Treno di notte

A bordo di un treno, uno di quei treni che viaggiavano di notte e parevano infiniti nel buio. Una conversazione notturna su un treno.

Che ne dici?

Breve storia del mio silenzioChi ha letto (e i tanti che leggeranno, spero, invogliati da questa nostra chiacchierata) “Breve storia del mio silenzio” (Marsilio) capirà l’importanza che i treni, e i viaggi in treno, segnano nel romanzo e nella traccia letteraria che solcano. Quindi salite a bordo con me e Giuseppe Lupo, pronti a questo entusiasmante “viaggio nella notte”.

Se con il romanzo precedente “Gli anni del nostro incanto”, sempre per Marsilio, come tutti i libri di Giuseppe Lupo, (QUI la mia lettura del romanzo) ripiegavi la storia nel cassetto profumato della memoria, affidandola ai lettori, e nella mia percezione in particolare alle nuove generazioni, perché conoscessero il secondo Novecento nelle pieghe più intime delle vite vissute, con il nuovo “Breve storia del mio silenzio” stendi i panni della memoria per farli respirare e riprendere vitalità, perché possano sventolare al vento della rievocazione non più storica, o non soltanto storica, ma letteraria e culturale con quello sguardo intimo e privato, unito al potere e alla potenza di farsi universale e generale, che tanto ti contraddistingue.

C’è uno spartiacque segnato da “Gli anni del nostro incanto” all’interno della tua produzione narrativa, feconda e ricca di premi e riconoscimenti, che trova il suo culmine nel nuovo romanzo? Perché io da lettrice, ammirata e costante della tua opera (QUI il link al nostro primo Chiacchierando), noto un sottile file conduttore che dalla Milano, molto amata, di “Gli anni del nostro incanto” porta direttamente alla Milano di “Breve storia del mio silenzio”, letteraria e vissuta, strettamente ancorata e incistata nel legame culturale con la Lucania, sia attraverso la figura del padre, maestro e intellettuale di grande spessore e fiuto, che quella di Leonardo Sinisgalli, di cui il protagonista cerca le tracce e segue le orme dalla Lucania alla Lombardia come terra di adozione e vocazione che mantiene sempre viva e vitale il nesso e il legame con quella d’origine. 

Giuseppe LupoC’è un elemento che è il filo rosso tra “Gli anni del nostro incanto” e “Breve storia del mio silenzio”: gli aggettivi del titolo. Milano è la città che diventa testimone, nel primo caso, di un incanto che è “nostro”, cioè comune, nazionale e, nel secondo caso, di un silenzio che è “mio”, personale, individuale. Sotto questo aspetto è vero quando parli di panni tirati chiusi nelle cassettiere e di panni tirati fuori dalle cassettiere. Una stessa città che si fa palcoscenico per due narrazioni parallele. Prima ho raccontato la modernità che si manifestava attraverso gli elettrodomestici, le automobili e le motociclette, i segni del progresso tecnologico. Adesso racconto la modernità che si manifesta attraverso la cultura, i libri, i giornali, le case editrici, la scuola. Il moderno non è mai lo stesso, il moderno assume sempre forme diverse. In fondo, quando il racconto arriva a Milano, “Breve storia del mio silenzio” sbuca in “Gli anni del nostro incanto” (che non a caso si ambientava negli anni Ottanta).

 

Non avevo notato la simmetria mirabile dei titoli (e un po’ da filologa mi rodo le mani!).

Il silenzio del titolo è un vaticinio per il protagonista, come è messo in risalto dall’esergo di Elias Canetti: Chi ha troppe parole non può che essere solo.

Il silenzio sarà la chiave per aprire le porte della scrittura, dopo aver sperimentato la forza e l’incanto delle parole, attraverso la loro mancanza:

quel giorno, il giorno in cui Gesù ha ascoltato le mie preghiere, le parole si fanno nemiche e io inizio a provare il loro male, che è una specie di voragine di cui non si vede il fondo. La storia del mio silenzio incomincia così.

