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Alla Balduina! E dove sennò?

Per comprendere fino in fondo il senso dell’invito di Andrea Pomella dovete arrivare alla fine di questa chiacchierata, a meno che non abbiate già letto “L’uomo che trema” (Einaudi), nuovo romanzo straordinario dello scrittore romano, sul quale ci accingiamo a chiacchierare in un luogo non neutro, come sveleremo nell’ultima domanda.

Clicca sull'immagine di copertina per accedere alla scheda sul sito della casa editrice Einaudi.
Clicca sull’immagine di copertina per accedere alla scheda sul sito della casa editrice Einaudi.

Di solito sono una lettrice vorace, ma con “L’uomo che trema” ho centellinato le pagine, ho lasciato che la voragine mi blandisse. Mi è piaciuto soffermarmi sul cratere e guardarci dentro, con movimenti lenti per la paura di cadere. “L’uomo che trema” è un libro doloroso che ti trascina nella depressione e ti mantiene a galla con un lingua essenziale, nitida e precisa. Ed è un libro che ti tocca e ti sgualcisce come petali e fiori di piante caduche.

Sarà difficile, Andrea, farti domande su “L’uomo che trema”, non perché non ce ne siano, anzi il contrario: il romanzo apre spiragli, fa scattare serrature, rende visibili pertugi, ma è la difficoltà di trovare da parte mia parole che possano competere con le tue. Fare proprio un libro, come a me ha toccato “L’uomo che trema”, è anche fare i conti con l’incapacità di dire altrimenti da quello che è scritto e da come è scritto nel libro. Allora prendo in prestito le tue parole per la prima domanda, e scopriremo insieme se via via nel corso di questa chiacchierata sarò capace di pronunciarne di mie.

Comincio raccontandogli gli ultimi sei mesi della mia malattia e, senza che me ne accorga, mi ritrovo a parlargli degli ultimi dieci anni, e ancora, incalzato da lui con tatto e cautela, degli ultimi quaranta. In pratica gli racconto tutta la mia vita passata sotto la scorza della depressione. E per la prima volta, forse, ho l’impressione che la mia vita coincida per intero con la malattia, che io non possa considerarla – per così dire – sganciata dalla malattia, che non esista qualcosa che sia ad essa più profondamente congiunta, che ne abbia condizionato gli esiti più della malattia, non l’amore, né il rancore verso mio padre, e neppure le più o meno infiammanti passioni – la musica, l’arte, la letteratura – che mi agitano.

Potremmo considerarlo sinossi del romanzo questo passaggio del testo, o invece cela il nodo gordiano da cui “L’uomo che trema” si è generato?

PomellaPiù che sinossi o nodo gordiano, io la chiamerei “epifania”. È il racconto del momento in cui prendo coscienza di una verità: il modo in cui guardo il mondo, in cui vivo il rapporto con gli altri, in cui faccio le mie esperienze, tutto è condizionato da una specie di lente deformante rappresentata dalla depressione. Ciò nonostante credo che sia sbagliato affermare che “L’uomo che trema” è un libro sulla depressione – come viene spesso, in maniera sbrigativa, definito. Il mio obiettivo non era descrivere la malattia, ma la realtà pensabile e conoscibile che sta al di là di essa. L’epifania riguarda il momento in cui mi accorgo per la prima volta di una verità fenomenale, ossia che la lente, nel mio caso, sta lì da sempre.

 

Il mio male non è quindi diretta conseguenza delle azioni di mio padre, ma effetto del preciso atto di volontà che ho compiuto da bambino: rinchiudermi nella caverna per vivere in contemplazione di quell’unica ombra immensa. E allora nulla è veramente mai esistito nei termini che ho creduto, neppure le persone a me più care, mia madre, mia sorella, Mario, Grazia. Anch’esse erano ombre. Ciascuna di loro un’apparenza determinata dall’ombra più imponente di tutte.

E così, dunque, la calma che ora sento non è altro che stupefazione, è l’attonita meraviglia che provo nella visione diretta del mondo, delle persone che amo, che io vedo – ora – per la prima volta nella loro oggettiva realtà.

“L’uomo che trema” si feconda anche di questa visione diretta del mondo di affetti che circonda il protagonista? Non è anche una dichiarazione d’amore “realistica” che non si piega a nessun sentimentalismo?

