di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

IL BUON SCRIVERE

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Il buon scrivere può ancora in qualche modo sorprenderci, se solo lo lasciassimo succedere! Ma possono sorprenderci anche le testimonianze dirette, quelle in cui si dicono parole. Non è il caso di opporre resistenza alle belle parole. Per questo, bisogna sempre seguire il consiglio di leggere cose belle e ascoltare parole importanti. Mercoledì 10 aprile ai Diari è accaduto di ospitare un evento di caratura internazionale con la presentazione del libro “La corsa indiana”, esordio nel 1990 di Tereza Boučková,tradotto in Germania, Olanda e Ungheria e per la prima volta in Italia da Miraggi edizioni nella Collana Novàvlna.
Una testimonianza forte, intensa anche se la lingua era il ceco. Con due occhi luminosi come laghetti e un sorriso costante, fermo questa donna, dissidente e figlia di dissidenti, anche quando il racconto diventava duro e di forte emotività ha toccato il cuore di tutti noi. Si parlava di padri assenti, grandi letterati, grandi politici, grandi ideali. Si parlava di occupazione e carri armati. Di sogni di libertà stroncati. Di figli persi nella droga e nella Libertà. Quella testimonianza di vita spezzava le vene delle mani, in un silenzio irreale, che neanche i colpi di tosse miei e di Laura Angeloni andavano a intaccare. Il nostro angolo di cultura, succede sempre più spesso, che schiude in queste circostanze orizzonti, aggancia ricordi, richiama eventi. Dovevamo presentare un libro, “La Corsa Indiana”, e invece tutti si sono ritrovati con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore che batteva forte.
Con l’autrice la sua sua voce italiana Laura Angeloni, molto conosciuta tra i nostri lettori per aver tradotto precedentemente un altro libro parecchio apprezzato, “Il lago” di Bianca Bellová, sempre della stessa Collana di Miraggi, NovàVlna. Si tratta di nuova collana italiana di letteratura ceca che prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali. Questo carattere di “nouvelle vague permanente” è disseminato in tutta la sua storia: alle opere di nuovi autori si affiancheranno in un progetto organico recuperi di testi preziosi ingiustamente dimenticati e altri incredibilmente mai giunti al pubblico italiano.

“La Corsa Indiana” è un romanzo breve o racconto lungo come più ci aggrada chiamarlo, fu pubblicato per la prima volta nel 1988 in un’edizione samizdat e vinse nel 1990 il prestigioso premio letterario Jiří Orten.
Narrata in prima persona è una prosa vivace, originale e riccamente autobiografica che segue la vita della protagonista dalla nascita fino all’età adulta. Quando l’autrice è la figlia di Pavel Kohout, noto intellettuale dissidente, scrittore e drammaturgo, attivo nel circolo delle persone più in vista dell’underground di quegli anni, una storia autobiografica non è esattamente quel che si dice innocua, specialmente se la narrazione si attiene ai fatti accaduti non risparmiando le personalità più note (nel racconto compare, col soprannome di Monologo, anche l’ex presidente Vaclav Havel che la Boučková ha avuto modo di conoscere da vicino), pur celandole sotto ironici soprannomi. Una scrittura catartica che ripercorre l’infanzia vissuta con la madre Alfa e i due fratelli Luna e Raggio di Sole, dopo che il padre, qui chiamato l’Indiano, li abbandonò per trasferirsi all’estero con Musa, la sua nuova donna, dimostrando verso di loro un disinteresse quasi assoluto. E poi la giovinezza, gli amori e le difficoltà della madre Alfa, il matrimonio, la ricerca disperata di un figlio. Infine l’adozione di due bambini, le gioie e difficoltà della nuova vita, e finalmente, inaspettato, un ventre che germoglia. “Il tuo libro è pieno di rabbia e bugie. Mi auguro che non lo pubblicherai così. Ecco l’Indiano, che dopo dodici anni è tornato a casa”. Ma Tereza Boučková il suo libro lo pubblicò. Esattamente come l’aveva scritto.

