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Siccome mi dici che non sei mai stata in Istria e ti piacerebbe andarci, facciamo che ci siamo incontrate lì?

A Rabaz, in spiaggia, la mattina presto, quando attorno a noi è pieno di pensionati che vanno in spiaggia silenziosi, portandosi dietro solo un asciugamano da appoggiare sugli scogli. Oppure a Santa Domenica di Albona, dove ti avrei portata a vedere tutti i posti raccontati nel libro, e magari presentato qualche signore o signora che dentro il libro ci è finito, e che ti avrebbe parlato in uno strano dialetto un po’ veneto, che dopo un po’ avresti cominciato a capire.

Senza salutare nessunoÈ un romanzo del romanzo, l’invito di Silvia Dai Pra’, alla richiesta di poter chiacchierare con lei di “Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria” (Laterza editore). Ero molto curiosa di conoscere la scrittura di Silvia Dai Pra’ e di farmi guidare in Istria che è una terra che da sempre attira la mia attenzione. Affascinata dal modo ibrido di raccontare, dall’uso del tempo che si avvita tra il presente e il passato, dalla lucidità e assenza di emotività nel trattare la Storia, non posso che considerare una promessa quella di ritrovarci in Istria, seguendo le tracce della Storia del libro e inseguendo le suggestioni innumerevoli di riflessione e analisi che offre.

“si può scrivere un libro su un uomo morto a Vines senza mai essere andati sulla foiba di Vines?

Beh, in fondo è come scrivere un libro su un uomo infoibato per non si capisce quale motivo senza mai capire perché sia stato infoibato.”

Con “Senza salutare nessuno” ti sei messa sulle tracce del tuo bisnonno paterno e ne hai scritto un libro che non sopporta definizioni di genere, ma che fa della sua molteplice e varia natura uno degli elementi di fascino e di ricchezza.

E allora ti chiedo: che libro si può scrivere su un uomo morto a Vines? E perché lo si scrive? E anche per chi lo si scrive?

FotomiaNon è stato facile scrivere questo libro. La prima difficoltà viene proprio da quello che secondo me non è tanto il tema, ma di certo è l’evento scatenante, il trauma che ha segnato almeno due generazioni della famiglia di mio padre, ossia le foibe. Perché lo sappiamo tutti quanto le foibe siano state oggetto di strumentalizzazione, abbiamo visto tutti le fiaccolate organizzate da Casa Pound, gli striscioni col font littoriano, eccetera. E abbiamo visto anche le targhe dedicate agli infoibati o ai profughi distrutte, ricoperte di falci e martelli o scritte offensive. Insomma, sulle foibe, puntualmente, si combatte una battaglia che nulla racconta di ciò che è successo. Per non dire lo slogan “e allora le foibe?”: rendere qualcosa un tormentone ha, come effetto, quello di saturare l’informazione riempiendola solo di nulla – ti dà l’impressione di aver sentito parlare di quell’argomento almeno un milione di volte, mentre invece, realmente, nessuno te ne ha parlato mai.

In questo modo mi spiego, ad esempio, perché diverse persone molto colte, di ottime letture, mi hanno scritto ringraziandomi per il libro, perché di quella fetta di storia non sapevano nulla.

La strumentalizzazione ha bloccato anche me, figuriamoci gli altri – come facevo, io, di sinistra, ad andare a scrivere un libro su un tema così caro all’estrema destra?

Pensa che, il giorno dell’uscita del mio libro, un conoscente, di destra, romano, uno che non è mai stato non dico in Istria, ma neanche a Trieste, mi ha scritto: “scusa, ma perché hai scritto un libro su un argomento nostro?”

Be’, in realtà quell’argomento era mio, di certo più di quanto non fosse suo. Così, a un certo punto, ho detto basta e mi sono riappropriata della mia storia. Però prima ho dovuto fare silenzio, cercare di dimenticare le polemiche, gli insulti, i tormentoni: questo è il senso della citazione di Ungaretti che metto in apertura.

L’ho scritto perché mi sembrava impossibile che di un evento così grande, che di certo aveva determinato la vita di mia nonna, e, a scendere, di mio padre e un po’ anche la mia, nessuno di noi sapesse nulla.

È stata, quindi, principalmente una necessità privata, il bisogno di coprire un buco, di capire come questa storia – l’infoibamento, la vita da esule – avesse lasciato traccia nei nostri rapporti intergenerazionali.

