di Andrea Cabassi

Andrea con Il Brigatista

L’UOMO E’ LA CONTRADDIZIONE

Recensione al libro di Antonio Iovane

“Il brigatista” (Minimum Fax)

“Per me (l’animale sociale) è l’uomo oppresso, manipolato, che non può esprimere la propria storicità derivante dalla dialettica delle contraddizioni in cui vive. L’uomo è una contraddizione. E’ questa contraddizione che noi siamo che ci fa essere uomini, altrimenti saremmo animali e noi invece che medici potremmo essere dei veterinari”

Così Franco Basaglia in una delle sue  straordinarie “Conferenze Brasiliane” (Raffaello Cortina. 2018. Pag. 69), quella che si svolse il 21 giugno 1979 a S. Paolo all’Instituto Sedes Sapientiae. Nella stessa conferenza Basaglia affermò:

“… il dolore che opprime l’uomo, l’angoscia di ogni giorno nella relazione con gli altri uomini, tutto questo io non posso risolverlo. Questa angoscia esistenziale fa parte dell’uomo, è una realtà e tale relazione tra l’ordine sociale e la dimensione esistenziale rappresenta la contraddizione e l’opposizione della nostra vita” (Pag. 59).

E’ suggestiva la coincidenza con le ultime parole del bel romanzo di Antonio Iovane “Il Brigatista”: “E gli uomini sono la contraddizione” (Minimum Fax. 2019. Pag. 400). Ma, prima di dare qualche notizia biografica sull’autore e addentrarci nell’analisi del romanzo, mi sia concesso un passo indietro autobiografico perché questo guardarmi indietro è stata una delle prime reazioni che ho avuto alla lettura di questo romanzo avvincente e importante.

La mattina del 16 marzo 1978 ero in casa e stavo preparando un esame per l’Università. Fui interrotto dal passaggio di un auto che passava sotto casa. Era un’auto dei sindacati che, con un altoparlante, annunciava il rapimento dell’Onorevole Moro. Mi precipitai alla finestra a la aprii perché non ero convinto di aver capito bene. Ma avevo capito bene. Tuttavia ero ancora incredulo. Andai ad accendere il televisore. C’era una edizione straordinaria del Telegiornale che stava dando la notizia del rapimento e del massacro della scorta.

Cominciarono settimane drammatiche che ricordo con grande nitore.

La mattina del 9 maggio ero all’Università di Bologna. Appresi che Moro era stato ucciso quando arrivai a casa, nel primo pomeriggio. Fui attraversato da diverse emozioni e da diversi sentimenti: rabbia, indignazione, pietas. Non avevo mai votato DC e avevo spesso criticato la politica di Moro. Ma ora mi trovavo a identificarmi con lui e con la sua famiglia, a provare sdegno per quanto avevano fatto le Brigate Rosse (in realtà, rabbia l’avevo provata già dalle loro prime azioni). A tutti questi sentimenti se ne associò un altro: una grande preoccupazione. Il quesito che mi posi e che in tanti ci ponemmo era: avrebbe retto lo stato di diritto in un’Italia già provata dalle stragi e da altre azioni terroristiche? Si sarebbero pericolosamente chiusi gli spazi di democrazia? E poi in tanti ci chiedemmo se c’era qualcuno dietro le Brigate Rosse (me lo chiedo ancora oggi), cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato ucciso. Sarebbe cambiata la storia d’Italia?

Questo era il clima e quel clima Iovane lo rende benissimo. “Il brigatista” è un romanzo documentatissimo dal punto di vista storico. Ma è anche un romanzo che scava nelle contraddizioni – quelle di cui si parlava all’inizio – dei personaggi dando loro uno spessore “tridimensionale”, e con questo intendo che il lettore ha l’impressione di averceli davanti in carne ed ossa. Inoltre è un romanzo che, nei momenti più drammatici e di suspense, ha i codici narrativi del noir. Insomma non è uno dei tanti romanzi sul terrorismo, sia per la sua qualità narrativa, sia per la rigorosa ricostruzione degli avvenimenti dove personaggi inventati e reali convivono e i personaggi inventati diventano reali tanto come lo sono i vari Dalla Chiesa, Curcio, Franceschini, solo per citarne alcuni.

