di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo"
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

 

Quelli che vogliono capirci qualcosa

A&A

Una libreria di progetto deve saper osare e sperimentare. Quante volte lo abbiamo scritto e detto? Domanda retorica… ma una libreria di progetto si deve anche interrogare, percorrere strade nuove, aprirsi a nuovi scenari e a nuove possibilità. In questi primi giorni di febbraio ci siamo dedicati, proprio, a voler approfondire quello che accade intorno a noi, non solo in letteratura.
Tra nuovi contenuti in narrativa e nuovi immaginari in movimento, ci siamo interrogati in libreria su cosa sta accadendo, sabato 8 febbraio, con Matteo Meschiari e Antonio Vena e Luca Pantarotto. Ci siamo focalizzati sul Romanzo dell’Antropocene e sul progetto #TINA, ideato da Matteo Meschiari e Antonio Vena, un esperimento per creare fattivamente un romanzo diffuso dell’Antropocene.
Una libreria che vuol essere laboratorio di sperimentazione ha affrontato tutti questi interessanti argomenti a partire dalla presentazione del piccolo saggio scritto dall’antropologo Matteo Meschiari, “La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso”(Armillaria edizioni).
Durante la serata, a Editori ed Editoriali presenti, è stato consegnato il file di Tina 1, ANTROPOCENE DECADENCE.
Nella vivace e animata discussione è stato fatto capire che tra le molte forme possibili di scrittura, il romanzo è forse lo strumento più adatto per misurare la temperatura dei tempi e per partecipare a una discussione politica sempre più urgente. Per i ragazzi che aderiscono al progetto TINA il futuro è il “romanzo diffuso dell’Antropocene”, cioè l’incontro di voci e scritture che sono consapevoli del fatto che il collasso climatico trasformerà tutto, non solo ambiente, società ed economia, ma anche il mondo della cultura e del libro. Il romanzo diventa allora un osservatorio/laboratorio potenziale per capire il futuro della scrittura e il futuro della specie. Il Romanzo dell’Antropocene è una letteratura di segni, miti, spettri, demoni e cosmogonie, gli strumenti immaginifici che hanno permesso alla specie umana di superare sfide cognitive e climatiche.

In questo saggio, molto denso tra antropologia politica, teoria letteraria e pensiero militante, Matteo Meschiari racconta La grande estinzione e mette l’immaginazione al centro dell’agenda. Le vie già battute portano al collasso, occorre rifondare il nostro modo di raccontare la terra e deantropizzare le storie attraverso l’animismo e il pensare divergente. Il cammino ai tempi del collasso si muove in territori di cui, ne “La Grande Estinzione”, Matteo Meschiari dà le coordinate: verso il romanzo diffuso e verso il saggio globale.

In che modo l’immaginazione può salvarci concretamente dal collasso ambientale? Quali pratiche possiamo escogitare per riaccendere nell’uomo un immaginario atrofizzato? Qual è l’efficacia del pensiero utopico, delle narrazioni fantastiche, del romanzo di anticipazione? Che ruolo hanno gli scrittori e gli artisti? E la gente? L’Antropocene ha generato una svolta antropologica irreversibile, determinando la nascita di un nuovo immaginario collettivo. Al centro di tutto c’è la messa in discussione del posto dell’uomo nel cosmo. L’imminenza della catastrofe, lo spirito di allarme che i mutamenti ambientali portano con sé, il senso di sempre maggiore precarietà sociale stanno producendo una vasta narrazione cosmologica che abbiamo appena cominciato a mappare. Ma prima di escogitare delle nuove tecnologie di sopravvivenza, che cosa si può fare di concreto? Come hanno fatto i nostri antenati a resistere a condizioni di vita critiche? Che nesso c’è tra immaginario e resistenza? In un pamphlet a cavallo tra antropologia politica, teoria letteraria e pensiero militante, Matteo Meschiari articola un nuovo paradigma: fiction is action.

Matteo Meschiari è saggista e scrittore ed era la quinta volta che passava dai Diari, avendo presentato i suoi titoli più recenti: “Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci” (Exòrma Edizioni 2016), “Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica” (Armillaria 2017), “Appenninica” (Oèdipus Edizioni 2017), “Neghentopia” (Exòrma 2017), “Bambini. Un manifesto politico” (Armillaria 2018), “L’ora del mondo” (Hacca Edizioni 2019). Ci fa piacere segnalare la presenza massiccia dei suoi titoli tra i nostri scaffali, essendo Meschiari un antropologo e uno studioso di tutto rispetto e ci piace molto il suo approccio ai grandi temi del tempo che stiamo vivendo: l’Antropocene e le nuove geografie, i confini degli studi antropologici e il suo modo di raccontare l’ambiente.