Il libro l’ho dedicato a mia figlia, perché è stato dopo la sua nascita che ho sentito il bisogno di andare a colmare quel buco, quasi avessi bisogno di spezzare un cerchio, di promettermi che ciò che era arrivato a me – un sacco di nevrosi – non sarebbe arrivato a lei. Però è idealmente dedicato anche a mio padre, che è stato il primo a tornare, in quel 1988 di cui racconto nel libro, e che, anche se Senza salutare nessuno racconta pure dei suoi problemi, della sua vita, e di tante cose che forse molte altre persone avrebbero preferito tacere, mi ha sempre appoggiata nella mia idea di scriverne – è un po’ come se lui mi avesse invitata a fare il contrario di ciò che aveva fatto sua madre: è come se mi avesse sempre detto parla, cerca, scrivi, e non lasciare che quel silenzio in cui io sono cresciuto contagi anche te.

 

Un nervo emotivo e sentimentale scoperto e vibrante nelle pagine del libro è la relazione tra madre, tua nonna paterna, e il figlio, che nasconde un aspetto patologico che tu accenni con riserbo e incisività insieme: attacchi di panico per lei e l’anoressia per lui. Entrambi non riconosciuti dagli stessi o perlomeno celati a se stessi e agli altri. Segno tangibile di come la Storia lasci dei segni per generazioni su chi ne è vittima, non sempre visibili ma sempre presenti. In questo modo il taglio dell’analisi storica è di grande potenza: non indagare semplicemente la Storia attraverso le vicende familiari, ma seguire i riverberi taglienti e affilati con cui la Storia viviseziona le famiglie di cui ha fagocitato i membri.
Sotto l’aspetto della relazione tra la madre e il figlio, il titolo ossimoricamente riluce della distanza che separa l’una, che ha lasciato il suo paese “senza salutare nessuno”, e l’altro che desidera il “ritorno in Istria”, seppure temporaneo e vacanziero, e in un certo senso lo tramanda e trasmette a te, pur nella sofferenza patologica che è la prova del suo groviglio introspettivo e intimo.
In “Senza salutare nessuno. Ritorno in Istria” c’è anche la volontà o il desiderio di rispondere a un quesito lacerante sul motivo del silenzio di tua nonna e su quanto abbia influito su tuo padre? È più faticoso il peso del silenzio o quello della testimonianza, di cui i nonni materni si fanno paladini?

Fotomia“Senza salutare nessuno” nasce proprio da questo, dal bisogno di capire chi fosse mio padre, di indagare la relazione tra me e lui, una relazione fatta di grande affetto ed enormi sfuriate, di mille “non-diventerò-mai-come-lui” e di una inevitabile, quasi fatale somiglianza. Ma ogni volta che mi chiedevo perché mio padre fosse così, finivo sempre a cozzare contro il rapporto tra lui e sua madre – una madre che, come la descrive lui in una frase, non è neanche andata al suo matrimonio. Una madre che era stata segnata da un trauma che non ha mai affrontato, ma che continuava a rispuntare, presentandosi sotto forma di depressione, comportamenti assurdi, inspiegabili silenzi – la sofferenza, in fondo, si presenta sempre in modo simbolico, diventa altro, i traumi ci attraversano e ci sopravvivono attraverso le nevrosi che nutriamo in noi e trasmettiamo a chi cresciamo.

Per quanto riguarda la dicotomia silenzio / testimonianza che ho vissuto in famiglia, devo dire che la posizione di mia nonna materna è diversa. Lei è una donna coraggiosa, partigiana, una maestra impegnata, potrei dire femminista ante-litteram, insomma, è chiaro che io sono cresciuta nella sua sfera. Però lei durante la guerra non ha subito gravi lutti, e in seguito non ha mai avuto nulla da nascondere. Mia nonna paterna, un po’ per il trauma, un po’ per il carattere, ma anche per la pessima accoglienza che è stata riservata ai profughi giuliani nel dopoguerra, ha dovuto nascondere quanto è successo – anche perché, chi provava a raccontarli, veniva spesso accolto con una sorta di victim-blaming (tanto per dire: in molti campi profughi la sera dovevano organizzare una sorta di vigilanza, perché li andavano a prendere a sassate, in virtù di quella etichetta di “fascisti” che calò sulla popolazione di una regione, l’Istria, che in realtà non era stata più fascista delle altre, semmai meno).

Quindi, in un certo senso, posso dire che capisco il perché del suo silenzio. Molte persone mi hanno detto che hanno faticato ad aprire il mio libro perché stanno male solo a sentir parlare dell’Istria. Questa sofferenza non è stata capita, sembrava quasi che i profughi fossero arrivati per capriccio, un po’ come i rifugiati di oggi, quelli che per alcuni arrivano “per avere il wi-fi gratis”.

