Arcavacata

Dove ci siamo incontrati? Non me lo ricordo più. Ci siamo incontrati in un’aula del Polifunzionale di Arcavacata, in un centro di recupero per le dipendenze, in un seminario sulla memoria e sulla shoah, in una casa famiglia per bambini vittime di abusi sessuali, in un’osteria che non paga il pizzo, in uno dei mille posti qualunque dove questo paese continua a respirare. Magari in silenzio, magari a  fatica, ma ce la fa. E anche questo è un mistero, un bel mistero.

E di misteri se ne intendono i Lou Palanca con i quali mi accingo a chiacchierare del nuovo romanzo, “Mistero al cubo” sempre per Rubbettino come i precedenti.

Il primo libro non si scorda mai e “Ti ho vista che ridevi” rimane ancora fortemente il libro dei Lou Palanca che più mi appartiene (QUI la nostra prima chiacchierata), ma finora non hanno mai deluso le mie aspettative che nei loro confronti sono sempre molto alte.

Mistero al cubo LouContinuo ad ammirare il modo di mescolare temi politici e sociali con quelli storici all’interno di un ritmo narrativo molto romanzesco, che è un pregio di godibilità e piacere di lettura, e sono grata dello storytelling che stanno intessendo sulla Calabria, con la furia di tutti i luoghi marginali non per vocazione di entrare nella storia (penso ai fatti di Reggio del precedente romanzo, “A schema libero”) e nella modernità (questo attuale con il progetto di Arcavacata di cui non sapevo nulla e che il libro mi ha fatto venire voglia di visitare).

Con “Mistero al cubo” la geometria variabile dei Lou Palanca si modifica, quelli che rimangono inalterati mi sembrano le due caratteristiche fondamentali del vostro scrivere collettivo: l’ambientazione in Calabria e l’attenzione alla Storia, nelle sue mille sfaccettature: sociali, politiche, ideologiche, di temperie culturale e di anelito alla modernità.
L’angolo di visuale è quello calabrese, con tutta la ricchezza di una regione bagnata dal mare e nello stesso tempo definita dalle montagne.
Con l’ultimo romanzo ci muoviamo tra i cubi di Arcavacata, quasi un sogno americano trapiantato nel lembo estremo della penisola italiana.
In che modo la geometria, triangolare in questo caso, vi ha portato tra i cubi di UniCal?

RISPOSTA: Se ci è sufficientemente chiaro il processo che ci porta a scartare, o anche solo a rinviare, un progetto, a dire il vero non abbiamo ancora compreso come e quando ci innamoriamo di una storia e decidiamo di partire verso un nuovo libro. A guardare indietro, la scelta di ambientare il nostro ultimo romanzo tra le aule dell’Università della Calabria appare quasi scontata, ma così in realtà non è stato perché le prime pagine di Mistero al cubo  risalgono ad almeno 6 anni e tre libri fa.

Ma è proprio come dici tu: c’è una continuità evidente in tutto quello che abbiamo fatto fin qui. Lo potremmo riassumere nella volontà di raccontare il presente calabrese, intendendo con questa definizione gli ultimi cinquant’anni di questa terra, il suo controverso approdo alla modernizzazione, il grumo di occasioni sprecate, distorte, rattrappite che ha condotto la nostra regione da quel che poteva essere a quel che è. Arcavacata, prima università in Calabria, primo campus in Italia, primo ateneo a trazione scientifica, primo luogo di sperimentazione di democrazia accademica e internazionalizzazione della didattica e della ricerca è una delle poche utopie che si sono concretizzate in Calabria, ma è anche una visione poderosa e ambiziosa – formare la classe dirigente che avrebbe cambiato per sempre la storia di questi luoghi – che si è lentamente trasformata in una normale università meridionale. Ecco, noi raccontiamo quel che resta intorno ad un grande sogno quando esso finisce.

 

In “Avvertenze e ringraziamenti” specificate che è il vostro primo giallo.