A Novembre, ad esempio, è stato pubblicato per Milieu Edizioni nella collana Frontiere “Neogeografia. Per un nuovo immaginario terrestre”. In centocinquanta pagine riesce a tenere assieme paesaggi assai diversi concentrando mito, leggenda, poesia e letteratura di viaggio.

Che senso ha fare geografia oggi, in un’epoca in cui il globo è stato esplorato palmo a palmo e le mappe sono disegnate da satelliti e software? Che importanza ha inventarsi un’immagine della Terra in mezzo ai guasti del clima e della dissoluzione ambientale? Che cosa possono insegnare alla geografia contemporanea un racconto di mare in latino del X secolo, le antiche canzoni di gesta francesi, i diari di bordo del capitano Cartier, la Liguria di Montale, l’India di Moravia e Pasolini, la costa bretone di Kenneth White?
Neogeografia è un’esplorazione estrema che mira a un duplice cambio di paradigma: ripensare l’epistemologia della geografia e analizzare i testi come altrettanti lavoratori di paesaggio. Non semplice critica letteraria ma l’analisi di esercizi cognitivi complessi, i sondaggi spaziali di #homogeographicus che lasciano sempre traccia tra le parole del testo. E infine una riflessione sulle immagini e sull’immaginario, perché ogni resistenza culturale comincia da un futuro immaginato, da una prova di desiderio che funziona come alternativa allo status Quo. Neogeografia propone un ripensamento necessario nel metodo scientifico per restituire alla geografia, all’antropologia e alle scienze sociali la loro vocazione politica. Un manuale di resistenza dell’immaginario in cui la Terra e i suoi paesaggi sono la base per fare le siero critico e inventare nuove pratiche di libertà.

Sabato scorso a parlare di nuovi scenari e letteratura dell’Antropocene con Matteo Meschiari e Antonio Vena, c’era anche Luca Pantarotto.
Luca Pantarotto è autore del libro “Holden & company. Peripezie di letteratura americana”, pubblicato da Aguaplano Libri, nato sulla scia dell’omonimo e fortunato blog. Un interessantissimo viaggio nella letteratura americana, contornato da riflessioni originali sul valore di parole come “racconto” “intrattenimento”. Nato a Tortona, Luca lavora a Milano, dove si occupa della comunicazione digitale della casa editrice NN Editore. Bibliofilo incallito ha scritto numerosi articoli e recensioni per Minima & Moralia e Critica Letteraria.

La letteratura intrattiene, sostiene Michael Chabon. Insegna che non è mai troppo tardi, secondo Kent Haruf. Allontana la paura della morte nel momento stesso in cui ci lascia avvicinare abbastanza da accarezzarla, nelle parole di Stephen King. Cerca di contrastare, si augura Salinger, solitudine e smarrimento. Ogni nuova storia genera una nuova risposta, che a sua volta sembra riproporre la domanda: davvero serve a questo, la letteratura? E così via, nell’eterno ritorno del racconto. Per anni, dalle pagine digitali del suo blog Holden & Company, Luca Pantarotto ha raccontato le peripezie della letteratura americana contemporanea, dei suoi protagonisti e dei suoi critici, delle sue polemiche e della sua ricezione in Italia, riscuotendo un grande successo grazie a uno stile personalissimo e irriverente, acuto, appassionato. Questo libro raccoglie una selezione di quei testi – rivisti, ampliati e arricchiti da inediti – per offrire al lettore uno sguardo trasversale sul mito del Grande Romanzo Americano, sui libri consigliati per un primo approccio all’opera di Philip Roth, sui famigerati tweet di Bret Easton Ellis e sulle tante imprevedibili strade che attraversano gli USA e che possono condurre nel folle Drive-in di Joe Lansdale ma anche negli oscuri retrobottega della letteratura. O in cucina, a mettere sul fuoco il bollitore insieme a John Updike o a pelare patate con Truman Capote.

Tra gli scrittori che hanno aderito al progetto #Tina anche Stefano Trucco, autore de “Il Grande Bazar del XX Secolo”, da poco pubblicato per Aguaplano Libri nella collana Blaupause. Il libro ( con in copertina un’opera di Daniele Franzella, L’homme armé) è un romanzo spietato, agghiacciante e allo stesso tempo esilarante, che scandaglia le profondità dell’animo di un uomo e l’inconscio di un secolo della storia umana, che è apparentemente tradizionale e che invece è fusione di stili e livelli e piani temporali.

