbandonato lo spazio previsto per lei e avesse invaso il luogo dove si ideava il suo progetto… le dimensioni raggiunte moltiplicavano per mille lo spazio medio di uno studio di architettura convenzionale, e benché  la maggior parte dei curiosi, vicini e pettegoli pensassero che in quei depositi si stesse fabbricando un sottomarino nucleare destinato a recuperare le isole Malvine, all’interno del partito peronista, dove si possedevano informazioni un po’ più precise, c’era chi non riteneva opportuno dedicare tanta cura e investimenti a un progetto di dubbia utilità, dal quale, tuttavia, Peròn sembrava aspettarsi tanto”. (Pag. 39). Qui occorre fermarsi un attimo: siamo abituati a pensare che le città utopiche che vari scrittori politici hanno descritto come a città perfette in cui tutte le contraddizioni sono risolte, i conflitti sedati. Qui non c’è perfezione. La mappa non copre il territorio, non lo ingloba, c’è sempre qualcosa che resta fuori. Il lavoro di Zarlanga ci ricorda alcuni angosciosi quadri di Escher dove la circolarità non è mai virtuosa, dove la circolarità sembra una trappola dalla quale non si può uscire.

La mappa è una mappa di mappe di mappe che sostituisce il territorio. A tal punto che Zarlanga “dormiva sul tavolo dove disegnava, circondato dai plastici, nell’oscurità della notte attraversata dalla luce dei nuovi lampioni al neon.  Ma neanche questo gli bastò. Ben presto prese a dormire dentro ai suoi modelli, forse perché qualcuno aveva le dimensioni sufficienti, o perché lì dentro si sentiva protetto: un artista cullato dalla sua opera”. (Pag. 42).

Con fine ironia l’autore ci dice che Zarlanga non è interessato alla politica, anche se la politica ruota intorno a lui, anche se le figure di Peròn e Evita sono ben presenti. In molti testi argentini Peròn e Evita hanno ruoli da protagonista (basti pensare ai romanzi di Eloy Martinez). Ma in “L’uomo che inventava le città” il peronismo e la figura di Evita sono affrontati in modo davvero originale. Nella sua post/fazione Luigi Marfè ci informa che questo racconto di Guebel era uscito in La carne de Evita (2012), seguente a La vida de Peròn (2004). Ci dice che Guebel ha un intento parodistico quando tratta il peronismo e, a mio avviso, ha ragione. E ancora una volta ha ragione Marfè quando analizzando il racconto di Guebel scrive “Tratto distintivo della sua scrittura è la tendenza ostinata a un realismo che tiene aperta la porta al fantastico, dando ai suoi personaggi la forma di ipotesi mentali e lasciandoli come sospesi, in bilico, sulla soglia dove verità e finzione si confondono per mostrare al lettore che tutto ciò che sa del mondo potrebbe essere un sogno” (Pag. 80).

Un esempio degli intenti parodisti e dello stare sulla soglia tra il reale e il fantastico di Guebel lo troviamo verso il finale del testo che è, anche, fortemente evocativo. Zarlanga si trova nello splendente lago di Iberà. Qualche volta naviga con una barca sul lago. Nella sua navigazione resta in attesa di un miracolo: “E così, in attesa che avvenisse il miracolo, fluttuava in piena serenità. Ascoltando lo sciabordio dell’acqua sulle fiancate della barca, interrotto dallo strillo delle scimmie urlatrici e dall’improvviso cristallizzarsi dell’arcobaleno di goccioline d’acqua che scoppiavano nell’aria per i repentini salti di surubias, mojarras, tarariras e palometas. Un aguarà guazù, specie di volpe, scivolava verso il limite della costa, un boa curiyù, serpente acquatico di grandi dimensioni, affacciava la testa triangolare tra le fronde, l’uccello fantasma lanciava il suo urutaù, il lugubre grido del gufo” (Pag. 69).

Pagine poetiche e, come si diceva, altamente evocative. Quale sarà il miracolo che Zarlanga aspetta che si avveri? E se miracolo ci sarà si avvererà, poi? Al lettore scoprirlo.

E, a noi lettori, ci si permetta di coltivare la speranza che i bravissimi Magliani e Ferrazzi traducano altre opere di questo grande scrittore argentino e che Amos Edizioni le pubblichi.

Lo scaffale di Andrea: L’uomo che inventava le città