Dopo “Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta” che nel 2012 vi ha fatto conoscere dai lettori; dopo “Ti ho vista che ridevi” per il quale tanti lettori vi hanno amato, me compresa (per questo libro i Lou Palanca hanno scritto anche i Dieci Buoni Motivi per NON leggerlo QUI); dopo “A schema libero”, un thriller accattivante dalle movenze cinematografiche (anche per questo romanzo i Lou Palanca si sono prestati ai Dieci Buoni Motivi QUI, oltre a chiacchierarne con me QUI), approdate a un giallo, atipico come tutti i generi che avete attraversato. Approdo quasi scontato se non necessario, perché in tutti i romanzi c’è sempre un’indagine e un mistero da svelare, o quanto meno da cercare di sbrogliare: la morte di Silipo, le origini di Luigi, le trame tra neofascismo ‘ndragheta e politica, per finire con la morte del prof. De Vitis. 

È un elemento che nasconde una visione della realtà o soltanto l’espediente narrativo con cui vi sentite più a vostro agio?

RISPOSTA: Il rapporto con i lettori, e con i librai, ha fortemente orientato le nostre scelte. È come se avessimo stipulato un patto tacito con chi ci segue, fondato sull’impegno a continuare a cercare storie dimenticate e forme nuove per raccontarle. La scelta di cimentarci con un giallo, in fondo, nasce anche da qui.

Quanto al resto, dobbiamo ammettere che la tua domanda ci coglie un po’ di sorpresa. Potremmo cavarcela ricordando che abbiamo sperimentato anche una parentesi “giocosa” con il romanzobreve/raccontolungo pubblicato con Slow Food Editore (“Il morzello di Nancy Harena), nel quale non c’erano misteri da scoprire, ma tavole da imbandire e vite da riempire di senso, che costituiscono una angolazione fondamentale della nostra visione della realtà. Ma forse i misteri – ogni tipo di mistero – esigono un tentativo di spiegazione e quel tentativo può costituire una buona infrastruttura narrativa. In “A schema libero” questo è plasticamente rappresentato dalla risoluzione progressiva del cruciverba. Se vogliamo spingerci ancora oltre, potremmo aggiungere che ogni narrazione poi alla fine è una scoperta, un’invenzione: si trovano le storie erodendo con le parole la corteccia delle possibilità e del cuore misterioso che nascondono. Insomma, dopo un lungo consulto tra tutti i componenti del collettivo, la nostra risposta è più nel senso che si tratti di un espediente narrativo.

 

Con i piedi di piombo, mi inoltro nella trama di “Mistero al cubo”. Il professor De Vitis, ordinario di diritto comparato, viene trovato morto nel suo studio, al blocco 12C del campus universitario. A dare la notizia ai lettori, Edoardo Sansinato, l’essere più mattiniero del dipartimento, che pur non essendo autorizzato ha le chiavi della porta tagliafuoco per insindacabile volere del suo Maestro, De Vitis appunto. La scena lo coglie di sorpresa: “il professore riverso senza vita sulla poltrona, con il monitor acceso, con la pipa sul tavolo, ma nudo, completamente nudo. E senza che da nessuna parte ci sia traccia dei suoi inseparabili occhiali”.

Il collegamento con la morte del collega milanese Castello, avvenuta due mesi prima alla Statale, è immediato nella mente di Sansinato. Che sia una traccia da seguire?

A lui fanno seguito le altre voci del romanzo: Umberto Gironda, il commissario che dovrà rinunciare, non senza un certo sollievo, alla tradizionale settimana bianca con la famiglia a Roccaraso, per seguire il caso insieme alla dottoressa Musso, situazione che non gli dispiace affatto; Gianfranco Ferretti, l’anarchico tesista che teme da subito di essere un facile e prevedibile indiziato, come di fatto finisce per accadere; Giusy Varrà, la spregiudicata allieva del prof. De Vitis in attesa di concorso da ricercatore che spera di vincere in virtù e per merito della sua relazione, dispari e impari, con il Maestro; infine Giulio Badiani, in attesa di un posto da professore: le sue velleità saranno favorite o affossate dalla morte del suo mentore?

Dopo la prima ricognizione a caldo sull’omicidio, in prima persona e in presa diretta da ogni singolo personaggio, la narrazione segue un rigoroso andamento cronologico, dal venerdì 18 dicembre (casualmente o forse no, il giorno in cui ho iniziato a leggere il romanzo) a giovedì 31 dicembre (giorno in cui mi sono divertita a portarne a termine la lettura) in cui alla narrazione in terza persona si alterna quella in prima di tutti i personaggi che girano intorno alla morte del docente, nessuno escluso, persino lo stesso morto ammazzato, Lorenzo De Vitis.

