Mercato Testaccio

Ci saremmo viste al mercato di Testaccio per mangiare panini con l’allesso e bere una birra scura, sedute su una panchina al sole, tu avresti tirato fuori un quaderno dalla copertina colorata e io avrei schiarito la voce, poi avremmo iniziato a parlare.

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E so già che non sarei riuscita a prendere appunti, incantata dalla consapevolezza e maturità di intenti letterari che Giulia Caminito possiede con lucidità e brillantezza. Dopo aver letto con partecipazione “Un giorno verrà”, il nuovo romanzo per Bompiani, sono così colpita dalla sua narrazione che ho recuperato “La grande A” (Giunti), letto con grande ammirazione.

Giulia Caminito, dopo l’esordio sorprendente con “La grande A”, torna in libreria con “Un giorno verrà” per illuminare nuovamente un angolo recondito della Storia italiana, quella del movimento anarchico, sconosciuta e marginale, attraverso la storia privata e intima della famiglia Ceresa, in particolare di due fratelli Lupo e Nicola, e del loro asimmetrico rapporto.

Come con la vicenda esistenziale di Giada in “La grande A” la scrittrice trascina il lettore in uno scorcio d’Africa, da cui osserva la comunità italiana che vive in Eritrea, così in “Un giorno verrà” da un punto limitato e marginale delle Marche, le vicende di Lupo e Nicola ci spingono nel vortice dei primi decenni del Novecento, in cui speranze e illusioni si mescolano come carte nelle mani di un esperto prestigiatore.

La Storia è la linea rossa che collega l’esordio con la seconda prova. Ed è nello spazio e nella grandiosa visione in cui Giulia Caminito affonda le vite private dei suoi personaggi come fondamento ed esplosione delle vicende storiche, che riscontro lo spessore della sua voce narrativa.

C’è un filo che collega i tuoi romanzi, o invece sono due visioni separate del tuo immaginario narrativo?

foto di Luca Di Benedetto
foto di Luca Di Benedetto

I due libri sono molto diversi perché ambientati in due parti del mondo distanti, ma ciò che li accomuna è la mia voglia di indagare il passato della mia famiglia. Nel caso di “La Grande A” si trattava della vita di mia nonna e della mia bisnonna paterne, emigrate nella Africa coloniale, mentre in “Un giorno verrà” del mio bisnonno materno, anarchico delle Marche.

In entrambi i casi le vicende della mia famiglia si sono intrecciate con alcuni fatti storici meno noti che hanno acceso il mio interesse. A posteriori mi sono inoltre resa conto che c’è una linea esistenziale che collega i due libri, in tutti e due un personaggio considerato all’inizio debole e manchevole (in “La Grande A” Giada e in “Un giorno verrà” Nicola) nel corso del romanzo trova la sua forza e forma la propria identità e lo fa anche attraverso un rapporto di attrazione e repulsione con una figura più determinata e spigolosa (per Giada si tratta della madre Adele, per Nicola del fratello Lupo). Penso che faccia parte della mia scrittura mettere in scena questo tipo di dinamica tra forza e debolezza, ribellione e fallimento, angoscia e volontà.

 

Un’altra caratteristica in comune mi pare essere la coralità in cui inserisci le voci dominanti del romanzo. In “La grande A” sia quando Giada vive in Italia, e maggiormente quando si trasferisce in Africa è sempre circondata da una diversa umanità che tu sai ritrarre e disegnare con grande effervescenza, colori e costumi, in modo che anche le figure secondarie, e persino le comparse abbiamo una loro fisionomia che colpisce il lettore. Così anche in “Un giorno verrà” in cui la comunità che rende corale il romanzo è come se scorresse su due binari paralleli: quella di Serra de’ Conti e quella del convento, che pure essendo separati, intersecano e intrecciano le loro vicende. 