Stefano Trucco è nato nel 1962 a Genova, dove vive e lavora come bibliotecario – il lavoro che ha sempre sognato. Finora ha pubblicato il romanzo “Fight Night” (2014, Bompiani-RaiEri) e il racconto “1958. Una storia dell’Età Atomica” (2018, Intermezzi).

Anselmo Magnasco, giornalista, poeta e flâneur nella “zona grigia” della Genova repubblichina, attende senza particolari entusiasmi l’arrivo degli Alleati e la fine della guerra. Nel frattempo coltiva i suoi interessi: il cinema muto, i bordelli altolocati, le fantasie di suicidio e la sua stessa “intensa mediocrità”. Fino a quando, fra i carruggi e gli orridi palazzoni fascio-modernisti, si materializza una folla di personaggi allucinati e bizzarri che lo trascina senza scampo in un incubo metafisico e lovecraftiano. Originale punto di fusione fra romanzo storico, weird, pulp fiction e horror psicologico, Il gran bazar del XX secolo è un vertiginoso gioco di specchi, nel quale la ricerca d’archivio e la fedeltà alla cronaca dell’epoca deflagrano in un caleidoscopio di citazioni pop e cortocircuiti temporali.

Altra autrice che ha aderito a Tina è Silvia Bottani che proprio in questa settima ha esordita per SEM con questa novità di cui si è già tanto sentito parlare in questi mesi .

“Il giorno mangia la notte” è l’esordio di Silvia Bottani, un romanzo speciale che poi presenteremo anche ai Diari Sabato 18 Aprile. È una storia dura come possono essere dure le città del mondo in cui viviamo, con tutte le loro contraddizioni e mescolanze. È una storia d’amore ruvida e tenera, di disfatte e rivincite. È un meccanismo narrativo perfettamente costruito che dà voce a un coro di personaggi commoventi e indimenticabili. “Il giorno mangia la notte” vi prenderà a pugni, ma vi redimerà attraverso parole catartiche che non hanno dimenticato la furia e la maledizione della strada, i cui occhi, si sa, vedono tutto.

Milano, estate. Le vite di tre sconosciuti all’improvviso s’intrecciano l’una con l’altra a doppio filo. Sullo sfondo, scintillante e buia, vive una città in piena, inarrestabile trasformazione. Giorgio è un cinquantenne che soffre di gambling patologico. Ex pubblicitario rampante, oggi è un uomo cinico, cocainomane, dipendente dall’alcool e separato dalla moglie Marina, di cui è ancora profondamente innamorato; Naima, è una bella ragazza di venticinque anni, italiana di origine marocchina, che pratica la kick boxe e lavora come insegnante di sostegno in una scuola elementare; Stefano, figlio di Giorgio, è un ventottenne violento, praticante avvocato e militante neofascista.Una sera, braccato dai debiti e dai suoi più cupi fantasmi, Giorgio rapina una donna per strada. Lei cerca di resistere, lo insegue, grida, chiama aiuto, ma viene travolta accidentalmente da un’auto. La donna immobile sull’asfalto è la madre di Naima. Giorgio non sa, non può sapere, che il suo destino da qui in avanti sarà legato alle due donne. Per causa di suo figlio Stefano.Il giorno mangia la notte è il sorprendente esordio narrativo di Silvia Bottani, un romanzo speciale, di grande intensità e tenuta letteraria, e sempre molto, molto godibile.

Il martedì precedente ai Diari avevamo presentato il bel libro di Pietro Medioli “Viaggio d’estate ” ambientato nei territori della ex Jugoslavia. Nel libro molto spazio è dato alle tracce che la guerra dei Balcani ha disseminato. A dialogare con l’autore è stato il giornalista e scrittore Maurizio Chierici e Adele Mazzola.

Pietro Medioli è nato a Parma dove ha compiuto i suoi studi e durante gli anni novanta ha vissuto in Germania lavorando come aiuto regista nel teatro dell’Opera e firmando alcune regie. Nel 2000 torna a vivere in Italia e viene pubblicato il diario-racconto “Viaggio verso Gesualdo” (ed.La Camera Verde, Roma). Si è dedicato soprattutto al cinema documentario realizzando ad oggi 17 film.