Che poi, chissà quanto la testimonianza davvero possa salvare. Un anno avevo a scuola un ragazzo africano che era arrivato in Italia dopo una guerra civile, la marcia nel deserto, i barconi. Dei ragazzi del corso diurno gli chiesero di poterlo filmare mentre raccontava la sua storia, ne fecero un piccolo documentario, lo proiettarono, tutti si commossero… però lui stette male per settimane. Alla fine acconsentì a tornare a scuola solo dopo la promessa solenne che nessuno, mai più, “gli avrebbe fatto raccontare quelle cose”.

Ci siamo sentiti tutti molto in colpa per quella vicenda, come se avessimo toccato per mano il fatto che il dolore altrui è altro rispetto a noi e alle nostre buone intenzioni.

Quindi: la testimonianza fa bene a noi, ma non so quanto a chi certe cose le ha subite davvero, che, più che da noi, avrebbe bisogno di essere aiutato da specialisti che sanno come affrontare i traumi. Di certo la testimonianza serve a lasciar traccia, questo sì. Ma bisognerebbe anche sempre chiederci che cosa vogliamo farcene di queste tracce d’orrore, che senso ha continuare ad accumularle – nuovi orrori che vanno ad aggiungersi agli orrori di ieri – e se non valga la pena, anzi, di provare a riflettere seriamente su quali meccanismi rendono la storia, per dirlo alla Morante, “uno scandalo che dura da diecimila anni”.

 

Tu stessa nei ringraziamenti finali non sai definire con precisione a quale genere possa appartenere il tuo libro: “memoir, reportage, storia familiare, o forse tutte queste cose insieme”. Tutte queste cose insieme, per me. Ma anche ritmo romanzesco con cui prendi per mano il lettore e lo porti con te nei sentieri della memoria e tra le strade dell’Istria.

Soprattutto grazie a un uso del tempo non lineare, come non è lineare la storia della tua famiglia che si perde in sentieri poco battuti o ricoperti da foglie di omissioni e di silenzi, come la foiba di Vines. 

«Potrebbero mettere almeno una targa».

«Ripulire la strada».

«Un cartello, quantomeno». I miei amici sono tutti arrabbiati: è incredibile che la Croazia tratti così uno spazio della storia.

Ma forse nulla dice più dell’insensatezza e del mistero della morte di quanto abbiamo trovato: foglie. Foglie che sono ricresciute così violente da cancellare ogni traccia di una storia che, nell’avanzare degli orrori futuri e del tempo, verrà a sua volta inghiottita dal nulla.

Cosa avevi intenzione di scrivere, oppure sin dall’inizio dell’elaborazione del libro sapevi e credevi che dovesse essere “tutte queste cose insieme”?

FotomiaIl libro è nato quasi per caso, anche se ho sempre saputo che, su questo argomento, prima o poi avrei scritto. Dopo la nascita di mia figlia sono tornata nella vecchia casa di Agordo, dove non tornavo da decenni: come tante neomamme, ho ripreso a frequentare la montagna. Lì mi sono accorta che mia nonna non aveva lasciato quasi nessun ricordo, niente lettere, pochissime foto, una cosa strana per una persona vissuta in epoca predigitale. Ho trovato solo quelle due fotografie del padre che ho messo nel libro, e mi sono incuriosita. Su facebook ho scovato dei gruppi di persone di origine istriana, e ho cominciato a cercare contatti, ho preso una valanga di libri, e l’estate seguente sono andata ad Albona. Non sapevo cosa ne sarebbe nato, poteva anche essere semplicemente l’argomento di una conversazione tra amici, chi mi conosce sa che sono così, scrivo continuamente ma salvo pochissimo di ciò che scrivo, sono poche le cose che mi sembra valga la pena di continuare. Tornata dal primo viaggio in Istria ho buttato giù, di getto, i primi due capitoli, li ho riletti, li ho fatti leggere, ho deciso di continuare. Il primo capitolo è di stampo più prettamente autobiografico, il secondo ha più la forma di un reportage. A quel punto ho pensato di inserire, invece, la storia, perché una delle domande che mi martellava era capire esattamente cosa era successo – quindi, è come se ci fossero tre movimenti insieme: l’autobiografia, intesa come racconto della mia vita ma anche come racconto della vita di coloro che mi hanno messa al mondo; il reportage sui miei viaggi nell’Istria contemporanea; l’approfondimento storico. Sapevo che tenere insieme queste tre direzioni richiedeva un grande lavoro di montaggio, e quindi ho lavorato sul montaggio alternato, tagliando molto e creando dei salti, sia spaziali che temporali, che rendono avvincente una storia che, altrimenti, poteva essere di una noia mortale. In questo modo, di una bozza enorme di circa 600 pagine, ne ho salvate 150. Anche con Quelli che però è lo stesso era andata così. Mi piace molto provare a scrivere libri che non hanno una vera e propria trama, ma che riescono lo stesso a far girare la pagina al lettore, rendere avvincente ciò che potrebbe essere noioso, leggero ciò che potrebbe essere pesante – dieci anni nei professionali della periferia romana a spiegare Dante non sono passati invano!

