San Paolo

Ti rispondo come farebbe Marocco: vediamoci nella Curva B dello stadio San Paolo, nella mattinata di un giorno senza partita, e quindi vuota.

Torno a chiacchierare con Alessio Forgione che ritorna in libreria con il secondo romanzo, sempre con NN Editore. (QUI il link della precedente chiacchierata)

Sulla quarta di copertina si legge: Dopo l’esordio con “Napoli Mon Amour”, Alessio Forgione torna con un romanzo di prime volte.

Quanto mi è piaciuta questa definizione: un romanzo di prime volte. E quanto la ritrovo vera a lettura ultimata.

Mancava poco alla fine del campionato e galleggiavamo appena sopra la metà della classifica. Mia madre mi aveva abbandonato, lasciandomi con mio padre. Un mese e mezzo e sarei stato bocciato per la prima volta ed ero molto più che vergine e forse qualcuno stava pensando a come uccidermi. 

Mi sembrò che mi servisse qualcosa di ben più potente di un coltello.

GiovanissimiNon svelerei molto più di questo per quanto riguarda la trama di “Giovanissimi“, che è continuo schianto nella felicità di una scrittura che è sempre presente a se stessa, senza sentimentalismi né patetismi, ma pienamente sentimentale. Di un’autenticità straziante e dirompente.

Cosa servirebbe a Marocco, il protagonista del tuo nuovo spettacolare romanzo? In che rapporti sentimentali ed emotivi è con Amoresano di “Napoli Mon Amour”, perché l’uso reiterato della prima persona, oltre al fumo e al calcio, e alla birra ghiacciata come lascia prevedere la sbornia che investirà Marocco e gli amici, mi spinge come lettrice a credere che ci sia un filo che possa legare i due: fratelli? l’uno la versione più giovane dell’altro? una possibilità per Marocco di diventare Amoresano?

Alessio ForgioneSe “Napoli mon amour” parla dei trentenni attuali, “Giovanissimi” spiega perché sono diventati così come sono. “Giovanissimi” è quello che c’è prima, e illustra un pezzo del percorso, nascosto, di “Napoli mon amour”. Forse è un romanzo di formazione di un altro romanzo di formazione, e molto probabilmente non è possibile scrivere un romanzo che non sia, almeno in parte, di formazione. 

A ogni modo, nonostante le diverse connessioni tra loro, sono due romanzi distinti, indipendenti; si può vivere tranquillamente leggendo solo uno dei due o addirittura non leggendoli entrambi. E al contrario c’è un rapporto evidente tra Amoresano e Marocco, descritto in “Napoli mon amour” stesso, di cui Marocco è un personaggio, nella prima parte, che entra in un bar e dice delle cose riguardo la situazione del Napoli e Amoresano è insofferente, perché le reputa delle sciocchezze. Poi Marocco scompare, Amoresano va avanti e scompare anche lui e torna Marocco, che diventa il protagonista di “Giovanissimi”. I due esistono negli occhi dell’altro ma forse non si vedono davvero. E forse questo è il mio tentativo di immaginare le vite degli altri, di dare spazio a tutte le vite. Di sicuro è la mia dichiarazione di guerra, quello che intendo fare, e cioè scrivere qualcosa che comprenda i miei libri, nel tentativo di scrivere quello che c’è oltre, sbiadendo i margini che separano la realtà dalla finzione. Per esempio, in “Napoli mon amour” Amoresano parla di un racconto che ha scritto e in cui ci sono due ragazzini che spacciano. E se quel racconto fosse diventato un romanzo? L’autore di “Giovanissimi” è Amoresano?

“Giovanissimi” e “Napoli mon amour”, dunque, sono due stazioni di un percorso molto più lungo. Sono due capitoli di un romanzo più voluminoso. E anche “Giovanissimi” è scritto in prima persona, per diverse ragioni, soprattutto di natura tecnica e perché non era congeniale, a questo percorso di cui ti dicevo, che venisse scritto in terza persona, perché non sarebbe stata chiarita questa cosa del percorso, perché Marocco sarebbe apparso estraneo al suo autore, ma il suo autore non vuole essere estraneo ai suoi personaggi, anche perché tra questi personaggi ancora non si è capito chi è l’autore, magari è Marocco o magari è Amoresano, chissà…