La tua scrittura ha la capacità di fermare i gesti, e di sublimarli caricandoli di senso, come nello splendido incipit:

Ho quattro anni e vedo mia madre in cima alla scala, che lucida il lampadario d’ottone. Strofina con l’ovatta imbevuta di Sidol, ma lo fa con troppa calma per essere la vigilia di Natale. È in ritardo sulle pulizie, come sempre. Quel tempo non va sprecato. Mio padre gironzola intorno e non muove un dito. Guarda, contempla, misura a occhio. In questo disordine sento dire: “Fra poco avremo sorellina”.

Il pragmatismo della madre e la speculazione intellettuale del padre, vissuti nel nucleo intimo e familiare della casa (i luoghi sia interni che esterni conservano nella tua scrittura una valenza importante: questo probabilmente è un segno fondamentale di continuità tra i tuoi romanzi).

“Breve storia del mio silenzio” è un’autobiografia intellettuale che passa attraverso l’omaggio ai tuoi genitori, come evidenzia la dedica: ai miei genitori, i primi maestri, e a tutti gli altri che lo sono stati? in che modo i tuoi genitori sono rappresentativi di una Lucania colta, aperta, interessata e curiosa, che finora non ha trovato uno spazio letterario e una narrazione romanzesca?

Perché a me pare che “Breve storia del mio silenzio” riempia un vuoto nella narrazione di sé che gli scrittori lucani hanno proposto della loro terra.

Giuseppe LupoLa Lucania è stata raccontata spesso attraverso alcuni stereotipi, primi fra tutti la civiltà contadina e il suo contrario. Io non ho vissuto la Lucania dei contadini. La Lucania che io ho vissuto fino a 18 anni, cioè fino a quando non sono partito per Milano, è una terra ancora premoderna ma che ha tutto il desiderio di varcare la soglia della modernità. In più aggiungo che la Lucania vissuta e filtrata attraverso la mia famiglia ha molto a che vedere con il movimento di uomini e di libri e di idee che negli anni Sessanta e Settanta è stato particolarmente attivo. Da qui discende questo mio romanzo. È sbagliato pensare che in Lucania non sia esistito un dibattito intellettuale parallelo al tentativo di varcare la soglia del moderno compiuto dai nostri emigranti, anzi questo dibattito riguardava proprio il destino di questa gente che andava via e di come la Lucania dovesse trovare una strada per impedire a questa gente di andar via. All’interno di questo panorama si colloca la storia della mia famiglia, in particolar modo di mio padre, che è stata una presenza lucida nel dibattito e forse anche originale, avendo scommesso gran parte delle sue energie sui temi della cultura come strumento di riscatto umano e sociale. Credo che questo libro possa aggiungere un tassello all’immagine di Lucania che tra gli anni Sessanta e Settanta tenta la strada del cambiamento. L’aver dedicato ai miei genitori il libro è anche un segno attraverso cui io cerco di dichiarare che esiste una chiave di lettura concreta a chi afferma solo la civiltà contadina o a chi la nega.

 

Il libro cadeva in una stagione precisa della mia vita. Conoscevo ancora poco di Milano e cercavo la strada del ritorno verso casa, come i Persiani. Il sospetto che non si fossero persi a caso, che Senofonte avesse approfittato del buio per infilarsi in una delle rotte parallele che ognuno di noi sente di avere, fu come una rivelazione. Smarrire il tempo per guadagnare l’eternità: questo pensavo quando mi sentivo incapace di affrontare ciò che stava fuori dal collegio. Io non capivo in quale rotta parallela mi sarei potuto perdere, eppure una certezza ero riuscito a costruirmela: vivere non è trasferirsi sulla scacchiera del tempo, ma sognare di tornare a casa e, in attesa di farlo, girare il mondo.

“Breve storia del mio silenzio” è un ritorno a casa? Anche tu come Senofonte hai approfittato del buio per introdurti nelle rotte parallele offerte dalla scrittura e dalla letteratura, o invece la tua vita è scorsa su un unico binario che costeggiando l’Adriatico dalla Lucania portava in Lombardia con una vocazione già segnata dagli influssi familiari?