Lubiana, Belgrado, la Drina, Sarajevo, la costa Dalmata… Pietro Medioli ci guida in un itinerario sulle strade, nei paesaggi e per le città dei vicini Balcani a una ventina d’anni dal termine della guerra civile che mise fine, tra massacri e distruzioni, al “progetto” della Jugoslavia.
Un percorso in solitaria fatto di vie secondarie, eventi minimi e tanti incontri, spesso casuali, talvolta sorprendenti. Alla ricerca di tracce culturali (Handke, Andric, il cinema…), di un senso del viaggiare contemporaneo e, modestamente, di una qualche ragione dell’esistere.

Per capire bene la frammentazione dei territori della ex Jugoslavia suggeriamo di leggere un libro molto particolare, pubblicato di recente dalla Voland di Daniela Di Sora dal titolo “Minuetto per chitarra”. Capolavoro della letteratura slovena del grande Vitomil Zupan nella traduzione di Patrizia Raveggi, accostato a classici americani come “Addio alle armi” e “Comma 22”, “Minuetto per chitarra” ci offre la possibilità di capire meglio la storia recente di genti a noi geograficamente vicine.

Due tempi storici, due narrazioni si intrecciano in questo splendido romanzo. Gli anni della guerriglia slovena contro l’occupante tedesco, la resistenza in montagna, la disparità delle forze e degli armamenti in campo, il terribile 1941 che vede la frammentazione della Jugoslavia. E a controcanto una vacanza negli anni ’70 in Spagna, dove Berk, lo sfrontato e inquieto partigiano che narra in prima persona, incontra Joseph Bitter, il nemico tedesco di un tempo che aveva combattuto anche in Slovenia. Un racconto complesso e mai consolatorio sulla guerra, due personaggi principali, quello del partigiano senza macchia e del nemico senza cuore, che escono dagli stereotipi.

Tra i libri che meglio raccontano una generazione in fuga dai Balcani martoriati dalla guerra un posto a parte merita “Il posto perfetto per l’infelicità” di Damir Karakaš nella traduzione di Elisa Copetti, pubblicato da Nutrimenti edizioni.

Un giovane scrittore croato si trasferisce a Parigi con l’ambizione di trovare un editore che possa dargli fama internazionale. Sotto il braccio ha il suo ultimo manoscritto: Il posto perfetto per l’infelicità. Per sbarcare il lunario disegna caricature ai turisti nella piazza davanti al Beaubourg, cercando di farsi largo tra bande di disegnatori di ogni nazionalità. A causa di un suo tradimento è stato cacciato di casa dalla donna con cui era venuto a Parigi, e adesso condivide un appartamento fatiscente con altri immigrati dell’Europa dell’Est. Questa è la sua vita di straniero a caccia di fortuna: disegna in strada, cerca un editore, passa da un’avventura all’altra senza troppo coinvolgimento. Ogni volta che l’occasione sembra dietro l’angolo, è soltanto l’ennesima illusione. In un crescente disincanto, l’entusiasmo dei primi tempi lascia lentamente il posto alla frustrazione. Servirà un esito rocambolesco a metterlo di fronte a un’amara constatazione: forse Parigi non era la terra promessa che sperava.Con scrittura viva e originale, Damir Karakaš racconta il fallimento di una generazione di giovani che, in fuga dai Balcani martoriati dalla guerra, hanno cercato un futuro nei paesi occidentali uscendone sconfitti. Un intenso romanzo delle illusioni perdute, che restituisce anche un ritratto inedito, a tratti scomodo, di un’Europa in cui è sempre più difficile essere integrati e accolti. Karakaš descrive la vita degli immigrati, i nuovi ‘miserabili’ venuti dai quattro angoli del mondo, alle prese con la povertà, la legge del più forte, la criminalità. Alla ricerca della loro parte di felicità. Il tutto descritto con un’energia impetuosa, immagini forti, frasi brevi, espressive e coinvolgenti, e uno sguardo penetrante e acuto sulla realtà”.

Damir Karakaš è stato reporter di guerra in Croazia, Bosnia e Kosovo. Ha vissuto per cinque anni a Parigi, dove si è mantenuto suonando la fisarmonica. Nel 2000 ha pubblicato il suo primo romanzo, Kombëtari, seguito dalla raccolta di racconti Kino Lika, che lo ha fatto conoscere nell’ambiente letterario balcanico e da cui è stato tratto anche un film. I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi.

Nello Zaino di Antonello: Quelli che vogliono capirci qualcosa