di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

 

La parola ai testimoni

Foto di Emiliano Zampella
Foto di Emiliano Zampella

Come si fa a comunicare la grandezza di un artista – poeta, scrittore, drammaturgo che sia? Si chiedeva la mia amica slavista Giulia nei giorni scorsi. La risposta è che si devono far incontrare i testi, le parole, le parole scritte con i lettori. Creare momenti di vero scambio e condivisione per aprire piccole finestre sul mondo in continuo movimento che l’artista abita e crea. Quando c’è qualcuno che ha qualcosa da raccontare e sa fare un buon uso della parola scritta, tutti finiamo per imparare e arricchirci.

Ivan Vyrypaev è un maestro della parola, la plasma a sua immagine per pungere, incantare, svelare, trafiggere, penetrare tutti i sentimenti e pensieri che abitano lui ma anche noi. E giovedì 17 ottobre ne abbiamo avuto prova ai Diari di Parma con un Evento specialissimo: la Presentazione in anteprima del libro “Ivan Vyrypaev. Teatro” (Cue Press, 2019). Si tratta di un libro con 8 sue pièce tradotte in italiano. Assieme a Ivan Vyrypaev drammaturgo, sceneggiatore, produttore regista di teatro e cinema, c’erano ad accompagnarlo Teodoro Bonci del Bene, regista e traduttore, e la mia amica Giulia De Florio, docente di Lingua e cultura russa presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. L’evento ha fatto parte di un movimento conclusivo del cantiere Vyrypaev, nato nel 2013. L’arte di Vyrypaev ci mostra cose semplici: amore, vita, morte, universo, eternità. Parla, cioè, di ciascuno di noi.
Genio moderno, Ivan Vyrypaev è nato in Siberia nel 1974, a Irkutsk. È uno degli autori russi più influenti e conosciuti del panorama contemporaneo. Dal 1995 lavora come attore a Magadan e in Kamcatka, fonda un teatro ad Irkutsk e studia regia per corrispondenza presso l’Accademia di Teatro Šukin di Mosca. Dal 1999 al 2001 insegna recitazione presso l’accademia d’arte drammatica di Irkutsk. Trasferitosi a Mosca, nel 2001 partecipa alla creazione del teatro indipendente Teatro.doc, e nel 2005 fonda il movimento “Ossigeno”. Nell’aprile 2013 diventa direttore artistico del Teatro Stabile Praktika di Mosca, per il quale era già coordinatore artistico dal 2006. Ha firmato la regia di cinque film presentati ai più prestigiosi festival cinematografici russi ed europei, vincendo il Leoncino d’oro alla 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Le sue opere sono edite in russo, tedesco, polacco, francese e inglese. A partire dal 2013 collabora con il centro Baryshnikov di New York. Dal 2013 al 2016 è stato direttore artistico del Teatro Praktika di Mosca. Nel 2016 si trasferisce a Varsavia, fonda la casa di produzione WEDA, per la quale scrive nuove opere e allestisce spettacoli in numerosi teatri della Polonia.
Di Vyrypaev il pubblico parmigiano aveva applaudito nel 2016 «Illusioni», di nuovo in scena il 16 ottobre ma stavolta arricchito dalla presenza dell’autore, che al termine dello spettacolo ha incontrato il pubblico e parlato del suo percorso artistico con un’altra nostra amica, Maria Candida Ghidini, docente dell’Università di Parma. L’appuntamento ai Diari faceva parte di un tour che ha visto Vyrypaev tra il 17 e 19 ottobre anche a Bologna e altre città italiane, e che nella tappa parmigiana ha coinvolto, direttamente, l’Università di Parma.