Antonio Iovane è nato nel 1974, vive a Roma, è giornalista e lavora a Radio Capital. Ha pubblicato nel 2005 “La gang dei senzamore”, nel 2006 “Ti credevo più romantico”, entrambi per l’editore Barbera.

“Il brigatista” non parte dal 1978 del rapimento Moro. Parte dal 1979. Siamo a Castelporziano, al Festival Internazionale dei Poeti. Proprio durante il Festival c’è uno scontro a fuoco fra carabinieri e brigatisti. E’ in questo incipit che facciamo conoscenza con la giornalista Ornella Gianca, il cui cameramen Antonio filma lo scontro, del brigatista Jacopo Varega, nome di battaglia Vladimiro, della sua compagna Irene, nome di battaglia Clizia, del carabiniere Salvatore De Rosa. Jacopo viene ferito e ricoverato in ospedale da dove fugge. Contatta Ornella Gianca dal suo nascondiglio. Varega, davanti a una telecamera, ha deciso di rivelare il nome di chi lo ha tradito. Il racconto-confessione diventa un flashback che ripercorre la storia d’Italia a partire dalla strage di Piazza Fontana del 1969, passando attraverso il suo avvicinamento e adesione alle Brigate Rosse, passando attraverso il rapimento Sossi,  la strage di Brescia, quella dell’Italicus, l’arresto e la fuga dal carcere di Renato Curcio, l’omicidio Croce, l’omicidio Coco, la costituzione delle squadre speciali antiterrorismo del Generale Dalla Chiesa, il rapimento Moro, l’attentato a Montanelli. Nell’ultima parte del libro si va oltre il 1979 fino ad arrivare al rapimento del generale della NATO Dozier a Padova nel 1982 , evento sul quale tornerò dopo.  

Il racconto-confessione di Jacopo si intreccia con altre narrazioni, con altre storia che, poi, convergono al punto finale. Come si diceva più sopra interagiscono in maniera del tutto convincente personaggi reali come il Generale Dalla Chiesa, i brigatisti Moretti, Curcio, Franceschini, i giornalisti Giorgio Bocca, Montanelli, Camilla Cederna, le vittime dei terrorismo Moro, Sossi, Calabresi, con personaggi inventati come il decano dei giornalisti democratici Lucio Aliberti, il giornalista Paolo Galbiati, Salvatore De Rosa, con la sua tipica storia di uomo del sud, come Jacopo e Irene, come lo sceneggiatore Giulio Fornati e il figlio Max.

E non ci sono solo la Storia e la politica. Ci sono anche complesse storie d’amore che, qualche volta, si intrecciano con la Storia. Emblematica quella tra Jacopo e Irene: l’ideologia sembra uccidere i sentimenti, la loro autenticità, la possibilità stessa di provarli. Qui siamo molto lontani dallo slogan che coniarono allora le femministe: il personale è politico. Una relazione claustrofobica, quella tra Irene e Jacopo. Dove il lettore desidererebbe, una buona volta, che la coppia si lasciasse andare e non vivesse una vita da clandestini di professione, magistralmente descritta da Iovane. Ma, poi, sarà proprio così? Sarà proprio che l’ideologia brigatista schiaccia i sentimenti o, una volta cacciati dalla porta rientreranno dalla finestra? Al lettore scoprirlo.