Giuseppe LupoLa letteratura, i libri offrono questa libertà di percorrere strade alternative. Addirittura fanno scoprire vite parallele. La mia storia di ragazzo e di uomo è scivolata certo lungo i binari ferroviari della dorsale adriatica, però ho sempre avuto lo sguardo distratto dalle voci che venivano dai racconti di altri: persone in carne e ossa oppure libri, io ho guardato a destra o a sinistra, dove potevo accorgermi che accanto a me o poco dietro o avanti c’erano altri che già solo con la loro presenza mi dicevano qualcosa che poteva arricchirmi. Scoprire una vocazione è anche cercare la vita di altri e nella vita di altri trovare la propria.

 

“Breve storia del mio silenzio” è un romanzo (chiedo al docente di letteratura contemporanea: lo possiamo considerare tale? Perché onestamente “biografia” nel caso del tuo libro mi sembrerebbe riduttivo. Come per Annie Ernoux.) di formazione letteraria. Anche in questo mi sembra che segni un inedito per la Basilicata, e che segua un chiaro disegno di allargare gli orizzonti di un protagonista che venga dalla Lucania e della Lucania si faccia testimone e figlio, senza rimanere fagocitato nei suoi confini e limiti marginali, ma senza neppure dimenticarli o più ancora ignorarli.  

A un certo punto della tua storia hai avuto bisogno di un “padrino”, su suggerimento di Cesare De Michelis (lascio che sia tu a spiegare chi è e cosa rappresenta nella tua vita, ma soprattutto l’omaggio, alla Borges, che nel romanzo gli tributi con commozione e partecipazione):

Disse proprio così: “padrino”. E la parola mi infastidì a tal punto che non riuscii a chiedere cosa intendesse.

Invece di un padrino, trovasti un “mallevadore”: Raffaele Crovi

Sono sinonimi padrino e mallevadore? Cesare De Michelis e Raffaele Crovi hanno ricoperto lo stesso ruolo nella tua formazione e nell’esito della tua vocazione? Oppure ricoprono due ruoli differenti? 

Raffaele Crovi è colui che ti ha aperto le porte alla pubblicazione e spronato con quel “Caro Lupo” che è come un’imposizione e a suo modo un’incoronazione:

Esordiva sempre con quel “Caro Lupo”, che un po’ mi pareva adatto al compatimento, ma lo pronunciava come avesse davanti un banchetto di biancheria intima, che era il mestiere praticato da suo padre, venditore ambulante nei mercati.

 

Giuseppe LupoAnch’io penso che biografia sia riduttivo per il mio libro. È un bildungsroman a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. Certo bisogna intendersi su cosa significhi il termine formazione. Può contenere molti esempi, ma è formazione anche una vocazione e il suo inseguirla. Il fatto poi che sia una formazione alle parole e tramite le parole, cioè un qualcosa che ha a che fare con la narrazione, aggiunge un elemento diverso rispetto ai romanzi che raccontano formazioni di individui che poi si dirigono verso altri mestieri. Naturalmente ognuno si sceglie i propri maestri. Io alcuni li ho ricevuti per legge naturale – i miei genitori -, altri è stata la vita a offrirmeli e fra questi inserisco anche Raffaele Crovi e Cesare De Michelis. Sono due figure diverse fra loro: Crovi è come se mi avesse allenato per una gara, che successivamente si sarebbe disputata con la scuderia di De Michelis. Insomma è come se si fossero scambiati, senza volerlo, il testimone. A entrambi ho tributato un ritratto morale che, nel caso di De Michelis, è anche l’occasione per una trasfigurazione della sua biblioteca.

 

Siamo giunti all’ultima domanda che è sempre la più complicata perché deve essere selezionata tra le tante possibili e diventare quella definitiva.
Mi affido nuovamente alle tue parole:

La bimba mi fissava. Anche a lei rivolgevo le parole del mio scontento: sono tuo padre, ma ancora in viaggio per diventare uomo. Due strade mi si disegnavano davanti: fingere di capire che ero diventato padre o fuggire per dimenticare. Delle due scelsi la prima – finsi di capire che ero diventato padre – e fu tutto quel che rimase.