Abbiamo continuato a dare spazio alla parola che plasma le storie anche Sabato 19 ottobre, ospitando un altro nostro amico, il poeta Andrea Donaera, che questa volta ha presentato il suo romanzo d’esordio, “Io sono la bestia”, pubblicato il 26 settembre da NN Editore. A dialogare con l’autore è stato Roberto Camurri. Il romanzo è il quarto titolo della serie Gli Innocenti, proprio dopo Roberto Camurri, Alessio Forgione e Serena Patrignanelli. Un libro di cui si parlerà a lungo questo di Donaera, proprio come è successo con Camurri, in questi giorni pubblicato in Olanda con il titolo di De Menselijke Maat… e già sono uscite le prime recensioni in cui si dice che in Italia si sta affermando una nuova generazione di scrittori che in Camurri ma anche, tra gli altri, in Paolo Cognetti e Paolo Giordano ha i suoi esponenti più interessanti.

Nato a Maglie nel 1989, Donaera è cresciuto a Gallipoli e nel 2019 ha pubblicato la raccolta “Una Madonna che mai appare” all’interno del XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea edito da Marcos y Marcos, con cui è già stato ospite ai Diari nel settembre scorso.

Mimì è folle di dolore: il figlio Michele, quindici anni, si è tolto la vita. Si dice che sia colpa di Nicole, la compagna di scuola, che ha rifiutato ridendo il suo regalo, un quaderno di poesie. Mimì non è un padre come gli altri. È un boss della Sacra, e per quel gesto vuole vendetta: così prende Nicole e la rinchiude in una casa sperduta nella campagna salentina. Il guardiano della casa, Veli, rivede in Nicole la ragazza che ama: Arianna, la figlia maggiore di Mimì. Anche Arianna ama Veli. O forse lo amava, prima che la morte del fratello bruciasse tutto e tutti come un incendio. Tra Veli e Nicole fiorisce un legame fatto di racconti e silenzi, ma anche di sfida e ferocia.
In una narrazione a più voci, animata da una lingua che impasta prosa, poesia e musica, “Io sono la bestia” racconta storie d’amore anomale, brutali, interrotte. Ma Andrea Donaera racconta soprattutto un destino di violenza scolpito nella pietra del linguaggio, che esplode travolgendo l’innocenza di personaggi e luoghi.Questo libro è per chi vorrebbe entrare in un libro, così da fermarsi in quelle pagine di mondo, per chi adora fare colazione con giornali, caffè e pasticciotti, per chi ha fatto di una scopa una chitarra cantando Come as your are dei Nirvana, e per chi ricorda la prima volta che ha provato paura per qualcun altro, la scossa profondissima che gli ha tolto le parole e squarciato il cuore.

La settimana scorsa sono stati assegnati i Premi Nobel per la letteratura ed è stato bello ritrovare due nomi che sono nel nostro catalogo da molto tempo.
Il Premio Nobel per la Letteratura di questo anno, doppio, alla polacca Olga Tokarczuk e all’austriaco Peter Handke, ci riempie di gioia perché sono Autori pubblicati da nostre case editrici di riferimento da tempo. Questo grande riconoscimento conferito all’opera di ben due autori presenti nei nostri scaffali (noi che i titoli li selezioniamo uno ad uno) conferma il valore e l’originalità della nostra ricerca, sempre tesa alla creazione di un catalogo solido e ricco di grande letteratura.

“Per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta il superamento dei confini come forma di vita” la motivazione per cui l’opera di Olga Tokarczuk ha vinto il Premio. La scrittrice polacca più nota in patria (per tre anni consecutivi i suoi libri sono stati votati come i più amati dai lettori) è nata a Sulechòw, nella Polonia occidentale, il 29 gennaio del 1962, e ha studiato psicologica a Varsavia. Scrittrice e poetessa tra le più note in patria, è stata tradotta in trenta paesi. Insignita di numerosi premi letterari tra cui il Premio Nike, i suoi romanzi sono tradotti in trenta paesi. Con le sue opere si è aggiudicata il Man Booker International Prize 2018 ed è stata finalista al National Book Award, conquistando la consacrazione internazionale. In Italia sono usciti “Che Guevara e altri racconti” (edizioni Forum 2006) e “Casa di giorno, casa di notte” (Fahrenheit 451 2007). Per Bompiani è stato pubblicato “I Vagabondi”.

