di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

CORPI DI REATO

Recensione al libro di Fernando Guglielmo Castanar

IL POSTINO DI MOZZI (Arkadia editore)

Il postino di Mozzi

Chi è Fernando Guglielmo Castanar? Da dove viene? Cosa ha scritto in passato? Di lui sappiamo solo quello che si legge nella quarta di copertina del suo libro “Il postino di Mozzi”  da poco pubblicato da quella splendida realtà editoriale che è Arkadia di Cagliari. Padre triestino, madre toscana, ha trascorso l’adolescenza nel Nord-Est, avrebbe voluto vedere come si vive nel Nord-Ovest, ma si è fermato sulle colline del pavese e ora è pensionato. Alquanto misterioso questo scrittore. Alla domanda che gli viene posta da Giovanni Agnoloni in una intervista apparsa sul blog “La poesia e lo spirito” (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2019/05/06-fernando-guglielmo-castanar-il-postino-di-mozzi/) se ci si trovi davanti a un nuovo caso Elena Ferrante, Castanar risponde in maniera ironica e sibillina. L’enigma continua. Ma lasciamo perdere, per il momento, il problema dell’identità, e dedichiamoci a “Il postino di Mozzi”. Si tratta di un libro originale e coraggioso, strano e bello. Affascinante e scritto con ironia e leggerezza, quella leggerezza di cui parla Calvino nelle sue “Lezioni Americane”, quella leggerezza che Calvino, citando Boccaccio, ritrova in Guido Cavalcanti quando, minacciato da un gruppo di teppistelli della jeunesse dorée fiorentina,

“si libera d’un salto ‘sì come colui che leggerissimo era’” (Pag. 15).

Dietro la leggerezza e l’ironia, però, si celano tematiche molto importanti: cos’è la scrittura? Chi è lo scrittore? Quali sono le dinamiche che portano uno scrittore a emergere? Come funziona il mondo dell’editoria? Quale è il rapporto tra realtà e finzione? Esiste una netta linea di demarcazione fra di esse?  Come si può vedere molti sono gli interrogativi. Sono quelli che ci si pone mentre si legge il libro. E, leggendo, veniamo a sapere qualcosa di più di Fernando Guglielmo Castanar. Ma quello che veniamo a sapere è realtà biografica o finzione?

In breve la trama: Fernando Guglielmo Castanar, ad un certo punto della sua vita, lavora come postino a Padova, dove vive Giulio Mozzi  che è stato famoso consulente editoriale per Theoria, Sironi Editore, Einaudi Stile Libero e ora lo è per Marsilio. Castanar porta la posta nel quartiere di Mozzi e, dato che Mozzi non lo ha mai degnato di una risposta quando gli inviava i suoi scritti, gli sottrae plichi, pacchi, raccolte di racconti, saggi, romanzi. Quando il postino Castanar va in pensione invia una lunghissima lettera a Mozzi con estratti dei lavori sottratti. Poi contatta Arkadia, dove Marino Magliani, insieme a Luigi Preziosi, cura la collana di narrativa “Senza rotta”. Ed ecco il libro.

Già questo movimento di sottrazione e riproposizione fa sorgere un interrogativo che ben si sposerebbe con il decostruzionismo alla Derrida. E in effetti questo libro avrebbe fatto la gioia di Derrida con le sue ingegnose e, a volte, discutibili interpretazioni. Chi è il soggetto della scrittura? E’ colui che pone la firma? O la scrittura è priva di soggetto come vorrebbe Lacan quando afferma che noi non parliamo, ma siamo parlati (dal linguaggio, dall’inconscio, dall’Altro)? E i corpi di reato, cioè gli scritti sottratti, che statuto hanno? Sono corpi di reato ben strani perché non vengono nascosti, ma esibiti. Sono corpi di reato che diventano pubblici, ancora di più quando vengono pubblicati.