 

Anch’io, da quando sono a Potenza, insegno in un professionale. Sarà forse per questo che ogni volta che leggo i tuoi contributi sulla scuola sento una profonda empatia e riconoscimento con le tue parole.
L’approfondimento storico nel tuo libro non è solo la documentazione e le informazioni su una pagina troppo spesso trascurata nei libri di storia e strumentalizzata da una parte, privandola così della veridicità e della drammaticità. Ma è anche un fine esercizio di analisi storica che tu porti avanti con acume, freddezza e lucidità grazie allo sguardo limpido e scevro da qualsiasi forma di pregiudizio ideologico o personale.
Mi piace citare in particolare una pagina che mi sembra contenga il nodo centrale di una accurata disamina storica su quello che rappresenta la storia dell’Istria nella storia italiana e più in generale europea.
Una delle tante su cui mi sono soffermata a riflettere, perché il tuo libro va letto con il giusto tempo e le necessarie pause, per far sedimentare le tante suggestioni che contiene.

Il nazismo faceva della morte una mostra permanente di corpi maciullati: qualcosa a metà tra il terrorismo e una vaga, sottile perversione estetica che sembra quasi godere delle sevizie sulla carne; il comunismo, invece, la morte la nascondeva.
Il nazismo trucidava, il comunismo faceva sparire.
E c’era maggiore pietà nel sottrarre i morti alla vista dei viventi, oppure era una forma di manipolazione psicologica più sottile, più perversa? Non era meglio poter continuare ad immaginare il proprio caro in vita, piuttosto che vedere i suoi resti, contare sulla pelle le torture subite prima di dare l’ultimo respiro?
Ma, alla fine, era pietà, o era viltà?
Forse il comunismo nascondeva i suoi morti perché non erano previsti alla radice come nel nazifascismo, perché il comunismo voleva essere ideologia d’amore e non di morte, perché altrimenti come si fa a dire che “il primo socialista fu Gesù”, perché il comunismo voleva portare la pace, ma che pace può esserci quando dalla terra riemergono corpi smembrati di ostetriche e di donne incinte?

Ma, alla fine, Silvia, era pietà, o era viltà?

FotomiaCredo viltà, o, meglio, volontà di nascondere le contraddizioni che hanno segnato il muoversi nel mondo reale di un’ideologia che, teoricamente, è bellissima, ma che a contatto con la realtà ha finito solo per creare dei regimi illiberali.

Forse, dietro questo libro, ci sono state anche altre suggestioni accumulatesi nel tempo – il dottorato di ricerca su “La Storia” della Morante, che ha portato con sé lo studio di Simone Weil, e poi uno studio che feci diversi anni fa sulle autobiografie degli ex brigatisti, in cui c’era quasi sempre una sorta di cortocircuito tra le tante idealità sognate e le cose che avevano fatto per metterle in pratica – degli omicidi. Mi è rimasto in testa anche un libro molto bello di una scrittrice italotedesca, “Il rogo di Berlino”, in cui in tutta la parte finale è raccontato ciò di cui si è sempre parlato sottovoce, ossia dell’arrivo dell’Armata Rossa in città e degli stupri delle donne tedesche. Nessun cambiamento può essere sostanziale se prima non c’è una radicale accettazione dell’integrità della persona altrui, se non si rifiuta nettamente il fatto che l’altro, il corpo dell’altro, possa diventare un oggetto. Lungi da me voler giudicare gli anni di guerra col punto di vista di oggi, ma credo che, in seguito, andasse aperto un dibattito sul rapporto tra la sinistra e la violenza; una cosa che ha fatto il femminismo, che ha portato veramente dei modi nuovi di pensare. Sui social, insieme alle varie e solite aberrazioni che si leggono scritte da persone di destra, che neanche commento, capita anche di vedere commenti di persone di sinistra che sembrano ricalcati su quelli di destra – i vari “dovevamo infoibarli tutti”, “tutti appesi”, etc etc. è un tipo di comunicazione da cui la sinistra dovrebbe liberarsi completamente, perché la forma non è qualcosa di altro rispetto alla sostanza, la forma rivela quella che è la reale sostanza – non credo che un contenuto giusto possa essere espresso in modo violento, perché la violenza alla fine rimanda solo a se stessa, per dirla alla Simone Weil, la spada contamina tutti e tutto, sia che la si tocchi dall’impugnatura che dalla punta.