Anche in questo siete maestri. La polifonia di voci contraddistingue la vostra maniera di narrare e aderisce tenacemente a ciò che siete. 

Come avete fatto funzionare l’alternanza? E la narrazione in terza persona a quale necessità è legata? è più facile far funzionare il collettivo in prima o in terza? Come ciascuno di voi interagisce con i personaggi del romanzo? Appartengono tutti a tutti voi o invece ci sono delle proprietà e delle filiazioni tra determinati personaggi e ciascuno dei Lou Palanca?

RISPOSTA: Ci conosciamo da un numero imprecisato di anni e  per ragioni estranee alla scrittura. Prima che iniziasse l’avventura del collettivo abbiamo condiviso diverse esperienze e un numero imprecisabile di serate passate a chiacchierare davanti ad un bicchiere di vino. Questa sintonia allenata negli anni ha guidato e guida tutta l’esperienza dei Lou Palanca.

L’alternanza, come dici tu, è probabilmente lo scoglio più difficile da superare nella scrittura collettiva. Il rischio di un andamento ondivago è sempre dietro l’angolo. Ma possiamo sinceramente affermare che, nonostante ciascuno di noi sia caratterizzato da uno stile alquanto personale, alternanza, mescolamento e stile non hanno mai generato difficoltà speciali. Insieme pensiamo all’evoluzione della storia da raccontare e il confronto è quasi quotidiano. Ogni singolo tassello del romanzo è condiviso e revisionato da tutti in modo da rendere la scrittura omogenea, o comunque  il più possibile omogenea. Si sceglie fin dall’inizio a chi affidare i singoli personaggi a seconda delle attitudini di scrittura di ciascuno di noi e al ruolo del personaggio. La “mano” del singolo Lou è forse maggiormente evidente nella narrazione in prima persona. Lì è più facile intuire la sensibilità di ciascuno di noi. Ma alterniamo debitamente prima e terza persona proprio per evitare il rischio di eccessivo personalismo.

Certo, la prima persona consente un’introspezione e una sincerità precluse alla terza persona e per la nostra scrittura, votata alla descrizione dell’aspetto umano e sociologico, è scontato utilizzarla con una certa frequenza, ma il collettivo non funziona in prima né in terza. Anzi, ad un certo punto abbiamo pensato ad un capitolo in seconda persona: una sfilza di domande che il morto poneva ad una figura con la quale costruiva un dialogo interiore e di cui è rimasta traccia nella narrazione. Il collettivo produce, sceglie, manipola e aggiusta: è artigianato letterario nel quale cerchiamo di ricavare dalla storia l’angolazione denotativa più calzante, ma senza perdere di vista la connotazione che essa comunque evoca.

I personaggi, in questo romanzo, sono tutti frutto della nostra fantasia, a parte Giusy Varrà – giovane donna attraente e senza troppi scrupoli – suggeritaci dall’esperienza di un nostro caro amico magistrato che nel suo lavoro aveva avuto modo di imbattersi in una imputata con quelle caratteristiche. Li abbiamo ripartiti per affinità, simpatie, esigenze narrative ma come sempre non sono mancate incursioni, commistioni, sovrapposizioni. Pertanto alla fine in alcuni personaggi è presente l’immaginazione e la scrittura di qualcuno di noi più degli altri, ma certamente non esistono proprietà e filiazioni tra determinati personaggi e ciascuno dei Lou Palanca: in alcune parti del romanzo non saremmo più in grado di dire chi ha scritto cosa. Ha scritto Lou, in quanto tale.

 

Non posso, e non voglio, svelare molto della trama, per non rischiare di far trapelare elementi narrativi e snodi che il lettore non dovrebbe conoscere in anticipo. 

Nell’enumerazione dei personaggi ho tralasciato Giorgia Peluso, la compagna di Giusy Varrà, che per tutto il romanzo rimane in sordina, esclusa dalla scena del delitto, appena accennata nelle parole e nei timori di Giusy. Eppure è a lei che affidate la conclusione del romanzo, con un tono di grande consapevolezza, anche se venato da un pizzico di rassegnazione:

Il mio futuro si accartocciava insieme a quei coriandoli, non ho inteso proseguire gli studi, né inseguire chissà quale miraggio lavorativo, mi sono accontentata subito, come mi rimprovera ogni tanto Giusy, e non ne sono pentita. quella che qualcuno chiama rinuncia è solo la scelta di un’altra strada, meno battuta e forse meno affascinante per la mia generazione, ma usuale per la razza Peluso. Si può volare anche a bassa quota, si possono riempire le giornate e il cuore e l’orizzonte ottico anche senza un programma, che non sia vivere. Vivere insieme a chi si ama. Siamo gente semplice, abituata a farsi bastare le cose.