Mentre eri alla ricerca di un padrino, finisti per diventare padre. Ma eri ancora alla ricerca dell’uomo che desideravi essere, in bilico tra alternative e biforcazioni in cui la certezza di quello che avresti voluto essere (e che sei diventato) era tormento e sollecitudini più che una sollecitazione. Anche in questo mi sembra che in “Breve storia del mio silenzio” tu abbia intrapreso una narrazione non consueta della vocazione alla scrittura: nessuna epifania, nessuna oraziana rivelazione divina attraverso il portento, nessun sogno in cui appaiono le Muse a sancire una predestinazione. Ma fatica, determinazione e tanta consapevolezza.
La scrittura insegna a “capire” di essere padre o questa capacità appartiene a un’altra sfera? Alla fine sei riuscito a capirlo? O l’alternativa è rimasta il fingere, che mi pare sia da intendere nell’accezione dell’Infinito di Leopardi?
E in ultimo, diventare uomo e diventare scrittore sono la stessa cosa per Giuseppe Lupo?

Giuseppe LupoHo vissuto il mistero della paternità in maniera imperfetta, nella sensazione di non essere all’altezza del compito che la vita in quel momento mi assegnava e “ho finto” di essere pronto quando invece non lo ero. Mi sentivo incompleto (è questo il termine esatto) di fronte alla nuova vita che avevo fra le mani e di cui non credevo essere degno. Mi mancava qualcosa che solo superficialmente un lettore potrebbe pensare essere un capriccio quando invece si trattava di una questione di identità. Pubblicare un libro per me non era un capriccio di gioventù, non lo è mai stato, ma il compimento di un viaggio cominciato a quattro anni, con l’irrompere del silenzio, quando mia madre mi aveva annunciato l’arrivo di mia sorella. Quel silenzio, quel viaggio non potevano giungere se non lì, a un libro che ne fosse la conclusione. Ma senza oracoli e senza predestinazioni, nulla di magico e di irrazionale. La letteratura è per me progetto di vita.

 

Posso concedermi in chiusura un’altra domanda che vale come finale?

Quando fui convocato in via Cenisio 81, mi fece segno di varcare la soglia di una stanzetta assediata dai libri, dove lui, Crovi, stava seduto al tavolo come un re su un trono di carta.

«Voi meridionali dovete guardare lontano per narrare in pace il vostro mondo» esordì tanto per mettere le cose in chiaro.

A me sembra che questa sia la cifra piena della tua scrittura: guardare da lontano ma anche guardare lontano, alla ricerca di atteggiamenti e prospettive inedite e inesplorate.
Avresti potuto scrivere “Breve storia del mio silenzio”, ma anche gli altri romanzi in cui la Lucania è protagonista, se non l’avessi lasciata? Non è questa la differenza più profonda tra te e gli altri scrittori lucani, come Raffaele Nigro per fare l’esempio di un autore citato in “Breve storia del mio silenzio” e rappresentativo di un modo indelebile di narrare il Sud?

Giuseppe LupoCrovi è stato il mallevadore prima di Raffaele Nigro e poi mio, ma ad entrambi ha elargito consigli e ricette. Nel mio caso mi ha invitato a guardare da lontano quel tipo di realtà che è la Lucania. Credo abbia fatto bene a darmi questo consiglio. Anch’io penso sia meglio mettere distanza tra te e ciò di cui racconti. Sarà forse questa la ragione per cui non amo il racconto del presente, la cronaca (anche se non mi dispiace l’andatura concreta di un testo che somiglia a una cronaca medievale). La distanza aiuta a vedere meglio.

 

Caro Lupo (cit.), hai scritto un libro che mancava alla “nostra” terra, una Lucania letteraria e autentica, per la gioia dei lettori come me che vivono attraverso i libri.
Si può provare gratitudine a un libro? Io credo di sì, e credo anche che sia il sentimento più sincero che un lettore possa tributare a un libro che avrà un posto speciale nella libreria più importante, quello scaffale ideale dei libri che ci appartengono intimamente che ognuno si porta per sempre dentro di sé.

 

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Giuseppe Lupo
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