Sempre della stessa collana di narrativa ceca è stato pubblicato “Chiedi a papà” di Jan Balabán nella traduzione di Alessandro De Vito.
Il romanzo di Balabán è pervaso di domande che riflettono sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti famigliari, sulla malattia e sulla morte, e su quel che resta dopo. Con un’immediatezza straziante, che porta in sé una dimensione di meditazione e un’urgenza di espressione interiore concreta, l’autore descrive in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che tende inesorabilmente al suo punto finale. Non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? E nel frattempo, che cosa facciamo, che cosa siamo?

I fratelli Hans, Emil e Kateřina devono far fronte, come la loro madre Marta, alla malattia e alla morte di una persona cara, il padre, il medico Jan Nedoma (che significa “senza casa”: nessuno in questo mondo è realmente a casa). Tutti e quattro si trovano a fare i conti con se stessi e i propri ricordi, e a far fronte alle accuse postume di complicità con le autorità comuniste mosse a loro padre da quello che un tempo era il suo migliore amico. Si tratta di un’amara ironia, “chiedere papà come siano andate davvero le cose” non è più immaginabile né possibile.

Con una nuova e rinfrescata traduzione per l’unica collana di narrativa ceca in Italia, NovàVlna, tutta l’attualità di un romanzo unico come “Il Bruciacadaveri” di Ladislav Fuks è di nuovo disponibile, grazie a Miraggi Edizioni, dopo quasi 50 anni dall’edizione Einaudi e sempre con la traduzione di Alessandro De Vito.
“Il bruciacadaveri”, uscito per la prima volta negli anni della Primavera di Praga, divenne celebre anche per la trasposizione cinematografica degli stessi anni, “L’uomo che bruciava i cadaveri” del regista Jurai Hertz

Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’Europa.
Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Sì, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.
Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. Il bruciacadaveri procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività: siamo a tutti gli effetti di fronte a un capolavoro del Novecento.
Ma forse ha un senso ulteriore, oggi, riproporre questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé le parole d’ordine naziste con leggerezza e conseguenze paradossali, opportunista, perbenista e superficiale.
«…la violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo» si dicono più volte i personaggi, nel 1938. La storia ha provato loro il contrario a stretto giro, e ormai, anche molti anni dopo, passato l’inizio del Ventunesimo secolo, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie e grazie al benessere, e che far finta di niente può precipitarci nuovamente dentro di esso.

Tra gli autori di nazionalità ceca presenti tra gli scaffali dei Diari ci teniamo a evidenziare uno dei più importanti narratori europei, tradotto in numerose lingue, Arnošt Lusting.
“Nei suoi occhi verdi”, pubblicato dalla Keller nella collana Passi con la traduzione dal ceco di Letizia Kostner è sicuramente un romanzo straordinario da leggere assolutamente. Arnošt Lustig ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti tra cui il Premio Franz Kafka che condivide con Amos Oz, Philip Roth, Haruki Murakami e pochi altri. Il suo è un romanzo che testimonia una fede assoluta nell’uomo anche quando è in atto un decadimento profondo di una civiltà intera. Un terribile canto alla vita mentre l’umanità intera va in crisi e questo rende Hanka un personaggio indimenticabile che ci interroga tutti e ci racconta come certe questioni riguardino proprio tutti.

Hanka ha capelli ramati e occhi verdi, il giorno in cui arriva a Auschwitz-Birkenau con i genitori e il fratello. Hanka è ebrea, ha 15 anni, ma finge di essere diciottenne e ariana. Ora si chiama Bambola ed è una delle prostitute più giovani del bordello Nr. 232 Ost sul fronte orientale. Sulla pancia porta tatuata la parola Feldhure, puttana da campo. Inizia così il lungo calvario di Hanka che combatte il freddo e la fame, la paura e la vergogna, sostenuta dal desiderio indomito di sopravvivere, costi quel che costi, e da una fiducia che non verrà mai meno.
Lustig è uno dei più importanti esponenti della letteratura ceca, un protagonista del Novecento. Nei suoi occhi verdi è un romanzo straordinario che porta il lettore nel mondo di Hanka, lo fa combattere con lei, partecipe di un profondo senso della speranza e della trascendenza.

