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Intendi dove ti avrei dato appuntamento per questa chiacchierata se ci fossimo parlate invece che scritte? Se è così, direi che senza limiti di spazio e tempo ti avrei detto di vederci sulla spiaggia del paesino in Abruzzo dove ho scritto la maggior parte del tempo, è il litorale Le Morge di Torino di Sangro, provincia di Chieti, avremmo chiacchierato passeggiando sul bagnasciuga, alla fine di maggio, mentre intorno a noi montavano gli ombrelloni e i lettini, preparando il lungomare per la prossima estate.

La fine dell'estateDa soli e da subito vi potete fare un’idea di quella che è stata la Chiacchierata con Serena Patrignanelli con cui sono stata molto felice di confrontarmi dopo aver  amato “La fine dell’estate”, l’esordio pubblicato da NN editore, per il senso sospeso del tempo e delle vicende, pur innestate in un quadro di realtà molto nitido.

In ogni risposta Serena è riuscita a sorprendermi e conquistarmi, nonostante le mie aspettative fossero già altissime. Quindi senza ulteriori indugi, seguiteci.

Un paese in guerra, gli adulti che a poco a poco scompaiono, un gruppo di bambini che si organizzano e si danno da fare per sopravvivere. Una sopravvivenza che non è meramente materiale e concreta, ma che è anche e soprattutto formativa e di crescita. Una Resistenza perché la vita continui e li traghetti a “La fine dell’estate”.

C’è un passo novecentesco nella tua scrittura, rivitalizzato da un senso di sospensione che avvolge tutte le categorie narrative: spazio, tempo, ritmo e personaggi. Una sospensione che mi pare essere cifra stilistica e chiave interpretativa di ogni momento di passaggio e transizione, come quello che vivono i ragazzi nel romanzo.

Dov’è il Quartiere? che strade ti hanno condotto lì?

patrignanelli_webLa tua domanda contiene un po’ tutti i temi che sono stati al centro del processo di scrittura. Citi anche la Resistenza e il Novecento, e il punto era un po’ quello in effetti. 

Nell’immaginare il mondo narrativo sono partita dai racconti dei miei nonni, che avevano vissuto la guerra ma erano molto giovani, quindi guardavano da un punto di vista molto diverso da quello della Storia o della letteratura testimoniale. E il contesto della loro giovinezza era lontano da quello in cui sono cresciuta io, così lontano che è pazzesco pensare che tra noi ci fossero solo un paio di generazioni. Nel progettare il romanzo ho tenuto conto di queste distanze: la distanza tra il loro punto di vista e gli altri che conoscevo, e la distanza tra me e loro. Non potevo avere l’autorevolezza di un testimone diretto, né la precisione di una storiografa. 

Quello che avevo e che scaldava il mio immaginario era un sentimento del passato, e ho cercato di rendere soprattutto quello, dando alla storia la forma che hanno i ricordi. 

La memoria contiene falsificazioni e aggiustamenti, fraintendimenti acquisiti quando eravamo troppo giovani per capire, e una specie di confusione intorno all’unica scena che teniamo stretta. Nei ricordi abbiamo presente il centro della scena, quello che c’è intorno è difficile da recuperare, eravamo concentrati su una cosa soltanto e il resto è stato soffiato via dal tempo che è passato. Per questo nel libro c’è quell’atmosfera di sospensione a cui facevi riferimento. 

Esiste un vero quartiere, dove le persone che mi hanno consegnato i loro ricordi hanno camminato dentro la realtà, e somiglia al Quartiere del romanzo. Però non è lo stesso. 

 

Il sentimento del passato, ma ad animare le figure che si muovono nel romanzo, in particolare le tre che si affiggono nel cuore Pietro Augusto e Semiramide, è ben presente anche il sentimento dell’adolescenza, che non è semplicemente un dato biografico dei personaggi ma più intensamente e interiormente uno sguardo alla realtà e una percezione del mondo e degli altri. Insieme ai ragazzi le “bucione” come se volessi porti da un’angolatura determinata per guardare alle vicende: dal basso. È una terza persona molto intima e in soggettiva quella a cui hai affidato la narrazione.