Con Nottetempo ha pubblicato “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” (2012) e “Nella quiete del tempo” (2013), che ha vinto uno dei più prestigiosi riconoscimenti polacchi, il Premio della Fondazione Koscielski.
“Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” nella traduzione di Silvano De Fanti è un libro praticamente introvabile nell’edizione Nottetempo e, invece, ai Diari è presente ancora qualche copia.

Janina Duszejko, anziana insegnante di inglese in un paesino di provincia, e in inverno custode delle case di vacanza nella Conca di Kodzko, ha solo due passioni: gli animali e l’astrologia. Passa il tempo a calcolare l’oroscopo di chi incontra, a tradurre le poesie di William Blake e a cercare di impedire le battute di caccia nella valle, sabotando le tagliole e raccogliendo le trappole. Quando nella zona cominciano a verificarsi morti misteriose, Janina sostiene che si tratti di omicidi, i cui esecutori sarebbero gli animali selvatici, decisi a vendicarsi sugli uomini per la loro violenza. La sua teoria si diffonde nella valle, insieme alla paura. Attraverso la forma del giallo, Olga Tokarczuk ci racconta in modo ironico e appassionato le contraddizioni della responsabilità umana sulla natura e sugli esseri viventi.Un noir dalle tinte a tratti umoristiche ma di interessanti contenuti… ecologia, rispetto della Natura, poesia e riflessioni filosofiche si intrecciano in un giallo ben congegnato e sottile.

“Nella quiete del tempo” nella traduzione di Raffaella Belletti è un libro che è stato parecchio apprezzato tra i lettori dei Diari.

Prawiek è un villaggio situato al centro dell’universo e protetto da quattro arcangeli, che ne vegliano i confini. Ad abitare le sue valli e ad allevare carpe nei suoi stagni, ci sono personaggi bizzarri come carte dei tarocchi: il vecchio Boski che, appollaiato su un tetto, sogna di distruggere d’un soffio tutto ciò che vede; il castellano Popielski, che passa la vita a giocare a un misterioso gioco da tavolo; Spighetta, che ha occhi capaci di arrivare all’anima degli individui; Ruta, che sa riconoscere il suono del cuore della terra, e Genowefa, che sembra muovere il mondo girando la manovella di un macinacaffè. Mentre nelle loro vite si agita la storia inquieta del Novecento, sopra a ciascuno sta un Dio vanitoso ed egoista, che ha dato avvio alla creazione per noia e si è stufato degli uomini.

Allo scrittore austriaco, Peter Handke, Premio Nobel 2019 viene riconosciuto il suo «lavoro influente che con ingegnosità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana».

Peter Handke è nato a Griffen (Carinzia) nel 1942, da madre slovena e padre tedesco. Considerato tra i più importanti scrittori contemporanei europei, è autore di provocatorie pièces teatrali e di numerose opere in prosa ha inoltre collaborato alla sceneggiatura di alcuni film di Wim Wenders, come “Falso movimento” (1975) e “Il cielo sopra Berlino” (1987). Nel 1973 è stato insignito del premio Georg Büchner (riconsegnato nel 1999 in segno di protesta contro i bombardamenti della Nato in Serbia), nel 2009 del premio Franz Kafka e, nel 2014, dell’International Ibsen Award. Per la casa editrice Quodlibet sono usciti “Ancora tempesta”, “I bei giorni di Aranjuez” ed è in corso di pubblicazione l’intera opera teatrale in due volumi.
In “Ancora tempesta” la traduzione è di Angela Scròfina e Ylenia Carola.

