di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

LETTERE E LETTURE D’AMORE

Antonello&Alice

In occasione dell’uscita in libreria di “Guido Gozzano Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore” per Compagnia Extra di Quodlibet, Mercoledì 11 settembre abbiamo proposto una lettura scenica d’atmosfera con interventi musicali, a cura di Luca Menozzi, Emanuela Cardelli, Daniele Alberini e Davide Cotena.
La serata è stata aperta dall’omonima poesia di Fernando Pessoa ‘Tutte le lettere d’amore’, seguita da ‘Lettere’ di Alda Merini, accompagnate dalla canzone ‘Sigillata con un bacio’ di Franco Battiato. Il programma, poi, è proseguito con due lettere di Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano e ‘La canzone dell’amore perduto’ di Fabrizio De André.
Terza parte dedicata a Sibilla Aleramo e Dino Campana e la canzone di Vinicio Capossela ‘Non è l’amore che va via’.
Segno francese per il quarto intervento, con le lettere di Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre insieme alla canzone di Jacques Brel ‘La canzone dei vecchi amanti’. Hanno chiuso lo spettacolo le lettere di Frida Khalo e Oscar Wilde accostate alla canzone ‘Tutto l’universo obbedisce all’amore’ di Franco Battiato.

Le lettere pubblicate da Quodlibet riprendono l’edizione di Spartaco Asciamprener in mancanza degli originali perduti. La cura e la postfazione, in questo caso sono di Franco Contorbia, uno dei più attenti e qualificati studiosi del grande poeta Gozzano. Si riporta così alla luce il famoso epistolario fra i due poeti, scritto tra il 1907 e il 1912, pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 1951.
Gozzano, il poeta decadente e crepuscolare e la poetessa spregiudicata, capace di un linguaggio scandaloso e disinibito per i primi del ‘900. Una passione che sfida i canoni consueti in queste lettere che vengono spedite da luoghi diversi, le loro case, i siti alla moda fra gli intellettuali, in Italia e anche nel mondo, persino dall’India, dove Gozzano era andato a cercare la guarigione dalla tisi che lo minava, e lo ucciderà a soli trentadue anni.

Storia d’amore sbilanciata e faticosa, di un Gozzano attratto, poi riluttante; lei poetessa accanita, emancipata e vitalissima, che forse metteva anche paura. Il carteggio, mai più ristampato dal 1951 per la perdita delle lettere originali, si sviluppa come un insolito romanzetto sentimentale tra l’aprile 1907 e la fine del 1910, con una piccola resurrezione dopo il 1912, estinguendosi per naturale consunzione. Di estremo interesse per chi ama Gozzano; qui può ritrovarlo nella sua schiva ed esitante vita amorosa.
Guido Gozzano (Torino 1883-1916), celebre e oggi classico poeta, considerato a sua insaputa crepuscolare. Le sue raccolte di poesie sono “La via del rifugio” (1907) e “I colloqui” (1911); le “Epistole entomologiche” sono uscite postume, e così pure le prose di “Verso la cuna del mondo” (1917) che illustrano il suo viaggio in India per curare la tubercolosi.
Amalia Guglielminetti (Torino 1881-1941), poetessa, durante la relazione con Gozzano aveva pubblicato “Le vergini folli” (1907), “Le seduzioni” (1909), “Emma” (1909). Ebbe poi un burrascoso e breve amore con Pitigrilli, finito in tribunale. Scrisse anche diversi libri di narrativa, per l’epoca audaci. Passò a Torino gli ultimi anni di vita in solitudine.

Tra tutte le Lettere d’amore lette in libreria, durante questa serata magica, un posto a parte hanno avuto quelle di Sibilla Aleramo e Dino Campana tratte dal libro “Un viaggio chiamato amore – Lettere 1916-1918”, raccolta di lettere scambiate tra la scrittrice e il poeta, a cura di Bruna Conti, edita da Feltrinelli nel 2000. Da questo carteggio è stato tratto il film “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido del 2002, con Stefano Accorsi nel ruolo di Campana e Laura Morante nel ruolo di Sibilla Aleramo.