Dove si è collocata per guardare e raccontare? e Serena Patrignanelli come autrice dove si è messa rispetto ai personaggi e alla voce narrante?

patrignanelli_webDa subito, progettando questa storia, mi interessava vedere gli effetti del tempo sul nostro sguardo, perché il tempo cambia le distanze relative tra le cose, la loro grandezza, la loro importanza. Volevo raccontare un rapporto fondamentale tra due persone (Pietro e Augusto) per vedere come anche le cose più importanti per noi tendano a farsi più lontane e di conseguenza più piccole, persino fino a sparire. Pensavo che avrei ritrovato Pietro e Augusto da adulti, alla fine invece sono rimasta nella loro infanzia perché non era necessario raccontare il futuro, bastava arrivare a quel momento preciso in cui il presente si fa passato, che per questi personaggi coincide con la fine dell’estate. Il discorso sul fraintendimento che facevo prima ha a che fare con questo: la fine della vicenda rappresenta il momento in cui i personaggi si rendono conto che quello che credevano di sapere su loro stessi e sugli altri era solo una visione figlia del loro posizionamento, del loro sguardo parziale perché puntato, come dicevi tu, dal basso.

Per fare questo nemmeno il narratore poteva alzare troppo lo sguardo, era necessario che non vedesse del presente più di quello che vedevano i personaggi. E allo stesso tempo c’era però bisogno di piccoli momenti che sono quelle anticipazioni che di tanto in tanto sono raccontate nel libro che rimettono le cose in prospettiva, e in cui il narratore è più lontano da loro, fornisce per un attimo una visione di come i personaggi sono destinati a diventare. 

Sul piano della scrittura, significava rinunciare a scelte linguistiche e ordini di pensiero, ma i limiti nella scrittura sono pure una risorsa, perché restringono il campo escludendo quello che non appartiene alla storia, e quindi facilitano a non dire niente che non sia vero. 

Allo stesso tempo, visto che i ragazzini hanno una visione parziale, per ottenere un panorama di verità più ampio ho dovuto unire i punti di vista di un numero più vasto di personaggi, per questo la storia ha un andamento corale: ognuno dei protagonisti possiede un pezzetto di comprensione, e solo sommandoli insieme si riesce a ricostruire la trama.

Non ho ragionato molto, scrivendo, di quale fosse il mio posto. Non mi viene naturale rappresentarmi, non credo che le mie esperienze abbiano un grande appeal sul piano narrativo. Però poi ci sono pezzetti di cose che ho vissuto o pensato, qua e là, che mi sono serviti per stare più vicino ai personaggi e per cercare di essere il più sincera possibile nel raccontare le loro vite. Non so se sia la strada giusta per scrivere in modo onesto, però mi è sembrato un metodo utile per dare una certa dose di verità alle singole scene.

 

La coralità del romanzo è l’elemento “classico” che avvicina “La fine dell’estate” alla grandi narrazioni per ragazzi, penso ad esempio e prima di tutti a “I ragazzi della via Pal” di Molnar, mentre la fattura e lo stile mi hanno fatto pensare a Elsa Morante per l’elegante introspezione e la capacità di entrare finemente nei particolari e nei dettagli della narrazione.

L’innamoramento di Augusto per Semiramide è tra le pagine più belle dedicate allo sbocciare e alla freschezza delle sensazioni legate all’amore adolescenziale che abbia mai letto, accanto a quelle di Arturo per Nunziata, la giovane sposa del padre, in “L’isola di Arturo”, con cui Elsa Morante vinse il Premio Strega nel 1957.

Quali letture e quali modelli ci sono, se ci sono, in “La fine dell’estate”?

patrignanelli_webUh, questa è una domanda difficile, perché presuppone una conoscenza di tanti testi fondamentali che hanno ragazzi come protagonisti e ho sempre paura di dimenticarne qualcuno, o non averne letti abbastanza…

Riguardo all’elemento classico che citi, mi sa che il risultato dipende più da un passo indietro che da una decisione attiva, cioè non sentivo di avere l’autorevolezza per inventarmi una narrazione fuori dalle regole, una lingua davvero nuova, e mi è sembrato più onesto stare invece in un solco più classico, appunto, lasciando a chi è più coraggioso e brillante il compito di inventarsi una forma narrativa nuova.  

Nello specifico non ho preso nessun libro a modello, perché avevo paura di appiattirmi sull’imitazione di qualcosa, anzi ci sono romanzi che non avevo letto e che ho evitato per anni, e che solo adesso che ho finito sto leggendo, finalmente.