Il titolo di questa storia, con la sua premeditata eco shakespeariana (Re Lear, III, 2), ci introduce immediatamente nella tonalità epica, amara e folle che la pervade. L’opera si articola in cinque dialoghi che l’autore, ormai anziano, intrattiene con i suoi avi, sloveni di Carinzia, qui più giovani dello scrittore che li mette in scena.
I nonni, la madre giovanissima, due zii caduti al fronte e due che si sono dati alla macchia per combattere i nazisti, sono tutti riuniti per evocare l’epopea tragica e dimenticata di una minoranza oppressa, ma orgogliosamente protagonista dell’unico episodio di guerra partigiana svoltosi entro i confini del Terzo Reich. È l’adunata degli avi, plurale proiezione della personalità e della storia dell’autore, amato e odiato dai suoi e straniero a se stesso, poiché figlio di una slovena e del nemico germanico.
Attraverso una serie di profetiche allocuzioni Handke dà espressione al proprio conflitto identitario, ma anche al silente e funesto lacerarsi della panglossiana identità europea. La nazione, «rifugio e prigione», risorge dalla tomba. «La tempesta sta ancora infuriando. Tempesta continua. Ancora tempesta».

Ne “I bei giorni di Aranjuez” un uomo e una donna siedono a un tavolo da giardino, all’aperto, in un bel giorno d’estate, e parlano dell’amore. Tra loro vi è intimità, confidenza, una franchezza spietata, una sincerità disarmata, e lealtà nel rispettare il gioco delle parti in uno scambio governato da regole precise. Ma la scena che stanno recitando non è quella di un corteggiamento. Nulla lascia intendere che siano, o siano stati, amanti. Nel «dialogo estivo» che si svolge tra loro – né «dramma» né «tragedia», ma un genere del tutto singolare: divertimento serio, gioco estremo, rito solenne e pervaso di erotismo – si raccontano l’un l’altra le proprie esperienze amorose. «La tua prima volta con un uomo, come è stato?», chiede lui. E lei, incalzata dalle sue domande, lascia affiorare i ricordi. Densa di allusioni, di evocazioni, sorretta da un sottotesto di segreti rimandi letterari, illuminata da sconcertanti rivelazioni, la conversazione tra i due – personaggi senza nome fino alle ultime battute, emblemi dei due sessi, archetipi dell’uomo e della donna – procede come una danza, scabrosa e pudica, enigmatica e sensualissima. Ambientato in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo – del giardino in cui la scena si svolge gli alberi non si vedono nemmeno, si odono appena –, I bei giorni di Aranjuez è una sfida a qualsiasi possibilità di rappresentazione: perfino la città nominata nel titolo compare come un ricordo nei racconti dell’uomo e come la citazione di un verso di Schiller. Dedicato a «S.», cioè a Sophie Semin, la moglie di Peter Handke, attrice teatrale, il testo è stato trasposto nel film omonimo dal regista Wim Wenders – che ha raccolto la sfida dell’irrappresentabilità – e interpretato dalla stessa Sophie nel ruolo della protagonista, in una realizzazione che lascia immaginare, da parte di un autore così sfuggente, mille coinvolgimenti personali.

Tra le nuove uscite da segnalare, un libro perfetto per la stagione autunnale da poco pubblicato da Sur: «Kentuki» della scrittrice argentina Samanta Schweblin, nella traduzionbe di Maria Nicola. Una Strana distopia irresistibile e dalla scrittura molto ipnotica che sembra volerci mostrare il nostro futuro prossimo venturo.
Samanta Schweblin, nata a Buenos Aires nel 1978, è una scrittrice di fama internazionale. Nel 2010 è stata selezionata dalla rivista Granta come una dei 22 migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni, riconoscimento in seguito confermato da numerosi premi letterari. Tra le sue opere: La pesante valigia di Benavides (Fazi, 2010) e Distanza di sicurezza (Rizzoli, 2017).Oltre a Kentuki, SUR pubblicherà due sue raccolte di racconti, Siete casas vacías, che le ha valso il prestigioso Premio Ribera del Duero nel 2015, e Pájaros en la boca, la cui traduzione in inglese è stata candidata al Man Booker International Prize.