Passioni e sentimenti, paure, tenerezze, invocazioni, tradimenti, ricongiungimenti, botte e minacce, miseria e malattia: tutto sotto ?Un cielo fatto solo d’amore”. È l’incontro di Dino Campana con Sibilla Aleramo, incontro straordinario, come le lettere che i due amanti si scrissero. Ogni pagina di questo carteggio è un viaggio, esaltante e senza soste, che ha inizio sotto il sole infuocato dell’agosto 1916, fra la vera montagna dei solitari e la pure bellezza dei grandi boschi e prosegue serenamente negli ultimi splendori della bella stagione a Faenza e Marradi, fino a quando il vento invernale non li trascina in paesi sperduti dell’Appennino, dove il freddo morde ancora più che nelle soffitte dei Lungarni e nelle ville sulle colline di Firenze che li accoglieranno. Il percorso si fa tortuoso – come le vicende alle quali si assiste – segnato da un continuo andirivieni fra Pisa, Livorno, Firenze, Sorrento.
È ormai il 1917: sullo sfondo l’anno più duro della guerra, in primo piano i due amanti e il loro disperato tentativo di trovarsi e abbandonarsi, affidato ormai soltanto alle lettere che si incrociano tra la Toscana e il Piemonte. Poi, nel gennaio del 1918, davanti al cancello del manicomio di San Salvi, il viaggio si interrompe. I Canti Orfici, unica e grande opera di Campana, lo manterrà vivo oltre la morte, avvenuta dopo un internamento di quattordici anni.

Sempre per Quodilibet è uscito in questi giorni un bellissimo libro di Giani Stuparich contenente il racconto lungo “L’isola” seguito da «Il ritorno del padre», pubblicato da Quodlibet a cura di Giuseppe Sandrini.
Giani Stuparich (1891-1961) è stato l’ultimo rappresentante della grande stagione della letteratura triestina. Tra le sue opere più significative ci sono il diario “Guerra del ’15” (Quodlibet, 2015), dedicato all’esperienza sul Carso come volontario, e il romanzo “Un anno di scuola” (Quodlibet, 2017), storia di una classe di ginnasio e di un amore adolescenziale sullo sfondo della Trieste di inizio Novecento.

Un trentenne, nella pienezza della vita, lascia la sua villeggiatura alpina per accompagnare il padre in quello che sarà l’ultimo viaggio di un vecchio uomo di mare, malato e prossimo alla morte. La meta è Lussino, l’isola istriana (oggi in Croazia) che la famiglia ha lasciato per stabilirsi nella Trieste italo-slava-tedesca, crogiolo di genti e porto dell’Impero asburgico. L’azzurro dell’Adriatico avvolge genitore e figlio, legati da una muta tenerezza che ripropone, a parti invertite, il fiducioso abbandono che ogni bambino cerca nel padre.
L’isola (1941) narra l’«avvenimento più importante nella vita di un uomo», secondo la diagnosi di Freud di cui già aveva fatto tesoro, a Trieste, lo Svevo della Coscienza di Zeno. Ma è anche il ritratto di un ambiente marino, di un borgo sperduto in fondo a un golfo che Stuparich dipinge con mano felice, ritrovando i colori appresi nell’infanzia, quando (come si legge nel più breve racconto Il ritorno del padre, compreso nel volume) la figura di quell’uomo burbero ed energico era entrata per la prima volta nella sua vita, come un libero vento.

Da segnalare anche “Guerra del ’15”. Un diario di guerra «fresco e vivo di vita, che afferra la cosa rappresentata con potenza incancellabile» (Carlo Emilio Gadda). Giani Stuparich decorato della medaglia d’oro al Valor Militare, allo scoppio della Guerra nel 1915 si arruola come volontario e diviene Sottotenente nel 1º Reggimento dei Granatieri di Sardegna, insieme al fratello Carlo e all’amico Scipio Slataper. Combatte prima sul Carso presso Monfalcone e poi sul Monte Cengio. Ferito due volte, viene fatto prigioniero e internato in successione in cinque campi di concentramento austriaci.

Due mesi di trincea raccontati, «di giorno in giorno, anzi d’ora in ora, da un semplice gregario». Questo è, nelle parole dell’autore, il succo di Guerra del ’15, una delle testimonianze più belle e più vere che siano state scritte sul primo conflitto mondiale. «Dal suo umile posto» Giani Stuparich, volontario triestino, intellettuale arruolatosi come un soldato qualunque tra le truppe italiane che, falciate dalle artiglierie, cercano vanamente di strappare agli austriaci le alture del Carso, ritrae la guerra in un diario «fresco e vivo di vita», che «afferra la cosa rappresentata con potenza incancellabile», come notò Gadda recensendo la prima edizione del libro (1931). «Ferma, contenuta, umana», la narrazione di Stuparich restituisce l’esperienza di un giovane, laureato a Firenze e collaboratore della «Voce», che affronta l’inferno della guerra, a fianco del fratello minore Carlo, con lo spirito di servizio e di solidarietà che solo un grande ideale può suggerire. Ma questo ideale, l’Italia, rimane fuori dalla trincea, dove contano solo la coscienza di appartenere a una generazione cruciale, il senso del dovere ereditato dalla famiglia e l’attaccamento alla vita moltiplicato dalla presenza continua della morte.