Una scelta in parte simile a quella di un altro personaggio femminile: la figlia del commissario. 

La scelta di Giorgia è un mistero tra i cubi di Arcavacata, l’esito o la contraddizione di quel “pezzo di America piantato nella campagna calabrese”? La sua è una voce fuori dal coro, che porta al “dove tutto finisce”: perché proprio lei?

RISPOSTA: I nostri personaggi sono sempre la voce di un punto di vista, di un modo di stare dentro al mondo. De Vitis racconta la grande utopia, Sansinato la disillusione post-Gelmini, Ferretti è il manifesto di quel che resta della cultura dei contropoteri, Badiani sussurra la difficoltà del mondo accademico di riprodurre gli schemi consolidati del Maestro e dell’allievo in un contesto che non è più mobile e certo. Le donne di “Mistero al Cubo” sono tutte consapevoli, determinate, dure, forse addirittura con un tratto di amoralità ancora più marcato degli altri protagonisti. Sono tutte abituate a compiere qualcosa che non si dovrebbe senza per questo rinunciare alla normalità.

Capita a molti giovani studenti universitari di precipitare improvvisamente nell’età adulta e di avvertire la presenza dei genitori come un intralcio. Nadia, la figlia del commissario, ci ricorda cosa può accadere quando invece la presenza della famiglia si trasforma in una trappola e le scelte si compiono non a prescindere ma contro (e di più, proprio non possiamo dire …), mentre Giorgia è un personaggio a cui siamo molto legati. Abbiamo deciso di farla parlare solo dopo aver concluso la prima stesura del romanzo, ma appunto serviva qualcuno che ricordasse ai lettori la forza struggente dei sacrifici delle famiglie umili e povere che hanno fatto studiare i propri figli e la consapevolezza che alla fine delle storie c’è sempre qualcuno che resta, che incolla i cocci e che soffia nella vita che ricomincia. E questo ruolo, molto spesso, tocca alle donne. Alle donne silenziose come Giorgia.

 

Un giallo atipico, si legge nella quarta di copertina. Atipico perché corale, che è una delle caratteristiche predominanti di Lou Palanca. Il commissario Umberto Gironda e il magistrato Angela Musso sono due dei tanti personaggi (e voci narranti come abbiamo spiegato) di “Mistero al cubo”. Nessun protagonismo per loro né le luci della ribalta. Anzi si fermano nella mente e nel cuore del lettore per la loro umanità di personaggi, più che per il loro ruolo nell’indagine. Persi come sono più nelle loro vicende private e intime, che non nei meandri dell’indagine, che è soprattutto il contesto e il movente per l’intreccio della loro relazione.

Forse non è proprio questa l’originalità di “Mistero al cubo”? L’innesto della coralità all’interno di un genere in cui il protagonista è ben marcato e definito per “regola” narrativa.

Un’innovazione spontanea e casuale o voluta e ricercata?

RISPOSTA: “Mistero al cubo” nasce da un racconto breve che avevamo scritto già 8 anni fa, articolato su 5 voci narranti (che abbiamo ripreso nei personaggi principali, compreso il commissario). L’innesto della figura del magistrato e l’intreccio della sua vicenda personale con quella del commissario sono stati invece una delle chiavi di sviluppo del racconto nel romanzo. Dunque, per rispondere alla tua domanda, l’innovazione è in parte voluta, perché volevamo mantenere la caratteristica dell’impianto corale, che è forse la principale della nostra scrittura, ed in parte spontanea perché non sapremmo scrivere altrimenti. Il giallo poi è atipico perché l’indagine e la sua soluzione finale sono prevalentemente il pretesto per raccontare la storia cinquantennale dell’Università della Calabria, che non fa solo da sfondo, anzi forse fa proprio da protagonista principale.

Chiacchierando (per la terza volta) con… Lou Palanca
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