E faccio un altro esempio. Come scritto in “Napoli mon amour”, Amoresano e Marocco vivono nello stesso quartiere, Soccavo. In “Napoli mon amour” il quartiere appare poco, in “Giovanissimi” è a tutti gli effetti un personaggio; uno dei più importanti a dire il vero. Ricordo una mail che scambiai con Eugenia Dubini, ch’è l’editore e anche la persona che mi accende la luce e mi consente di guardare alle cose che faccio con più chiarezza. Lavoravamo alla revisione di “Napoli mon amour” ed Eugenia mi disse che c’era poco del quartiere, che appariva sfocato e che non si capiva bene che funzione avesse e perché nominarlo se poi non ne parli davvero? Le risposi che nel prossimo libro, ovvero “Giovanissimi”, avrei chiarito la faccenda del quartiere, che non potevo toglierlo e doveva fidarsi. Ecco, ci siamo fidati l’uno dell’altra. 

 

Affrontiamolo questo personaggio fondamentale di “Giovanissimi”: Soccavo.
Il quartiere è più vero della città? Perché la tua Napoli è così ferrosa e acida, dal cuore molle e la scorza dura, da risultare vera e autentica, libera e liberata da sovrastrutture e rimembranze.
Immagino che per un napoletano sia difficile scrivere di luoghi fuori da Napoli, tanto è potente e connaturato l’immaginario della città in sguardi, pose e andatura narrativi. Perché Napoli è suoni, colori, scenari e proiezioni indelebili.
La tua Napoli è scivolosa, non ci sono barriere che proteggano o separano, ma invisibili muri che isolano ed emarginano.
Non è questo che avviene a Marocco a scuola?

Alessio ForgioneParlare di Napoli è lo sport preferito dei napoletani. Siamo molto autoreferenziali, io per primo. Ora, come qualsiasi tipo di sport, lo si può fare bene o male e la mia ambizione è giocare bene e poi, magari, chissà, forse, con un po’ di fortuna… Mia altra ambizione è parlare di Napoli non parlandone, ovvero senza dare giudizi o fornire spiegazioni, ma semplicemente illustrando. Quindi, trattare questa città come un posto qualsiasi e far scegliere a chi si affaccia su quanto scritto se questo posto è speciale, è un attore della storia o scenario, perché oltre ad essere autoreferenziale sono anche molto stufo di tutto questo chiacchiericcio incessante che c’è su Napoli, e per diversi motivi, ma principalmente perché spesso ne esce fuori una copia sbiadita e trasfigurata della città. E credo non serva. Al pubblico, all’arte, se così vogliamo chiamarla, e alla città, la quale ha bisogno, invece, di tanta tanta tanta normalità, e non ulteriore folklore. Spesso si racconta Napoli in malafede, proprio con l’intenzione di usufruirne, e questo m’indispettisce ed io sono di Napoli e non posso scrivere di quello che non conosco – cioè, potrei, ma non m’interessa – e allora non mi resta altro da fare che parlarne a modo mio. Facendo scomparire il mio punto di vista tra le parole, eppure senza diventare un semplice osservatore. Senza sentenziare, anche perché io stesso sto cercando di capire.

In “Giovanissimi”, dunque, c’è molto più quartiere che città e Napoli è osservata da lì, dal quartiere, dalla periferia, da Soccavo – Soccavo perso, case su case, negozi, spinelli, bar, gioventù, occhineri, occhiverdi, sguardi libidinosi, capelli corti, mesciati, lavati, rap che schizzava dalle autoradio, magliette raffiguranti i Rem, offerte paghi due e prendi tre, appuntamenti presi e altri disdetti, sorrisi, anfibi, scarpette, tampax, assorbenti, pizzefritte, decalcomanie… come scrive Peppe Lanzetta, in uno dei racconti di “Incendiami la vita”. E Soccavo, in “Giovanissimi”, fornisce un punto di vista sul resto della città e del mondo e, se vogliamo, sull’esistenza tutta e quindi Soccavo è un personaggio, o almeno lo spero, perché questa era la mia intenzione.

Altra mia intenzione era parlare dell’adolescenza, e questa passa anche attraverso la scuola.