Riconosci alla tua scrittura l’aspirazione a non rinchiudersi nello spazio ristretto dei protagonisti, ma di respirare con i pieni polmoni di un’intera collettività, che cerchi di fermare sulla pagina in momenti particolari della Storia? Come se il tuo vero interesse non sia semplicemente tracciare una parabola esistenziale dei singoli personaggi, ma farli vivere in un contesto determinato che calamita la tua attenzione e cura.

foto di Luca Di Benedetto
foto di Luca Di Benedetto

Sì, mi riconosco in questa visione. Mi piace tratteggiare più personaggi e creare un contesto ampio d’azione. Penso sia più evidente in questo secondo romanzo, dove i protagonisti sono quattro e intorno a loro si muovono molte figure, sia le altre della famiglia Ceresa che gli abitanti di Serra che i personaggi storici realmente esistiti. Mi interessa proporre un microcosmo fatto di storie piccole e piccolissime che creino una costellazione di vite e di esperienze. Costellazione è una parola che uso spesso parlando di scrittura perché rende l’idea di una serie di punti luminosi che insieme, per convenzione, compongono una figura, o quanto meno così noi la interpretiamo. Nella struttura del romanzo provo a fare la stessa cosa, ci sono stelle più luminose, stelle polari, pianeti e poi ci sono stelle più lontane o satelliti. Ogni volta che raccolgo il materiale per un romanzo mi segno a parte quelle minuscole storie che attirano la mia attenzione e provo a riutilizzarle poi quando scrivo, a posizionarle come stelle “periferiche”. Prendo molti appunti e tengo nota degli spunti che raccolgo sia nelle letture che nei racconti delle persone che incontro. Ora che chi mi conosce ha capito che sono interessata al passato e alla narrazione delle storie di famiglia e di comunità in molti mi raccontano episodi della loro vita trascorsa o di quella di loro parenti vicini e lontani. Io cerco di mettere tutto da parte e farlo tornare nelle storie “minori” che appaiono nei miei libri. Questo è il caso per esempio della favola dei pirati che nascondono i tesori nei fiumi delle Marche, una leggenda che mi ha raccontato una mia amica marchigiana, oppure il fatto che alcuni socialisti girassero per le campagne cercando di spronare i contadini alla vita politica mi è stato raccontato dal padre di una mia amica durante una gita a Macerata e così via.

 

Personaggi reali e personaggi inventati. Storia e fiction. Forse è questo il passo in più che compi da “La grande A” a “Un giorno verrà”. Anche se la tua straordinaria abilità è quella di rendere vividi e veri sia gli uni che gli altri.
Qual è la linea che tracci tra la Storia e il Vero, tra la Fiction e il Verosimile, e ancora tra dati autobiografici e romanzesco? Hai modelli da cui trai ispirazione? 

foto di Luca Di Benedetto
foto di Luca Di Benedetto

Sto ancora sperimentando e cercando di migliorare nel modo in cui mi occupo di questo rapporto. Nel primo romanzo la Vita e la Biografia (in quel caso di mia nonna) erano predominanti. Sono partita da lei e dai suoi ricordi, la memoria orale, per costruire il romanzo. Ho intrecciato i suoi ricordi con gli studi storici e sociali, ma la traccia della sua Vita è rimasta centrale. Nel nuovo mi sono sempre appoggiata a delle Vite e alle loro testimonianze per costruire i personaggi come per esempio per Suor Clara, per Giuseppe Ceresa e per la figura di Virginia, la donna anarchica che appare verso la fine del romanzo, ma l’ho fatto in parallelo allo studio storico. Si può dire che nel primo caso si sia trattato di una costruzione verticale (in cima la biografia e sotto la Storia e la Società del periodo), nel secondo invece di una costruzione orizzontale, dove la raccolta di materiali storici è andata di pari passo con quella dei materiali circa le singole vite e si è poi messa in relazione con la parte di fantasia. Il primo libro aveva meno contenuti di finzione rispetto al secondo in cui ho cercato di tenere insieme varie spinte: storia, trama e biografie.
Il mio riferimento è sicuramente Davide Orecchio, uno scrittore straordinario che sa mettere in scena la Storia e i personaggi storici realmente esistiti con molto coraggio e precisione.