La presenza di una scrittrice ceca e donna in libreria mi ha richiamato alla mente Květa Legátová (1919), pseudonimo di Věra Hofmanová, altra scrittrice ceca, politicamente non allineata al comunismo. Dopo aver studiato tedesco, fisica e matematica all’Università di Brno, ha insegnato in scuole di piccoli centri della Moravia traendo da quell’esperienza caratteri e temi della propria opera. Nel 2008 Nottetempo ha pubblicato “La moglie di Joza” con la traduzione di Raffaella Belletti.

Una giovane dottoressa di Brno sfugge alla Gestapo, nella Cecoslovacchia in guerra, rifugiandosi in un minuscolo villaggio montano, Želary. Per nascondersi è costretta a sposare lo “scemo” del villaggio, Joza. Inizia cosí una vita impensabilmente nuova. Dalla città, la professione, gli amici, l’amante, i colleghi, si trova catapultata in una casupola dal pavimento di argilla, con un povero falegname per marito, in un paese ostile e incomprensibile. Ma a poco a poco le cose cambiano, il paese si anima, mentre fra lei e il marito si crea un rapporto d’amore silenzioso e fortissimo. Květa Legátová ha scritto questo romanzo sviluppando un racconto della raccolta Želary che ha vinto nel 2002 il Premio Nazionale di Letteratura Ceca. Il romanzo è diventato un best seller tradotto in molte lingue.

Sabato 13 Aprile altro incontro di altissimo livello con Filippo Tuena, che tornava per la seconda volta ai Diari e a presentare “Le Galanti”, Il Saggiatore. 00000A dialogare con lui lo scrittore Alessandro Raveggi, al termine di una giornata intensa di uno dei nostri corsi de scrittura semestrali.
Una serata che è stata un tuffo nella Bellezza, in cui si è parlato di Arte e Letteratura, della Grecia e dell’Ermafrodito Borghese, di scrittori caldi e scrittori freddi, di scrittori italiani contemporanei capaci e di tanto privato più privato.
Alla fine della serata i nostri lettori erano completamente entusiasti e innammorati di questo che rimane uno dei più grandi scrittori contemporanei.

La letteratura è un grattacielo nel deserto, un atrio nobiliare abitato da fantasmi, una galleria d’arte con pareti d’alabastro, pellucide, lattescenti, dove file interminabili di quadri ci trafiggono la vista, riempiendo lo spazio di volti e scenografie sfuggenti. A frotte compaiono davanti ai nostri occhi, ci disorientano, ammiccano verso di noi, ci traggono in inganno. È in quel momento, quando incrociamo il loro sguardo, che la galleria si tramuta in una stanza degli specchi: ogni cornice, a ben vedere, raccoglie al suo interno un’immagine di noi, e allora seguiamo il nostro doppio, con la coda dell’occhio lo pediniamo mentre svolta in un caleidoscopio senza fondo.
È questo lo scenario allestito da Filippo Tuena nelle Galanti: una Wunderkammer sorprendente di storie, immagini, ricordi, incontri amorosi, le cui stanze hanno ornamenti Rococò, baldacchini ottocenteschi, ceramiche protocorinzie e lampadari Art Nouveau. Chi vi entra può scorgervi il passo agguerrito di Ulisse, gli occhi avvitati al passato di Van Gogh, i fianchi sensuali dell’Ermafrodito. Qui Roma brucia ancora una volta e crollano le alte mura di Troia, l’Italia è invasa dai nazisti e la Medusa di Géricault veleggia verso l’ignoto – mentre lì vicino, a pochi metri di distanza, si consumano feste galanti in cui coppie di giovani amanti si avvinghiano sul talamo del più sfrenato erotismo.
Un’opera-mondo, Le galanti, che ha il gusto della storia umana e il sapore dell’introspezione biografica. In queste pagine Filippo Tuena ha convocato tutte le sue muse artistiche, letterarie e pittoriche, da Michelangelo a Velázquez, da Venere alle Sirene omeriche, da Bernini a Stendhal, per raccontare le loro storie e farci scoprire come le ha incontrate; e ha riavvolto i fili di tutti gli amori di una vita: quelli passionali, quelli drammatici e quelli consumati solo nella luce fioca della letteratura. Un viaggio diurno e notturno fatto di narrazioni, ekphrasis raffinate, poesie e riflessioni accumulate nell’arco di una vita intera. Diventate libri, a volte, altre volte invece rimaste in apnea nella ghiacciaia dell’immaginazione, e raccolte tutte qui – mutata veste – nella loro dialogante complessità, a comporre il libro definitivo di un autore magistrale.
Filippo Tuena è autore di saggi di storia dell’arte e di romanzi. Tra i suoi libri: Tutti i sognatori, Super Premio Grinzane-Cavour 2000; Le variazioni Reinach, Premio Bagutta 2006; Michelangelo. La grande ombra, 2008; Stranieri alla terra, 2012. Per anni ha curato ‘Tusitala’ di’Nutrimenti’ di libri di avventura, ma in senso lato. Si andava dalle poesie di Stevenson tradotte da Montanari ai Diari di esplorazioni antartiche di Scott, Shackleton e Wilson fino ai Diari Fotografici delle spedizioni in Terra nuova o Endurance o alle straordinarie avventure di Maurice Wilson. Ha inoltre curato Robert F. Scott.