Partiamo con il consigliare vivamente un libro appena arrivato sugli scaffali e già acclamato da tutti come un capolavoro, “Archivio dei bambini perduti” di Valeria Luiselli edito da La nuova frontiera, con la traduzione di Tommaso Pincio.
Valeria Luiselli, nata nel 1983 a Città del Messico, vive a New York e collabora con numerosi giornali e riviste di lingua spagnola e inglese (The New York Times, The New Yorker, Granta, The Guardian, El País e McSweeney’s). Il suo talento è emerso nell’ultimo decennio grazie a tre romanzi (“Volti nella folla”, “La storia dei miei denti” e “Archivio dei bambini perduti”) e a due saggi (“Carte false” e “Dimmi come va a finire”) che spiccano nella letteratura americana contemporanea per lo stile asciutto, quasi giornalistico, e per la forza di misurarsi con storie di cogente attualità. Con “Archivio dei bambini perduti, Valeria Luiselli ha scritto il grande romanzo del presente americano. Tra paesaggi desertici, polverose città di frontiera e soste in motel, si delinea una nuova mappa degli Usa, un territorio profondamente segnato dalla storia, dalle migrazioni e dalle conquiste. Lo stesso paesaggio che, in cima a un treno merci, è attraversato ogni giorno da bambini perduti, con un numero di telefono cucito sui vestiti. Raccontando il dramma dei bambini e ragazzi che migrano clandestinamente negli Stati Uniti, Valeria Luiselli scrive un “lessico familiare” originale, seducente, indimenticabile.

Una macchina avanza sulle strade americane. All’interno una coppia e i due bambini nati da precedenti relazioni. Il padre e la madre sono documentaristi, si sono conosciuti durante una mappatura degli idiomi parlati a New York, la metropoli linguisticamente più eterogenea del pianeta. Si sono lasciati alle spalle la casa in cui sono diventati una famiglia. Davanti a loro una lunga lingua d’asfalto che li spinge verso un futuro incerto. Sono diretti in Arizona: il padre vuole visitare il luogo dove l’ultima banda di guerrieri apache si è arresa all’esercito americano. La madre vuole invece vedere con i propri occhi la realtà di quella che i notiziari chiamano “emergenza migratoria”: bambini che attraversano da soli il confine. In un alternarsi di paesaggi desertici, polverose città di frontiera e soste in motel, si delinea una nuova mappa dell’America d’oggi, un territorio profondamente segnato dalla storia, dalle migrazioni e dalle conquiste. Lo stesso paesaggio che, in cima a un treno merci, attraversano anche i bambini perduti con un numero di telefono cucito sui vestiti. Con “Archivio dei bambini perduti” Valeria Luiselli ha scritto il grande romanzo del presente americano, un lessico famigliare composto di voci, testi, suoni e immagini che unisce al senso politico dello scrivere l’idea che vita e letteratura siano un unico e sterminato labirinto di echi e rimandi continui. Un nuovo classico che rompe ogni schema. Nelle mani di Luiselli il romanzo torna a essere veramente nuovo: elettrico, flessibile, seducente e originale.

Ben due sono le novità della casa editrice Sur, in libreria dal 5 settembre:
«Disincontri» di Julio Cortázar, con la traduzione di Ilide Carmignani;
«Let’s Go (So We Can Get Back). Una storia di dischi e discordie con i Wilco (e non solo)» di Jeff Tweedy nella traduzione di Lorenzo Medici.