 

“Senza salutare nessuno” è un libro coraggioso e necessario, perché cerca di fare giustizia ai torti che la Storia talvolta infligge a determinati eventi. Forse quello delle foibe è il più rappresentativo.
In un’ottica più generale e universale, il tuo libro riesce a mettere in luce le contraddizioni insite nella Storia, le lacerazioni che la violenza sempre procura da una parte e dall’altra.
Giunte all’ultima domanda, ti chiedo: il libro è dedicato a tua figlia, spesso in esso e in questa nostra chiacchierata hai evidenziato un punto di svolta nella maternità e nella nascita di Eleonora come sprone per far luce nella storia della tua famiglia incappando in una dei punti della Storia più difficili e oscuri del Novecento.
A chi lo affidi? Alle nuove generazioni nella speranza che conoscano, o alle generazioni mature perché sia uno stimolo a riflettere e fare chiarezza?

FotomiaCome racconto nel libro, io vengo da una situazione un po’ particolare: un bisnonno comandante partigiano, un bisnonno infoibato, una nonna staffetta partigiana, una nonna esule dall’Istria; insomma, era come se, dentro di me, riassumessi i due poli di una polemica lunga, molto artificiosa, tra i fautori di “e allora le foibe?” e quelli che le considerano solo una strumentalizzazione antipartigiana. A me, sinceramente, non è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di usare la storia delle foibe in chiave antipartigiana: sono cresciuta sulla vecchia linea gotica, ho passato le mie serate in paesi massacrati dai nazifascisti, figuriamoci se mi metto a polemizzare con la resistenza – ma d’altra parte pensavo che anche la storia delle foibe andasse raccontata, che era mia, di molti altri, e che non era giusto lasciarla in mano alle strumentalizzazioni. Insomma, meglio che la racconti io invece di Gasparri.

Così, sarei felice se questo libro venisse letto da chi ha letto poco o nulla sul tema, da chi è stato respinto dalla strumentalizzazione dell’estrema destra: vi posso assicurare che si può approfondire la storia delle foibe senza finire a fare saluti romani o a marciare su Fiume. Anzi, più scrivevo questo libro e più mi convincevo che il nazionalismo porta sempre a degli orrori – perché, in sostanza, è stato il nazionalismo, sia italiano che slavo, a distruggere quella piccola meraviglia che è l’Istria, una regione che è stata multietnica molto prima che si cominciasse a parlare di multietnicità; per non dire poi quello che ha fatto nelle regioni slave negli anni Novanta.

Quindi: lo affido a chi ha voglia di lasciarsi guidare in un percorso in un piccolo lembo di terra in un piccolo spazio di tempo – perché praticamente io racconto di quello che è successo in una piccola città, Santa Domenica di Albona, in circa venticinque anni – e a chi ha voglia di riflettere su come certi eventi finiscono per lasciare le loro tracce di generazione in generazione.

Al di là delle continue polemiche che puntualmente vengono fuori tra Italia, Slovenia e Croazia, in questi viaggi ho conosciuto invece tante persone, associazioni, gruppi che cercano di oltrepassare il confine, creare realtà in cui gli istriani italiani si confrontano con i rimasti in Ex Iugoslavia, coi croati e con gli sloveni. In tempi di nazionalismi ruggenti – perché noi vediamo il nostro, ma anche quelli oltreconfine non scherzano – vorrei ricordare anche tutte queste persone che sanno che non è più tempo di rancori, e che conoscere il passato non serve a rinfocolare vecchi odi, ma a superarli per trovare nuove forme di convivenza. 

 

Per salutarci, ringraziandoti della generosità con cui ti sei offerta in questo confronto, vorrei affidare ai prossimi, e spero numerosi, lettori di “Senza salutare nessuno” una tua riflessione presente nel libro, che credo possa ben valere come invito alla lettura:

Chiudo il libro: ho la nausea.

Vado in camera, guardo mia figlia.

È da quando sono rimasta incinta che ho cominciato a provare questo orrore fisico, non razionale, per la violenza; è come se qualcosa dentro me si ribellasse a questa furia insensata che può travolgere la cura, la dedizione con cui ha preso forma un corpo; è come se il mio cervello si rifiutasse di accogliere la schizofrenia del mondo: come se mi sembrasse impossibile, illogico, che nello stesso universo possano coesistere la profondità dell’amore che provo e la violenza della storia.

Chiacchierando con… Silvia Dai Pra’
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