Avevo comunque dei libri sulla scrivania, alcuni si sono dati il cambio, altri non si sono mai mossi. Li rileggevo soprattutto per contrasto, quando sentivo che mi stavo impantanando in una direzione. Ad esempio, quando la lingua si appesantiva di strutture sintattiche troppo barocche, o di una specie di tono aulico anacronistico, leggevo autori tipo Alice Munro, o Elizabeth Strout: gente che dice precisamente quello che c’è da dire, mostra quello che c’è da guardare, riuscendo a spalancare orizzonti di senso enormi stando dentro frasi pulite e semplici, nella realtà delle singole scene. Al contrario se sentivo che la narrazione procedeva troppo secca o che stavo diventando schiava delle scalette leggevo scrittori che si buttano senza freni dentro zone assolutamente non confortevoli, che sanno saltare in una riga da un piano realistico ad un incubo, gente a cui interessa solo la verità di quello che scrivono e nient’altro, tipo Bolano. E quando invece mi sembrava di allontanarmi troppo dal contesto narrativo in cui avevo inserito la storia, dal passato, dall’Italia, da certe atmosfere sfumate e malinconiche leggevo i Sillabari di Parise. 

Non posso prendere a riferimento nessuno di questi autori perché sono modelli troppo alti, ma è utilissimo mentre si scrive avere qualcuno che ti ricordi come si fanno le cose.

 

Non solo i personaggi e il Quartiere. Un perno narrativo per le vicende è una macchina che Augusto e Pietro sognano di fare ripartire con un’alimentazione a carbone, poiché la benzina è introvabile ormai. 
È attraverso la macchina che si tessono le relazioni tra il mondo dei ragazzi e quello degli adulti. Quasi un lascito, un’eredità, un rito di passaggio visto che i due ragazzi dovranno terminare il lavoro da soli.
Un simbolo, una metafora o un correlativo oggettivo?

patrignanelli_webIl motore a gasogeno è uno dei primi elementi di trama da cui sono partita. Come spieghi tu si tratta di un tipo di motore alimentato a carbone o a legna anziché a benzina, e negli anni della guerra aveva avuto un certo successo. Per avere le idee più chiare su questo tema ho letto un libro tecnico che ne descrive il funzionamento, che poi ho citato nel romanzo, scritto nel ’40. Già solo il tono trionfale dell’autore dà l’idea dell’entusiasmo che girava intorno al brevetto, certo il tono deriva anche dall’atmosfera generale di quel periodo, la retorica del ventennio, l’autarchia eccetera – il libro fa riferimento al motore Ferraguti, che era un ingegnere italiano. 

Però ecco, ci credevano davvero. Per dire, organizzavano gare automobilistiche per provare che il motore a gasogeno non aveva niente da invidiare a quello a benzina.

Aveva molto da invidiare, invece. Le prestazioni erano basse. I circuiti si riempivano di scarti e si deterioravano. Ci voleva moltissima manutenzione. Il sistema non era stabile e le macchine si piantavano in salita. L’intera faccenda è stata liquidata e dimenticata nel giro di pochissimi anni.

Ma rimane il fatto che per un certo periodo qualcuno s’è convinto di aver trovato la strada verso il futuro, e a me questo commuove moltissimo, l’idea che avessero tutte quelle speranze così mal riposte, mi sembra che abbia molto a che fare con l’ingenuità che si ha da ragazzini, quando siamo convinti di sapere che lavoro faremo, dove vivremo, chi resterà accanto a noi per tutta la vita. 

Forse sono collegamenti che faccio a posteriori, la tenerezza per le prospettive sbagliate ce l’avevo presente già mentre scrivevo, ma non escludo che la connessione coi fraintendimenti infantili riesca a vederla solo ora.

Mentre scrivevo c’erano altri piani, per esempio mio marito che leggeva mano a mano mi faceva notare come le parti sul motore corrispondessero sempre al momento della scrittura in cui mi trovavo. Quando mi impantanavo, la costruzione del motore si bloccava, quando perdevo il filo Pietro e Augusto guardavano i circuiti dentro il cofano e non capivano come fossero collegati tra loro, e così via. E credo avesse ragione.

Infine c’è il discorso del rapporto con gli adulti di cui parlavi, anche quello verissimo. Per costruire il motore, Augusto in particolare sente di aver bisogno di qualcuno che lo aiuti, e lo cerca in diverse figure, fino a trovare Ottavio. Ma non ha davvero bisogno di nessuno di loro, o piuttosto ne ha bisogno per l’ultima volta: la macchina in questo senso è l’ultima missione della sua infanzia. Gli adulti servono per costruire il motore, ma per farlo partire non c’è bisogno di nessuno. Al contrario Pietro e Augusto devono liberarsi di ogni parte di loro che abbia radici nel passato, perché il passato non li riguarda, per loro c’è il presente – e oltre la fine del libro pure il futuro.