Robert Louis Stevenson, l’autore di classici come “L’isola del tesoro” e “Lo strano caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde”, aveva scritto anche “Il giardino dei versi”, che Nutrimenti ha pubblicato nel 2010 con illustrazioni di Charles Robinson, traduzione di Raul Montanari e con i contributi di Paolo Mauri, Raul Montanari e Filippo Tuena.

“Robert Louis Stevenson non ci teneva affatto all’etichetta di scrittore per ragazzi: quando pubblicò L’isola del tesoro a puntate, all’inizio degli anni ottanta dell’Ottocento, scelse di firmare con uno pseudonimo proprio per evitare una cosa del genere. Non dispiaceva invece a Stevenson l’idea di firmare poesie per bambini come avvenne quando pubblicò la raccolta Il giardino dei versi. Uscì nel 1885, dunque in un decennio affollato di sue opere, anche capitali. Abbiamo già ricordato L’isola del tesoro che in volume comparve nel 1883 e gli diede la fama, ma dobbiamo aggiungere ancora almeno due titoli, Lo strano caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde (1886) e Il signore di Ballantrae (1889): questo solo per dire che le poesie dell’infanzia appartengono a uno dei periodi più fecondi dello scrittore e sono un significativo, intenzionale omaggio a quell’epoca protetta e felice, luogo privilegiato di giochi e di sogni anche se Robert Louis era stato un bambino cagionevole e d’altra parte per tutta la vita avrebbe sofferto per il mal sottile che gli minava i polmoni”.
Quando, durante un soggiorno in Costa Azzurra, Stevenson si dedicò alla stesura del Giardino dei versi, lo fece spinto dall’amorevole intenzione di dedicare i suoi “piccoli versi” – come lui stesso li definì, a riprova che di rado gli scrittori sono buoni giudici della loro opera – alla governante che era stata per lui come una seconda madre, Alison Cunningham, “la sola persona che li comprenderà veramente”.
Il libro uscì nel 1885 a Londra. Nel 1895, a un anno dalla morte dello scrittore, l’editore Charles Scribner’s Sons di New York pubblicò una nuova edizione del Giardino dei versi affidando le illustrazioni del volume a un giovane disegnatore, Charles Robinson.
Questa edizione italiana, pubblicata nel centosessantesimo anniversario della nascita di Robert Louis Stevenson, riproduce quella del 1895, con le eleganti illustrazioni liberty di Robinson.

Appena arrivate in Libreria ai Diari le prime copie di “Petali e altri racconti scomodi”, il nuovo libro di Guadalupe Nettel, edito da La Nuova Frontiera. Di Guadalupe Nettel avevamo apprezzato lo scorso anno i cinque racconti contenuti in “Bestiario Sentimentale”. Nata a Città del Messico nel 1973, nella sua carriera ha ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio franco-messicano Antonin Artaud (2008), il premio tedesco Anna Seghers (2009) e il Premio de narrativa breve Ribera del Duero (2013) per la raccolta di racconti Bestiario sentimentale. In Italia ha già pubblicato con Einaudi due romanzi: Il corpo in cui sono nata e Quando finisce l’inverno.
“Più guardavo i cactus, più li capivo. Di sicuro si sentivano soli in quella grande serra, incapaci di comunicare tra loro. I cactus erano gli outsider della serra, outsider che non condividevano altro se non il fatto di essere tali e, quindi, di stare sulla difensiva. “Se fossi nato pianta,” riconobbi tra me e me “sarei appartenuto senz’altro a questo genere.”