Non ci sono solo Jacopo e Irene. Ci sono anche la femminista Marina e Max Fornati che diventerà un tossico duro. Perché quelli non furono solo gli anni dei grandi ideali, della strategia della tensione, del terrorismo. Furono anche gli anni dell’eroina che mieté (e continua a mietere) tante vittime fra i giovani. Ci sono Salvatore e Patrizia che Salvatore perderà per seguire il Generale Dalla Chiesa. E ancora Salvatore e Vanina. Ci sono Ornella e Giulio e ancora Ornella con le sue sofferte storie.

Nel romanzo incontriamo personaggi a tutto tondo come il giornalista Paolo Galbiati, un uomo dalla schiena dritta, uomo integro e che non cede ai compromessi, sempre alla ricerca della verità, anche quando la verità è scomoda. Ne “Il brigatista” troviamo un dialogo molto bello e drammatico tra il decano dei giornalisti democratici Lucio Aliberti e Paolo Galbiati. Siamo nel 1975, ci sono già stati la strage di Brescia, l’Italicus, le Brigate Rosse che si sono fatte conoscere per alcune loro clamorose imprese, c’è un clima pesante, con il timore che la strategia della tensione possa sfociare in un colpo di stato. I due giornalisti si confrontano sulla violenza politica:

‘Che equazione Lucio?’

‘Quella secondo cui la violenza di destra è come la violenza di sinistra. Perché se tutto è uguale, se tutto è livellato, allora è tutto la stessa cosa, la stessa salsa. Ma le bombe e i sequestri dimostrativi non sono la stessa cosa. E sai perché non possiamo consentire tutto questo? Perché se lo consentiamo daremo al potere gli strumenti per restringere le libertà. Hai visto quello che è successo dopo Piazza Fontana? E’ partita la caccia alle streghe, cazzo. Un giornalista non può essere lo strumento del potere per giustificare tutto questo. Un giornalista non deve”.

Galbiati vorrebbe obiettare che però, senza prevenzione, la violenza a sinistra potrebbe degenerare. Vorrebbe dire che ci sono tutti i sintomi per qualcosa di grosso, il rischio che il sassolino si trasformi in valanga, ma non dice nulla.

Si ferma davanti a casa del decano, spegne il motore.

‘Addio Paolo’, gli dice Aliberti, ‘so che non mi darai retta’.

Galbiati sorride: è la prima volta che lo chiama col suo nome.

‘Non lo so Lucio. Ci devo riflettere’.

‘Sei un bravo giornalista, Paolo. Non mollare’ (Pag. 208)

Iovane conosce molto bene il modo di ragionare delle Brigate Rosse. Bastano due dialoghi fra i tanti. Il primo ha come protagonisti Jacopo e il brigatista riluttante Leonardo. Jacopo, per provocare Leonardo, gli dà la sua pistola in mano e gli intima di sparargli:

Leonardo era diventato pallido.

‘Perché no?’

‘Perché non puoi?’

‘Perché no, compagno?’

‘Un vero rivoluzionario non ha paura di uccidere né morire. Te lo sto ordinando, compagno. Spara!’

‘Io non posso, comp…’

Gli strappai la pistola dalle mani e la diressi verso la sua fronte, d’istinto si coprì la faccia.

‘Che c’è compagno?’

Leonardo adesso si era chinato sotto al tavolo, Gaia sorrideva davanti a quella scena.

‘Quando si spara non esistono persone, esistono solo simboli. Hai capito, simboli? Devi imparare il valore dell’odio, compagno’

(Pag. 251).

E questa fu la tragedia: la disumanizzazione dell’Altro. Quando l’Altro non è più considerato un essere umano, allora può essere ucciso e, magari, non  ci si sente neppure il peso dell’omicidio sulla coscienza, magari si pensa di non aver neppure commesso un omicidio, ma di aver agito nell’ottica di una giustizia superiore. 

Il secondo dialogo è quello fra Jacopo e il suo caporeparto Alberto. Alberto afferma che il salario non gli fa mica schifo. Risponde Jacopo:

‘Ma che salario e salario, Alberto. Insomma, ti spacchi la schiena dalla mattina alla sera per cosa? Per cosa che non riesci nemmeno a mettere i soldi da parte? Ma te lo immagini se noi potessimo vivere come i padroni, ti piacerebbe o no?’