Marocco, a scuola, scivola, cadendo e facendosi male, ma perché non gli viene fornito nessun appiglio. Non che sia un genio, ma potrebbe esserlo, ma la scuola non s’interessa molto a lui e lui, forse per reazione, non s’interessa molto della scuola. Al di sotto di questa cosa, di questo non-rapporto, ci sono dei miei pensieri, diciamo, di natura sociologica, ma che non compaiono nel romanzo e spero che questo vuoto, lasciato di proposito, inciti il lettore a domandarsi il perché e le ragioni di questo non-rapporto. D’altronde, i romanzi vengono scritti da due persone, assieme: da chi scrive e da chi legge. 

 

Eccome, se da lettrice me lo sono chiesta il perché e il come di quelle non-ragioni per le quali la scuola non si interessa di Marocco, ma anche di tutti gli altri visto che Marocco sceglie la scuola come banco di spaccio, più facile e agevole, del quartiere, dove sarebbe più complicato e ostico.
E me le chiedo anche come docente, non solo come lettrice, e soprattutto come eventuale docente di latino, che è quello che sarei stata nel liceo di Marocco.
E ti devo pure dire che mi hai spinto a mille riflessioni che mi riguardano da vicino, perché uno dei punti più sconcertanti e spiazzanti di “Giovanissimi” è che nelle pagine non si riuscirebbe mai a dire: – ma io no! A me questo non potrebbe succedere! Ma io a questa reazione sono immune.
E si è padre che sbaglia e impone, ma è presente anche se spettatore silenzioso e di pochi, decisivi gesti (anch’io ho regalato un rasoio a Marocco come segno di riconoscimento della sua identità e volontà); e si è madre assente e forse disperata, con il desiderio di portare il figlio al mare con pinne e maschera; e si è allenatore della categoria Giovanissimi che si innamora dei suoi ragazzi e si sente responsabile di loro e in parte artefice del loro destino; e si è giovanissimi e di questo ti ringrazio non essendolo più, per avermi concesso di (ri)assaporare le prime volte nella tenerezza dei dialoghi tra Marocco e la cugina di Maria Rosaria, che ricuce un cuore strappato, perché sì mi piace credere che l’amore salva e che “Giovanissimi” sia un romanzo di occasioni, in cui l’amore vince. Ma si è anche tutti i giovani di Giovanissimi che si sentono immortali e che invece inciampano, cadono e non sempre si rialzano.
Lettori fortunati di certo di avere tra le mani un romanzo così bello, ma così bello che è difficile da dire. Lettrice felice in questo caso che l’autore sia tu, Alessio Forgione, al secondo romanzo, riconferma e promessa insieme.
E il calcio? Possiamo considerarlo un secondo personaggio insieme a Soccavo, o è solo un dettaglio tanto del quartiere quanto dell’adolescenza? E anche in questo caso come già per il quartiere, da “Napoli Mon Amour” a “Giovanissimi” non c’è un ispessimento intimo e introspettivo del tema calcistico?

Alessio ForgioneAllora, cercherò di essere schematico, per non perdere nessuno dei punti della tua “domanda”, che trovo molto arricchente. 

La scuola. Io odiavo andare a scuola. Studiavo poco e male e m’interessavo di pochissime cose, che, guarda caso, erano anche le cose che il professore di turno mi rendeva più interessanti. Di fatto, se non fosse stato per la mia professoressa d’italiano del liceo non sarei diventato il lettore maniacale che sono. Leggevo da prima di lei, questo sì, ma lei mi ha reso più metodico. Mi ha insegnato a coltivare e seguire i libri belli che trovavo in giro, facendo crescere e moltiplicando la mia curiosità. Però questa professoressa è stata un’eccezione. Di fatto, mi sono sempre sentito tagliato fuori. E ovviamente mi metto anche nei panni dei professori, che si ritrovano davanti a uno sciame di studenti, molto spesso svogliati e disattenti ed ecco che per me il rapporto disastroso che Marocco ha con la scuola, forse, non è colpa di nessuno. E se sembra che venga espresso un giudizio è perché Marocco osserva la scuola e il suo rapporto con essa solo dalla sua angolazione. In pratica, è un’opinione. L’opinione di chi si sente dire che non è abbastanza bravo, quindi l’opinione di una persona offesa e poco lucida o obiettiva. 

