di Federica

Federica

 

 

 

Due o Tre cose che so di sicuro

Foto di Federica Pergola
Foto di Federica Pergola

Pensate anche voi che le parole siano importanti?

Perché Dorothy Allison, sì, lo pensa.

E ci crede talmente tanto da aver scritto questo “piccolo gioiello” (come è stato da più parti definito) che è poi, in definitiva, un mémoir, in cui racconta la sua stessa storia -ed il modo in cui è riuscita a “salvarsi”.

“Perché- mi chiedono. Perché ne parli? E’ proprio necessario? Ho fatto a me stessa questa domanda tante volte, finché non ho cominciato finalmente a capire. Nella mia vita c’era un muro, dico, un muro su cui dovevo arrampicarmi tutti i giorni. Era sempre lì per me, a deviare la rabbia che provavo nei confronti di chi non sapeva nulla di quello che mi era successo o del motivo di tanta rabbia. (…) La mia teoria è che lo stupro non finisce mai. La mia teoria è che quando qualcuno parla di quello stupro dà per scontato che l’argomento sia in realtà io, come se quella cosa che non avrei mai voluto accadesse e che non sapevo come fermare fosse l’unico argomento della mia vita. La mia teoria è che parlarne fa la differenza: parlarne e trasformarmi così in una donna capace di alzarsi in piedi e dire: avevo cinque anni e lui era un adulto.

Dunque, lasciatemelo dire”

E dunque sì, lasciamola parlare, questa donna che proprio grazie al potere trasformante della parola e della reinvenzione letteraria ha ricostruito la sua vita ed è ormai (dopo La bastarda della Carolina, finalista al National Book Award, minimum fax 2018) considerata l’erede di quella tradizione narrativa americana sudista che ha tra i suoi grandi esponenti William Faulkner, Flannery O’ Connor e Tennessee Williams.

Lasciamola raccontare.

“Ora vi racconto una storia, sussurravo alle mie sorelle, nascosta insieme a loro dietro le colline di terra rossa coltivate a fagioli e file su file di piante di fragole”

Lasciamola parlare delle donne della sua famiglia- e degli uomini che le hanno amate – o forse no-; donne dure, e brutte, dalle facce vuote, che masticavano gonne friggendo patate nelle aree di servizio, esauste, arrabbiate, e mai amate abbastanza.

“Le donne che amavo di più al mondo mi facevano orrore. Non volevo diventare come loro. Mi costringevo a essere orgogliosa del loro orgoglio, della loro determinazione, della loro ostinazione, ma tutte le sere facevo una preghiera da uomo: Signore, salvami da loro. Non farmi diventare come loro”.

Donne che, il più delle volte, avevano scelto di credere a quello a cui avevano bisogno di credere; non a ciò che, in fondo, sapevano da sempre.

“La mia famiglia? Le donne della mia famiglia? Siamo quelle ritratte nelle foto dei disastri in miniera, delle inondazioni, degli incendi. Siamo quelle sullo sfondo con le bocche aperte, i vestiti stampati o i pantaloni coi lacci. Solide, stolide, coi fianchi larghi, macchine per fare figli (…) e sfogliavamo giornali pieni di donne così diverse da noi che avrebbero potuto appartenere a un’altra specie”.

Così, con una narrazione talmente onesta da apparire più brutale di un’invenzione letteraria, Dorothy Allison ci immerge nella Greenville County, South Carolina, degli anni ’50 e ’60 e ci rivela quali sono le due o tre cose che sa di sicuro.

“Fu zia Dot a dire quella frase. “Santo cielo, ragazze, ci sono solo due o tre cose di cui sono sicura” disse. “Solo due o tre cose. Proprio così. Ovviamente non sono mai le stesse, e io non ne sono mai certa quanto vorrei”

Ma forse per Dorothy almeno questa è una cosa di cui è sicura:

“Ci sono solo due o tre cose di cui sono sicura, e una è che per vivere devo raccontare storie, che le storie sono l’unico modo sicuro che ho per toccare il cuore di qualcuno e cambiare il mondo. (…)

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Due o tre cose che so di sicuro, di Dorothy Allison, traduzione di Sara Bilotti, minimum fax, pp.92, €12,00

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