Let’s Go (So We Can Get Back) è l’autobiografia di una rockstar atipica. Jeff Tweedy è la voce (e la testa) dei Wilco, uno dei gruppi più rappresentativi dell’indie rock esploso tra gli anni Novanta e i Duemila; nato e cresciuto nel Midwest, incarna un ideale dimesso e vagamente romantico dell’artista di provincia, che guarda con divertita lontananza le lusinghe dello star-system, e lo mostra tanto nella postura che tiene sul palco e di fronte ai media quanto nella musica e nei testi che scrive. Le sue canzoni, che si nutrono in egual misura di malinconia e di ironia, di poesia e di nonsense, trovano un’eco in questo volume, selezionato da Rolling Stone e da Pitchfork come uno dei migliori libri di musica del 2018. Superata la soglia dei cinquant’anni, Tweedy sceglie infatti di soffermarsi sui lati più privati e genuinamente umani del suo lavoro: riflette sull’importanza della famiglia sopra quella della carriera, racconta amicizie e dolorosi allontanamenti, analizza i pro e i contro delle droghe, rivela curiose intuizioni sull’arbitrarietà del processo creativo, si prende gioco degli stereotipi che circondano la figura del musicista e del «maschio» americano (senza mai risparmiare sé stesso). Un memoir disincantato e toccante, uno sguardo personalissimo su cosa significa essere una rockstar nell’era della morte del rock.
Coincidenze, sogni, ricordi: di questo sono fatte le otto storie che compongono “Disincontri”, la raccolta di racconti che Cortázar ha pubblicato nel 1982: l’ultima, e dunque tra le più mature, in cui lo stile inconfondibile del genio anarchico della letteratura argentina è insieme gioco e riflessione su cosa significhi realmente raccontare. Così, le voci dei protagonisti e quella dell’autore si sovrappongono: c’è Cortázar, quello vero, che in una lettera all’attrice Glenda Jackson confessa il proprio timore di non saper più distinguere realtà e finzione. C’è un giovane che, nel mettersi a scrivere di Sara, il suo amore d’infanzia, finisce per rincontrarla davvero. C’è una scuola che di notte si trasforma; c’è la boxe, come sempre, quel ring che è metafora di attese e sconfitte. C’è un diario, paradossale, in cui l’autore-protagonista si dice incapace di descrivere Anabel, la donna per la quale traduce lettere e di cui viene fuori, invece, un ritratto vivissimo. Sono messaggi in bottiglia questi racconti, spontanei e misteriosi. Pubblicati per la prima volta in un volume a sé e nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, sono chiavi per porte che non si aprono, puntuali come un contrattempo, familiari e spiazzanti come un déjà-vu. Che lo si legga da sempre o per la prima volta, l’incontro con Cortázar è sempre un «disincontro».

Nel programma della ventitreesima edizione di Festivaletteratura, che si è tenuto a Mantova da mercoledì 4 a domenica 8 settembre 2019, oltre trecento appuntamenti previsti in programma, c’era Éric Chevillard. L’autore è stato ospite al Festivaletteratura di Mantova il 7 settembre al Conservatorio di Musica Lucio Campiani assieme a Marcello Fois.

Éric Chevillard nasce nel 1964 a La Roche-sur-Yon, nel dipartimento della Vandea. Dal 1987 a oggi, con la rinomata casa editrice Les Éditions de Minuit, dà alle stampe oltre venti lavori e ottiene moltissimi riconoscimenti per l’insieme della sua opera: dal Prix Fénon con La nébuleuse du crabe al Prix Welper con Le Vaillant Petit Tailleur, passando per il Roger-Callois, il Virilio e il Vialatte. I suoi testi sono caratterizzati da un taglio sperimentale e surreale, orgogliosamente sognante e metaletterario, a tal punto da spingersi fino alla decostruzione della struttura stessa della narrazione come nel caso di Sul riccio, pubblicato nel 2019 in Italia da Prehistorica Editore. Tra un libro e l’altro, scrive sulle colonne del suo seguitissimo blog letterario, L’Autofictif. Di Éric Chevillard, salutato come uno dei più originali e innovativi autori della nuova scena letteraria francese, Del Vecchio edizioni ha da poco pubblicato “PALAFOX” nella traduzione di Gianmaria Finardi con cover di Maurizio Ceccato.

Incostante ma coerente, inafferrabile ma pungente, improbabile ma impegnativo, Palafox è spuntato da un uovo sulla tavola di Algernon Buffoon, ambasciatore inglese in pensione. A prima vista, tutto lascia pensare che Palafox sia un pulcino, un semplice pulcino, dato che il suo uovo vola in mille pezzi, uno struzzo come ne escono ogni giorno in giro per il mondo, alto sulle zampe e dal collo smisurato, un cucciolo di giraffa molto ordinario, con il pelo giallo maculato di bruno, uno di quei leopardi silenziosi e temibili, volentieri mangiatori di uomini, uno squalo blu come tutti gli squali blu, assetato di sangue, insomma una seccante zanzara in più, con la sua tromba così caratteristica, un banale elefantino, ma presto si inizia a dubitarne. Palafox gracida. Palafox ci lecca la faccia e le mani. Allora le nostre certezze vacillano.