Buenos Aires, interno giorno. Ma anche Zagabria, Pechino, Tel Aviv, Oaxaca: il fenomeno si diffonde in fretta, in ogni angolo del pianeta, giorno e notte. Si chiamano kentuki: tutti ne parlano, tutti desiderano avere o essere un kentuki. Topo, corvo, drago, coniglio: all’apparenza innocui e adorabili peluche che vagano per il salotto di casa, in realtà robottini con telecamere al posto degli occhi e rotelle ai piedi, collegati casualmente a un utente anonimo che potrebbe essere dovunque. Di innocuo, in effetti, hanno ben poco: scrutano, sbirciano, si muovono dentro la vita di un’altra persona.Così, una pensionata di Lima può seguire le giornate di un’adolescente tedesca, e gioire o preoccuparsi per lei; un ragazzino di Antigua può lanciarsi in un’avventura per le lande norvegesi, e vedere per la prima volta la neve; o ancora un padre fresco di divorzio può colmare il vuoto lasciato dall’ex moglie. Le possibilità sono infinite, e non sempre limpide: oltre a curiosità e tenerezza, il nuovo dispositivo scatena infatti forme inedite di voyeurismo e ossessione.Come i kentuki aprono una finestra sulla nostra quotidianità più intima, così Samanta Schweblin apre uno squarcio nella narrazione del reale: con un immaginario paragonato a quelli di Shirley Jackson e David Lynch, l’autrice trasporta il lettore in un’atmosfera ipnotica, regalandoci una storia sorprendente e dal ritmo vertiginoso.

Un personaggio straordinario è il protagonista del romanzo d’esordio di Remo Rapino «Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio», appena pubblicato da Minimum Fax.
Remo Rapino è stato insegnante di filosofia nei licei e vive a Lanciano. Ha pubblicato i racconti “Esercizi di ribellione” (Carabba 2012) e alcune raccolte di poesia, tra cui “La profezia di Kavafis” (Moby-dick 2003) e “Le biciclette alle case di ringhiera” (Tabula Fati 2017).
Liborio è una cocciamatte, l’ultimo degli ultimi, il più folle dei folli, appartiene ai vinti ma non è un vinto, un Don Chisciotte, piuttosto. In alcuni capitoli ci commuove, in altri ci fa ridere: la ricchezza del libro è tutta dentro la sua voce che alterna comicità, candore, follia e che si traduce in una continua festa lessicale e del ritmo. Bastano poche pagine per restarne ipnotizzati.

Liborio Bonfiglio è il pazzo che tutti scherniscono e che si aggira strambo e irregolare sui lastroni di basalto di un paese che non viene mai nominato. Eppure nella sua voce sgarbugliata il Novecento torna a sfilare davanti ai nostri occhi con il ritmo travolgente e festoso di una processione con banda musicale al seguito.Perché tutto in Liborio si fa racconto, parola, capriola e ricordo: la scuola, l’apprendistato in una barberia, le case chiuse, la guerra e la Resistenza, il lavoro in fabbrica, il sindacato, il manicomio, la solitudine della vecchiaia.
A popolare la sua memoria, una galleria di personaggi indimenticabili: il maestro Romeo Cianfarra, donn’Assunta la maitressa, l’amore di gioventù Teresa Giordani, gli amici operai della Ducati, il dottore Alvise Mattolini, Teté e la Sordicchia… Dal 1926, anno in cui viene al mondo, al 2010, anno in cui si appresta a uscire di scena, Liborio celebrerà, in una cronaca esilarante e malinconica di fallimenti e rivincite, il carnevale di questo secolo, i suoi segni neri, ma anche tutta la sua follia e il suo coraggio. Attraverso il miracolo di una lingua imprevedibile, storta e circolare, a metà tra tradizione e funambolismo, Remo Rapino ha scritto un romanzo che diverte e commuove, e pulsa in ogni rigo di una fragile ma ostinata umanità, quella che soltanto un matto come Liborio, vissuto ai margini, tra tanti sogni andati al macero e parole perdute, poteva conservare.

Nello Zaino di Antonello: La parola ai testimoni