Il padre. Il padre è il personaggio che ha lo sviluppo che più mi soddisfa. Perché muta le sue modalità genitoriali per arrivare meglio al figlio. Capisce che le maniere forti non fanno altro che indispettire Marocco e allora, forse poco prima di arrendersi del tutto, ci prova con le buone, con la dolcezza, facendosi piccolo e mettendosi in un angolo. Mi piace molto, il padre, perché io non ho figli e averli è una cosa che mi spaventa moltissimo. Perché ovviamente c’è un vuoto di comunicazione, necessariamente, delle zone d’ombra e non è semplice capire quando agire con una sgridata a brutto muso e quando con la gentilezza e, soprattutto, quale azione genererà la reazione attesa. Inoltre, il padre di Marocco lavora sempre e Marocco è lasciato, spesso, a se stesso. Capita di leggere di famiglie e genitori assenti e così via. Tutti, in questi casi, in un primo momento, giudichiamo i genitori e li condanniamo, quasi fisiologicamente. Però la cosa bella del leggere, e anche dello scrivere, è che conosciamo meglio noi stessi attraverso e grazie il vissuto degli altri, risparmiandoci degli errori, reali, grazie al vissuto e all’esperienze, fantastiche, di qualcun altro. E mentre ne scrivevo non me la sono sentita di giudicare un padre che esce di casa alle sette del mattino e torna alle sette di sera e cresce, da solo, tra mille sforzi, un figlio che è nel pieno della sua adolescenza. Al suo posto, nelle sue condizioni, se fossi stato il padre di Marocco sarei stato molto spaventato e il padre di Marocco è molto spaventato.

Il calcio. Per me il calcio non ha un ruolo così importante. È una delle cose che Marocco fa nel corso delle sue giornate ma, ad esempio, non ci parla mai dei suoi calciatori preferiti e quindi mi viene da pensare che il calcio non sia altro che un passatempo. Un modo per socializzare, forse, ma in maniera abbastanza incompiuta. E le pagine sul calcio, poi, non sono così tante. Forse il calcio riconferma la funzione che aveva in “Napoli mon amour”, che rendeva Amoresano ancora più alieno, perché non condivideva le idee di nessuno e nessuno condivideva le sue. Trovo molto più importante, invece, nelle giornate di Marocco, e per descrivere i suoi orizzonti, questa pulsione o curiosità verso il paranormale, cioè verso un mondo che non sappiamo se esiste e dove esiste. Un mondo che lui immagina soltanto, e che potrebbe essere una via di fuga. O la meta finale. Cioè, il castello dove rinchiudersi. 

 

E poi ci sono le donne. Un trittico sconvolgente per Marocco: la madre, Maria Rosaria e Serena. Il primo amore, che non può essere che quello per la madre; la prima infatuazione, quella che brucia e fa male; la prima relazione, quella che inevitabilmente ci cambia la vita.
Io credo che raramente l’amore sia stato declinato con tanta autentica dolcezza e complessità.
Un amore fatto di prime volte, che si accendono nel mistero della novità e del desiderato, per scoprire che la seconda volta è meglio, perché allo stupore della realizzazione di un desiderio a lungo covato subentra la consapevolezza del già vissuto e il gusto di sapere come comportarsi.
Possiamo dire che sono le donne l’ancora di salvezza di Marocco? E che l’amore è ciò che lo trattiene, e in un certo senso lo difende, dalla deriva in cui potrebbe cadere?
Perché se in “Giovanissimi” tu racconti anche le vite cadute, quella di Marocco è una vita che si salva? O non ha significato “la salvezza” nella sua storia?

Alessio ForgioneLe tre donne del romanzo, la madre, Maria Rosaria e Serena, hanno tre funzioni diverse; partecipano all’amore, l’amore che Marocco può provare, ma diversamente tra loro.

La madre è la fine dell’amore. Maria Rosaria è l’incompiutezza. Serena, invece, è l’amore vero e proprio, e quindi è la più pericolosa. Per certi versi descrivono lo stesso oggetto o avvenimento, ma da un’angolazione diversa. 