 

In entrambi i romanzi è molto forte l’indagine sulle relazioni umane, affettive ed emotive, ricche di sfumature e di triangolazioni non ordinarie. Come tu accennavi in una delle risposte, due relazioni sono al centro della narrazione: quello di Adi e di Giada in “La grande A” e quello di Lupo e Nicola in “Un giorno verrà”. Ancora un ispessimento di temi da un romanzo all’altro. Se quello di Giada e Adina è un particolare e stravagante rapporto tra madre e figlia; quello di Lupo e Nicola è complesso e pieno, abbraccia sentimenti diversi e contraddittori, si arricchisce del non detto, si innesta e innerva nei rapporti famigliari pieni di conflitti e di segreti.

Una nuova grammatica dei sentimenti è quella che si dispiega nei tuoi romanzi, che non conduce mai a un’unica regola che tutto contiene, ma si ramifica in eccezioni ed accezioni che inglobano tutti i personaggi.

È un tuo modo di caratterizzare i personaggi la ricerca delle loro reazioni emotive e dell’articolazione, mai scontata, dei loro sentimenti, come se fossero i moti del cuore alla base e fondamento delle loro azioni e decisioni? 

foto di Luca Di Benedetto
foto di Luca Di Benedetto

Mi piace scrivere di rapporti unici, irripetibili, che durano tutta la vita. Lupo e Nicola si conoscono come fratelli ma si scoprono nel corso del libro come più di questo, la loro relazione nasce da subito come turbolenta, ma anche rassicurante e tenera. Sono diversi, sembrano incompatibili. La vita li allontana fisicamente ma il loro legame è tenace, sopravvive alle peggiori forze contrarie. Dopo aver scritto di due donne nel primo libro, una madre e una figlia appunto, in questo secondo avevo bisogno di raccontare invece la formazione di due uomini, in relazione alla famiglia da cui provengono e in relazione alla loro vicinanza. Le vite di Lupo e Nicola sono intrecciate strettamente, nessun ostacolo, neanche il più temibile e crudele, finché sono in vita, potrà separarli. I moti del loro cuore sono la base solida e granitica del loro agire.

 

L’anarchia e le lotte che ha suscitato, nell’economia del romanzo, diventano chiave profondamente umana e intima per indagare i personaggi e il tempo in cui si muovono. Eredità che dal nonno passa ai nipoti, superando e contrastando la generazione dei padri. 
“Un giorno verrà”: un titolo allusivo che con l’anelito del futuro guarda oltre le pagine e la storia narrata. Innestandolo nella ideologia anarchica e nella vicenda esistenziale della famiglia Ceresa, ha un valore d’ottimismo per un mondo migliore, o di rinuncia alla possibilità di farlo sorgere?

foto di Luca Di Benedetto
foto di Luca Di Benedetto

Ho scelto questo titolo, che nel corso del libro prenderà anche un’altra accezione rispetto a quella che pare ispirare da subito, perché volevo cercare di affrontare il tema dell’utopia e del rimando al futuro di compimenti e realizzazioni, rispetto a un presente di profezie e aspettative. Credo che oggi, mentre anche in letteratura imperversa il ritorno della distopia e quindi del futuro come luogo di derive e proiezioni oscure, sia più difficile recuperare la spinta propulsiva utopica. Utopia in questo caso non come l’irraggiungibile e quindi inutile tentativo di immaginare un futuro che verrà, ma come messa in campo di energie volte a un obiettivo, che se anche non verrà mai raggiunto fungerà da ideale regolativo del presente. L’utopia anarchica è di difficile realizzazione sociale, ma i suoi ideali, le idee che la muovono, dovrebbero servire a orientare le scelte del presente, nella speranza che queste per accumulo di buoni pensieri e buone pratiche provochino dei cambiamenti sensibili.

Chiacchierando con… Giulia Caminito
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