Sempre Del Vecchio editore ha pubblicato nel 2014 “Sul soffitto” di Éric Chevillard. Un’incredibile favola surreale sull’esclusione e la tolleranza scritto da un autore considerato da molti l’erede di Queneau, Ionesco e Jarry.Sul soffitto è il suo primo libro tradotto in italiano. I suoi romanzi sono degli strani romanzi. La sua idea è quella di reintrodurre il gioco, la fantasia, la sorpresa, l’imprevisto in tutte quelle forme diventate ormai luoghi comuni, in cui tutto sembra fissato e ordinato da una sorta di fatalità, come le esistenze stesse, programmate dalla nascita alla morte

Il protagonista è un uomo ordinario, abiti grigi, altezza media, tratti comuni. Ma il mondo non è fatto a sua misura, la sua vita è complicata da una strana caratteristica: gira sempre con una sedia rovesciata sulla testa. Deve quindi chinarsi per passare attraverso qualsiasi porta, può guidare soltanto una cabriolet e deve per forza indossare abiti abbottonati sul davanti. Nulla, ma proprio nulla – si lamenta – è stato progettato per rendergli la vita più confortevole. Per avere un mondo a sua misura, c’è una soluzione: trasferirsi sul soffitto. E sul soffitto trascinare gradualmente chi gli è caro e chi si colloca, come lui, in un diverso ordine di percezione della realtà. Per esempio Kolski, che vuole realizzare una scultura fatta del suo stesso odore corporeo, o la signora Stempf, che si rifiuta di dare alla luce i propri figli, perché immagina il parto come uno sfratto forzato per mano di rudi insensibili. Costretti ad allontanarsi dal loro rifugio di fortuna, in un quartiere abbandonato di Parigi, e dopo essersi trasferiti a casa di Méline, che vive ancora con la sua famiglia “convenzionale”, si renderanno presto conto che la camera da letto della ragazza è troppo piccola per accogliere tutti. Così, i nuovi arrivati decidono di spostarsi sul soffitto. Lì c’è più spazio. Ma anche il soffitto comincia ad assomigliare dopo un po’ al mondo a rovescio; sembra afflitto dalla medesima e fastidiosa convenzionalità. La prosa sorprendente e irriverente di Chevillard e il suo bizzarro umorismo illuminano la complessità di temi come esclusione, diversità e accoglienza, dando ai lettori la possibilità di vedere le cose da una prospettiva decisamente differente.

Recuperi: La Fondazione Leonardo Sinisgalli mi ha onorato, nel mese scorso, di essere insieme a Giuditta Casale e Biagio Russo a presentare il libro di Claudia Durastanti, “La Straniera”, agli Orti di Merola di Montemurro. Libro del 2019 per me. Durante la serata frizzante per fare il mio numero ho raccontato che c’era un libro di Minimum Fax, del 2016, che non mi aveva del tutto convinto, “Cleopatra va in prigione”. Non è opportuno in serate come queste non parlare bene di un libro, sulla carta non sarebbe elegante. Ma io sono la personificazione della schiettezza e mi chiamano anche per questo e non a caso, in queste settimane in tanti, presenti a quella serata, mi hanno scritto per complimentarsi e chiedermi se, poi, quel libro lo avessi riletto. Io come promesso a Giuditta e a Claudia lo ho riguardato e alla luce de “La straniera” devo fare le mie scuse. Un libro breve e intenso nelle sue 120 pagine: la trama, il linguaggio innovativo, una scrittura asciutta ed efficace e una periferia di Roma sconosciuta ai più. Non credo che avremmo la bellezza de “La Straniera” senza Cleopatra. In attesa che Claudia arrivi a Parma ai Diari il 30 novembre ne suggerisco la lettura ai tanti che hanno apprezzato “La Straniera”.
“Ogni giovedì Caterina va a trovare il suo ragazzo in prigione”. Questo è l’incipit del libro.

Caterina va a trovare Aurelio, il suo ragazzo, nel carcere di Rebibbia. Sono entrambi figli dell’estrema periferia romana, e in passato hanno provato a costruire un sogno insieme: gestire un night club. Ma le cose sono andate diversamente dai loro progetti e Caterina, ex ballerina di danza classica, si è ritrovata a lavorare come spogliarellista proprio nel locale di Aurelio. Adesso lui è in prigione, ed è convinto che lo abbiano incastrato. Come reagirebbe se sapesse che, una volta uscita di lì, la sua ragazza si infila tra le lenzuola del poliziotto che lo ha arrestato? Cleopatra va in prigione è un romanzo struggente, duro, pieno di colpi di scena, ambientato in una Roma molto più vasta e sconosciuta di ciò che si potrebbe immaginare. Claudia Durastanti scatta una fotografia vivida e accorata della periferia urbana, il vero luogo dove in questi anni nascono le storie, e soprattutto racconta chi, nonostante le delusioni e i sogni infranti, continua a vivere e ad amare.

Nello Zaino di Antonello: LETTERE E LETTURE D’AMORE