In “Petali e altri racconti scomodi” cogliamo l’attimo, che spesso riassume una vita, in cui i protagonisti scoprono ciò che potrebbero essere, o forse, ciò che non oseranno essere mai. Davanti ai nostri occhi, scorrono storie che ci appaiono nella loro più sconcertante intimità, come immagini proiettate con nettezza su una lastra radiografica. Un giovane fotografo parigino ritrae solo le palpebre di donne che stanno per sottomettersi a una chirurgia plastica; un impiegato giapponese scopre la sua strana affinità con i cactus, una modella lotta contro un tic che si porta dentro dall’infanzia, un’adolescente cerca in un’isola tropicale la Vera Solitudine, un collezionista di odori insegue la sua margherita nei bagni per signore. Maniacali, eccentrici o semplicemente troppo umani, i protagonisti di questi racconti a volte sembrano opporsi alla loro alterità, altre volte si abbandonano al loro amaro desiderio, portando però sempre su di loro l’oscuro fascino dell’anomalia. Perché, come sembra suggerirci l’autrice, è proprio in questa zona grigia, al confine tra l’armonia e la deformità, che risiede la vera bellezza.

Tra le novità sugli scaffali dei Diari : “Imprenditori. Una favola famigliare” di Matthias Nawrat con la traduzione di Marco Federici Solari per L’Orma editore. Nato a Opole in Polonia nel 1979, Matthias Nawrat si è trasferito in Germania all’età di dieci anni per poi studiare Biologia a Friburgo e Heidelberg. Insignito di alcuni tra i più prestigiosi premi letterari tedeschi, ha raccontato con toni picareschi il Novecento polacco e le ansie e le speranze della Berlino contemporanea. Imprenditori. Una favola famigliare – di cui la «Frankfurter Rundschau» ha scritto: «un libro tenero e divertente, eppure tra i più spietati che siano stati concepiti sul nostro tempo» – è il suo primo romanzo tradotto in italiano. Ve lo presento con un breve estratto:

«Forse è proprio questa l’essenza del lavoro: per quanto possa essere bella la tua attività, dentro ti risveglia sempre una seconda persona che non vuole lavorare. Se mentre sei intento a un’occupazione non avverti tale mancanza di volontà, allora vuol dire che non si tratta di lavoro.»

Lipa ha tredici anni ed è da poco stata eletta dipendente del mese in quell’impresa molto particolare che è la sua famiglia. In un mondo in cui il lavoro è scomparso, ma tutti ancora lo cercano, il padre ha deciso di mettersi in proprio e crescere i figli come quadri di un’azienda, educandoli alla più rigida disciplina imprenditoriale, con esiti spesso surreali. A differenza dei loro coetanei «disoccupati», Lipa e il fratellino Berti non hanno mai conosciuto i banchi di scuola, ignorano cosa sia il tempo libero e disprezzano la gratuità dei giochi e dell’arte. Ma infanzia e adolescenza s’insinuano comunque nelle loro esistenze alimentando il fumettistico eroismo di Berti e le prime inquietudini amorose di Lipa, vivace narratrice del romanzo. Sordi alle ragionevoli proteste della madre, questi sedicenti «imprenditori» si lanciano in avventurose esplorazioni di fabbriche dismesse in cerca di rottami e reperti industriali, con una misteriosa impresa rivale sempre alle calcagna.
Animata da una lingua originale e inventiva, in bilico tra tenero lirismo e gergo tecnologico, Imprenditori è una favola commovente e visionaria sulle peripezie di una famiglia a conduzione aziendale e, al tempo stesso, una lucida e ironica riflessione sulla natura del lavoro.

Nello Zaino di Antonello: IL BUON SCRIVERE