 

Oltre a essere uno splendido romanzo sulla fine dell’adolescenza e l’ingresso nel mondo degli adulti, segnato da un’amicizia piena e ricca come quella di Augusto e Pietro, “La fine dell’estate” lo ribadisco è uno splendido romanzo sull’amore adolescenziale, sulle sensazioni e le emozioni, le contraddizioni e le complessità che l’accompagnano. Difficile e tu, Serena, ci riesci in maniera strepitosa, creare la grammatica sentimentale dell’adolescenza senza snaturarla né edulcorarla, caricandola della forza dell’autenticità nelle sue pulsioni e slanci, ma senza far regredire il sentimento a qualcosa di ingenuo e sciocco. L’analisi dell’amore nel romanzo è a tutto tondo, in particolare attraverso le coppie, quasi antitetiche o comunque all’opposto, di Augusto e Semiramide da una parte e Michele e Virginia dall’altra, con le strane e mutevoli triangolazioni che si creano intorno a loro. Sotto le bombe e la pioggia, nel buio umido di un tombino riaperto che diventa rifugio e riparo da luogo pericoloso di esplorazione e gioco che era all’inizio, la relazione che sembrava più promettente mostra la sua illusorietà e fugacità, quella più ferina e selvaggia cerca una sua strada da percorrere.

Cosa rappresenta l’amore per “La fine dell’estate”? è anche quello un irrimediabile rito di passaggio?

patrignanelli_webMi fa molto piacere leggere quello che dici tu sull’amore quindi quasi non vorrei aggiungere altro, sono tanto contenta di aver comunicato quelle cose. Poi sono d’accordo sull’analisi come rito di passaggio, sul fatto che ci sia quell’evoluzione delle linee che descrivi tu, nel finale. Direi che rispetto all’amicizia, che sta più nel presente della storia, l’amore invece è declinato al futuro e quindi ha a che fare con quegli effetti del tempo sui rapporti e sulle persone che sono un po’ il nucleo tematico del romanzo, perché quello che nella trama è accennato o è solo all’inizio mostra la forza che avrà, nel bene e nel male, per tutti i personaggi, più avanti, nel futuro.

Però è anche la parte su cui ho ragionato meno, e in cui ho seguito il ritmo della scrittura, la verità delle singole scene, in modo più libero e cercando di star dietro al contenuto emotivo, al riparo dalle scalette e da troppa pianificazione. Infatti i personaggi femminili sono quelli che si sono presi più spazio rispetto all’impianto che avevo pensato, Virginia in particolare. Le giornate di lavoro passate così, a scrivere spontaneamente e con le idee incredibilmente chiare sono rare e sono le migliori da vivere.

 

Mi concedo un’ultima domanda finale e di chiusura:

Se ci fosse stato suo padre, adesso, e gli avesse chiesto: “Che cosa hai sognato?”, Augusto avrebbe risposto: “Tutto quanto. ho sognato che le cose lontane restavano lontane, che quello che non potevo vedere non esisteva, e quello che tenevo vicino sarebbe rimasto mio per sempre”.

E Serena Patrignanelli, mentre scriveva, che cosa ha sognato? 

patrignanelli_webDevo confessare che ci ho messo parecchio tempo a scrivere il romanzo, quindi credo che i miei sogni siano cambiati tanto nel tempo, sia in senso letterale che metaforico. Se per sogni intendiamo desideri, comunque, riguardo al romanzo in tutto questo tempo ho desiderato soprattutto arrivare alla fine. È stranissimo rivedere quel processo da qui, c’è stato tutto quel lavoro separato e privato, il tempo che passava e io che non arrivavo mai in fondo. Adesso invece sono qui tranquilla a rispondere alle tue email, e il romanzo è un libro ed è una sensazione strana perché sembra molto naturale ma invece per tanto tempo non ho potuto far altro che desiderare che succedesse. 

Ma più che a un sogno assomiglia ad un risveglio. Mi sento così, come se mi fossi appena svegliata e avessi scoperto che è andato tutto bene. 

Chiacchierando con… Serena Patrignanelli