Una lettrice di “Giovanissimi” mi ha detto che la cosa che più l’è piaciuta del romanzo è che le donne non sono vittime o parte della storia, ma compiono la storia, perché la indirizzano, la spostano, la deviano e la portano su altri binari. Mi piace molto questa cosa, perché non sono quel tipo di persona che calcola al millimetro quello che andrà a scrivere o cosa i personaggi faranno. Li lascio liberi e loro fanno un po’ quel che vogliono e quello che si sentono di fare. E quindi mi piace che questa forza delle donne che ho descritto, di cui mi hanno detto e di cui voglio godere, si sia sviluppata in maniera del tutto spontanea. E mi piace perché la trovo giusta: le nostre vite vengono modificate dall’altro, donna o uomo, ma comunque sempre persone, quasi mai altro, cioè altro da me.

L’amore di Serena e l’amore che Marocco prova per Serena sono di certo la sua salvezza. Lo svelano a se stesso: non è più il ragazzino che cerca di essere duro perché vede gli altri fare i duri, ma il ragazzino che vuole essere felice e amare e ridere e fregarsene e stare bene e scoprire, il mondo e la sua ragazza, metaforicamente e non solo. Serena per me salva Marocco. Serena gli mostra il mondo. Serena gli insegna a leggere. Io mi ricordo che da bambino, in macchina con mio padre, provavo uno stupore incredibile dopo che imparai a leggere, perché passavamo per gli stessi posti di sempre e leggevo le insegne e lì c’era una ferramenta e dopo una salumeria e poi un negozio di scarpe e prima, prima d’imparare a leggere, quei negozi non erano davvero quello che erano, perché erano solo negozi, generici negozi. E Serena gli fa vedere il mondo e gli insegna il nome delle cose. Lo rende un individuo. Lo rende una persona. Lo rende la persona che è.

L’ho scritta io, e forse è un po’ stupido dirlo, ma la loro storia d’amore mi emoziona molto. E per tornare alla tua domanda, non so se Marocco si salverà. Però, di certo, ha vissuto. Quindi, non importa.

 

Lasciami credere che si salverà, e anche che diventerà un calciatore famoso, o forse no, mi basta che in qualche modo la madre possa ricevere sue notizie e farsi tornare la voglia di stare con lui.

Per chiudere questa nostra chiacchierata, per la quale ti sono grata, riconoscente e ammirata, nonostante ancora infinite domande potrei e vorrei farti su “Giovanissimi”, che ha una profondità di visione e uno spessore di immaginario come poche e rare volte accade al secondo romanzo, mi unisco alla voce di Ernesto Ferrero per darti il “benvenuto nella categoria dei veri scrittori”.

Che cosa si prova a essere diventato uno scrittore?

Alessio ForgioneLe parole di Ernesto Ferrero, ovviamente, mi danno un grande piacere. Però scrivere è la sola cosa che ho desiderato fare, fin da quando ero solo un bambino, e l’ho caricata di così tanti aspetti e aspettative, non mondane, ma proprio riguardanti lo scrivere in sé, che non sento di aver raggiunto qualcosa. Anzi, mi sembra di dover ancora scalare tutto e più volte. Mi sento più uno che scrive che uno scrittore. Uno che si sta studiando e non uno pronto a spiegarsi. Quindi la risposta, come spesso mi accade, è “non lo so”. Vado avanti, procedo, verso dove non so, però procedo. Sono sempre andato troppo male in matematica per fare dei bilanci e non comincerò ora. Quel che spero è di aver sempre la giusta sincerità per scrivere come penso che si debba scrivere. E con questo ti rispondo riguardo il Marocco del futuro. 

Chi è diventato, come ti dicevo prima, lo sappiamo da una pagina della prima parte di “Napoli mon amour”, e cioè un adulto in cerca di lavoro, che vive ancora col padre e parla del Napoli bevendo birra. Ma non sappiamo nulla della sua reale identità. Non sappiamo cosa prova e cosa c’è dentro di lui, ma possiamo ipotizzarlo grazie a “Giovanissimi”. E questa cosa mi piace. Aver detto ma non aver detto tutto, lasciando un margine dove entriamo tutti e controlliamo e ci facciamo una nostra idea. Perché tutti noi siamo così: in aggiornamento e in parte indecifrabili. Visibili eppure insondabili. Siamo in divenire. Non ci fermiamo mai. E dunque sono costretto a risponderti ancora con un “non lo so” e questa cosa del non sapere mai è la cosa brutta ma anche la cosa che rende affascinante la vita. Di certo la vita ci intrattiene. Senza saremmo molto annoiati.

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Alessio Forgione
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