Viene in mente un vecchio e bel libro di Guido Almansi e Guido Fink, ripubblicato nel 1991 “Quasi come” (Bompiani. 1991) dove sono parodiati grandi scrittori e, grazie alla parodia, si dà vita a una affascinante opera di metanarrativa. Ma se lì c’era parodia, ne “Il postino di Mozzi” si ha antologia. Antologia costituita da parti di mail, lacerti, racconti, parti di romanzo, riflessioni sulla letteratura di vari autori. Diversi gli stili narrativi, diversi gli argomenti trattati. Unico punto in comune: essere stati sottratti a Giulio Mozzi Come scrive giustamente Luigi Preziosi (curatore, come si diceva più sopra, insieme a Magliani, della collana Senza Rotta di Arkadia) in una sua bella recensione sul blog Vibrisse che, tra le altre cose, è stato fondato proprio da Giulio Mozzi, (https://vibrisse.wordpress.com/2019/05/09note-di-lettura-il-postino-di-mozzi-di-fernando-guglielmo-castanar/) questo libro sta ad attestare una ripresa del racconto:

“In questa prospettiva, il libro risponde, con felice tempestività, a quella tendenza a rivalutare il genere che ultimamente sembra farsi strada con una certa insistenza”. E poco oltre: “Comunque sia, il racconto non pare oggi comunque in cattiva salute, e lo dimostra la vivacità di alcune iniziative (siti e case editrici specializzate) e certe uscite recenti meritevoli di ben più di una citazione. In prima fila questo Postino di Mozzi, raccolta notevole anche ad una prima superficiale lettura per la straordinaria invenzione narrativa che la sostiene”. 

Ma “Il postino di Mozzi” non è soltanto antologia. E’ anche romanzo. Sempre Preziosi fa un paragone con la cornice del “Decameron” di Boccaccio. Qui la cornice è fondamentale. Per utilizzare i termini della Psicologia della Gestalt fa sia da figura, sia da sfondo. Diventa sfondo quando in primo piano sono i racconti dei vari autori che compongono l’antologia. Diventa figura quando in primo piano è la narrazione di Castanar. Ed è una narrazione che ha i suoi colpi di scena e che lascia il lettore desideroso di sapere come la storia del postino con Mozzi vada a finire. E’ una narrazione che ci fa riflettere: ci troviamo nell’ambito di una narrativa post-moderna o post-post-moderna? Noi lettori ci troviamo, come Alice nel paese delle meraviglie, in un gioco di specchi, in una vertigine da cui ci lasciamo volentieri prendere. Ci troviamo anche davanti ad una metafora. Il postino che sottrae con “levità”, che legge, che manipola, che smista ha, a mio avviso, un significato simbolico: significa che la scrittura è sempre un atto pubblico. Anche la scrittura più privata è scrittura pubblica. Chi scrive immagina lo sguardo dell’Altro che lo guarda dall’alto. Chi scrive immagina un eventuale lettore. Che, poi, il lettore sia immaginario o reale non ha importanza per il nostro discorso. Sulla scrittura e il suo senso c’è nel libro un bellissimo incipit di Mattia Galiazzo ( e mi scuso con gli altri autori che non citerò, ma che meriterebbero di essere citati tutti, uno per uno):

“Caro Giulio,

ti rispondo in forma di lettera, pur consapevole che questa apparirà in un luogo-la rete-accessibile un poco a chiunque, e che, dunque, scrivendo a te, sto scrivendo anche ad altri : del resto, come autore, ti trovi ormai da anni nella posizione di dover rappresentare non più una semplice individualità (questo tutti la rappresentiamo), ma un’individualità che raccoglie in se stessa una moltitudine. Questo mi porta a credere che scrivere a un autore non sia mai scrivere solo a lui: con tutte le conseguenze che comporta, scrivere privatamente a un autore è scrivere sempre a un pubblico” (Pag. 42).

Che è, poi, un incipit molto tabucchiano laddove Galiazzo dice che sta scrivendo ad altri; molto tabucchiano perché ricorda il Tabucchi che scrive al padre ne “Gli archivi di Macao” e che dice che scrivere al padre è scrivere ad altri, soprattutto scrivere a sé stessi. Ma anche molto pessoano laddove parla di individualità che è moltitudine. E, a proposito di scrittura pubblica e privata, viene in mente Max Brod, quel Max Brod che, fortunatamente, disubbidì a Kafka, non bruciò le sue opere e le salvò. 