‘Sì che mi piacerebbe’.

‘E allora? Pensano che basti qualche soldo in più per tenerci buoni e schiavi. Noi non siamo lavoro, Alberto. Siamo vite, capito? Vite, come dice Marx! E invece ci sfruttano come schiavi. E sai perché lo fanno? Perché in realtà siamo schiavi, Alberto. Siamo una schiavitù salariata’

(Pag. 105).

Le Brigate Rosse citavano spesso Marx, ma era un Marx stereotipato, un  Marx non problematico, un Marx da bignami. Basterebbe leggere la nuova  e bella edizione dei “Manoscritti economico- filosofici del 1844” tradotta, curata e commentata da Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgrò (Orthotes 2018) per rendersi conto della complessità e della ricchezza del pensiero di Marx, soprattutto quando tratta un tema come l’alienazione. Non è questione da sottovalutare. La semplificazione (malgrado il modo cervellotico in cui venivano stilati i comunicati)  della lettura portava alla prassi che tutti noi conosciamo.

Una parte dell’epilogo è dedicata al rapimento del Generale della Nato, Dozier. Sono pagine molto dure e tutte ritrovano riscontro nella realtà. Iovane ci parla delle torture a cui furono sottoposti alcuni brigatisti imprigionati e ricostruisce un’atmosfera da incubo. Mi sia concesso, in questa sede, un altro ricordo personale. Stavo studiando a Padova per la seconda laurea. Qualche volta andavo da Parma a Padova in auto. In uno dei giorni del rapimento mi imbattei in numerosi posti di blocco con polizia e carabinieri con mitra e giubbotti antiproiettile. Padova sembrava una città in stato d’assedio. Nei miei soggiorni di quel periodo mi reso conto di quanto il clima fosse pesante. Pensai, in più di un momento, che stavamo scivolando da uno stato di diritto a uno stato di Polizia. Mi venivano in mente il colpo di stato in Cile del 1973, quello in Argentina del 1976. Non successe nulla di tutto ciò. La democrazia, malgrado tutto tenne, il nostro paese trovò o ri/trovò gli anticorpi per mantenere lo stato di diritto. Un clima  descritto magistralmente da Antonio Iovane.  Chi ha vissuto quegli anni ci si ritroverà nel romanzo di Iovane. E sarà utilissimo per coloro che quegli anni non li ha vissuti perché era troppo giovane.

Vorrei concludere dicendo che “Il brigatista” è un romanzo pieno di colpi di scena ed è una riflessione sulla verità e sul suo senso. Nella suo racconto-confessione Jacopo indica il nome della persona che ha tradito, dell’infame. Quella è la sua verità. Ma possono esserci narrazioni alternative a quelle di Jacopo? Possono esserci verità alternative? Al lettore scoprirlo. Al lettore scoprire quanto l’uomo sia contraddizione, come sosteneva anche Basaglia. E interrogarsi sullo statuto della verità.

Nel film che Giulio Fornati, dopo tante difficoltà è riuscito a fare, il professore (interpretato nella finzione dentro la finzione, da Gian Maria Volonté) dice al commissario (interpretato nella finzione dentro la finzione da Mario Adorf):

‘Non è la realtà che ci sfugge, è la verità signor commissario. Ma lei domanda la verità come se fosse… come se fosse una cosa afferrabile, una strada sicura, lineare dritta, e invece la verità si presenta sempre incerta, tortuosa e oscura. Mi domanda la verità come se fosse abitata da uomini buoni o da uomini cattivi, ma la verità è abitata solo da uomini, commissario. Uomini e basta. E gli uomini sono la contraddizione’

(pag. 400).

Lo Scaffale di Andrea: Il brigatista