Che la scrittura sia un atto pubblico è evidente quando si leggono le corrispondenze fra scrittori. Recentemente Neri Pozza ha pubblicato il libro di Helmut Bottiger: “Ci diciamo l’oscuro. La storia d’amore tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan” (Neri Pozza. 2019). Quando si leggono le lettere che si scambiano i due grandi scrittori si ha l’impressione che essi sappiano che la loro corrispondenza sarà un giorno pubblicata, tanto che alcune lettere sembrano veri e propri esercizi di stile. Si ha la stessa impressione leggendo la corrispondenza tra Claudio Magris e Biagio Marin “Ti devo tanto di ciò che sono” recentemente ripubblicata (La Nave di Teseo. 2019). Soprattutto le lettere del poeta di Grado, anche se spesso tratta di argomenti privati, sono veri e propri esercizi di stile che sembrano scritti per essere pubblicati.

Leggendo “Il postino di Mozzi” ci si domanda, ancora, perché sia così importante essere pubblicati e recensiti. Credo che qui ci si trovi di fronte a un punto cruciale: quello dell’identità. Se la propria identità è data dalla scrittura è evidente cosa ci sia in gioco ad essere pubblicati o no. Essere pubblicati significa essere accettati non solo come scrittori. Essere rifiutati significa essere rifiutati non solo come scrittori con tutto quello che ne consegue sul piano del narcisismo. Soprattutto se il mio io si identifica completamente con la scrittura. Nel suo bel saggio su Celan e la Bachmann Helmut Bottiger sottolinea come in Celan ci fosse una completa identificazione fra il suo Io e la poesia. Qualsiasi critica alla sua poesia veniva, con grande sofferenza, vissuto come una critica personale. Celan non riusciva a compiere quello scarto, a aprire quello spazio tra identità e scrittura, quello spazio che fa dire allo scrittore che non è soltanto scrittore ma anche tante altre cose nelle sue modalità di essere nel mondo. Quello spazio che non era riuscito ad aprirsi Guido Morselli e che lo portò alla tragica morte che tutti noi conosciamo. Come, poi, si arrivi ad essere pubblicati, al netto delle capacità dell’autore è, a volte, un mistero che oscilla tra caso e destino.

A proposito di questi temi e della valutazione dei manoscritti c’è un altro vertiginoso gioco di specchi: un racconto di Giulio Mozzi in cui Giulio parla di sé in terza persona:

“Il terrore di Giulio è: ingannarsi, vedere il dono in chi non ce l’ha. Ha provato questo terrore per qualche anno, perché nessuno dei suoi amici, nel cui dono Giulio credeva fermamente, trovava attenzione presso gli editori. Non essendo capace di dubitare del dono dei suoi amici, Giulio ha dubitato di se stesso. Che cosa posso fare, che cosa posso fare, che cosa posso fare? Certi giorni non pensava ad altro.

Da qualche tempo un editore ha chiesto a Giulio di scegliere dei libri da pubblicare. Giulio ne è stato felice: ha potuto chiamare i suoi amici con il dono e dire loro: ecco” (Pag.100). 

E poco oltre:

“Tutto ciò che io devo fare, è stare lì. Esserci. Io sono quello che ci crede, che pensa che tutto questo abbia un senso. Sono quello che può testimoniare: che giocarsi un pezzo della vita su una storia o venti storie o sessantaquattro storie da raccontare, è una cosa che ha senso. Io l’ho fatto, la mia esistenza in vita dimostra che ha senso”.  (Pag.101)

Qui è Giulio Mozzi a parlare o Giulio Mozzi è, lacanianamente, parlato da Altro, dall’Altro? Comunque la cosa fondamentale è che Mozzi sostenga che giocarsi un pezzo della vita con la letteratura ha senso. E si può aggiungere che la letteratura è un rischio, soprattutto se identità e scrittura vengono a coincidere.

E così siamo tornati al punto di partenza. E ancora una volta ci chiediamo chi sarà mai Castanar. Di sicuro è un autore che  ha scritto un libro coraggioso, dalla grande invenzione narrativa, di grande intelligenza e da cui trapela un grande amore per la letteratura, anche per gli scrittori marginali che, poi, marginali non sono.

La speranza è che Fernando Guglielmo Castanar ci regali presto qualche altro bel testo e che, magari, sia sempre Arkadia a pubblicarlo nella collana “Senza Rotta” diretta da Marino Magliani e Luigi Preziosi.

Lo Scaffale di Andrea: IL POSTINO DI MOZZI