PomellaIl primo compito che mi sono prefissato all’inizio della stesura del libro è stato schivare ogni tentazione di sentimentalismo. Il secondo è stato accorciare il più possibile la distanza tra il testo e la realtà. Dico accorciare il più possibile poiché annullarla del tutto è pura utopia. Non credo infatti che abbia senso in letteratura parlare di fiction e non fiction. È più appropriato focalizzare l’attenzione su questa distanza che può essere più o meno ampia. Il libro è una dichiarazione di poetica, certo, come lo sono tutti i libri. La mia è una poetica indubbiamente realista. Ma il sentimentalismo e il realismo non si escludono l’un l’altro. Anzi. Nel realismo è implicito il rischio continuo di cadere nella trappola del sentimentalismo, perché il realismo richiede al lettore una continua, serrata immedesimazione, e il ricorso al sentimentalismo è – diciamo – la scorciatoia naturale per l’immedesimazione. E tuttavia com’è possibile descrivere un mondo di affetti senza ricorrere ai sentimenti? Io credo che esista qualcosa che possiamo definire un “realismo dei sentimenti” (o dell’intimità umana) che si realizza in prima istanza nell’osservazione lucida, quasi dislocata, e solo successivamente nella scrittura vera e propria.

 

Conservo nella memoria una visione netta, feroce e indiscutibile, del giorno in cui tutto ebbe inizio.

Visione e realtà, visionarietà e corporeità: in “L’uomo che trema” la sfida, vinta in pieno, è quella di rendere con le parole quello che il protagonista vede e sente.

Il problema principale che occupa il tempo di un malato di depressione in terapia è avere a che fare con effetti indesiderati di questo genere. Quando si intraprende la cura, gli assalti della malattia psichica non si attenuano, ma passano in secondo piano, perché la mente è impegnata a trastullarsi con queste nuovissime follie, ne esplora compiaciuta tutti gli anfratti, gioisce di una malsana meraviglia nel constatare la vulnerabilità dell’organismo umano, il suo essere infinitamente fragile e cedevole al cospetto della chimica.

La scrittura nella sua sconfinata lucidità riesce nel compito che sembra impossibile di dare consistenza a una condizione psichica che potrebbe sembrare di forte labilità, che tu spieghi in maniera nitida:

Razionalmente concepisco l’idea di non essere in me, di partorire questi pensieri perché la malattia è in una di quelle fasi aggressive, perché assumo l’antidepressivo al mattino e adesso sono passate sedici ore e i suoi effetti sono diluiti, e nel mio sangue la concentrazione della chimica è sotto il livello minimo. Io sono un essere logico, e lo sono ancora di più quando la mia mente impazzisce per effetto della depressione maggiore.

E se è vero, come tu affermi, che “L’uomo che trema” non si esaurisce a essere un libro sulla depressione, e anche vero che sulla malattia psichica non solo dice cose necessarie e urgenti, ma riesce anche a dirle in modo del tutto inedito e sorprendente.

PomellaPer affrontare il tema della depressione avrei potuto intervistare i malati, parlare con gli esperti e i professionisti della psichiatria, fare studi e ricerche, e poi inventare un personaggio, una storia. Ma avevo un testimone privilegiato, un testimone che stava vivendo il peggior attacco depressivo della sua vita: me stesso. Uno scrittore è come un ladro, aspetta l’occasione, il momento propizio. E quello era il mio momento. Allora lo scrittore ha prevalso sul malato, lo ha osservato e narrato, mentre il malato da parte sua continuava a patire le proprie pene. In questa scissione ho trovato la chiave del racconto, l’unica secondo me possibile per dire su questo argomento qualcosa di diverso in un modo diverso. Ero mosso anche dalla curiosità di mettere alla prova la mia capacità di scrittura in quelle condizioni estreme, e al tempo stesso dal desiderio di documentare l’infinito caos che in quel momento infuriava nella mia mente. Mi sorprende sempre la capacità di noi esseri umani di aggirare noi stessi nelle forme più complicate e fantasiose.

 

Sette anni fa la questione del padre è diventata la questione del figlio. Lo è diventata fin dal giorno in cui ho saputo che sarei diventato a mia volta padre. Così la prima domanda che mi sono posto è stata: se è vero che i bambini abbandonati dal padre saranno quelli che, più di tutti, da grandi, a loro volta abbandoneranno, io che sono al tempo stesso figlio abbandonato e figlio abbandonante, come sarò nelle vesti di padre? Più di tutto ho vissuto la paternità come una prova a cui dovevo giocoforza sottopormi, una verifica per così dire delle mie capacità, della mia superiorità e della mia forza. Volevo in qualche modo mettere a nudo la differenza tra me e mio padre, tra il mio impeto e la sua debolezza.

Questo è stato per i nove mesi dell’attesa.

Un altro motivo di grande potenza in “L’uomo che trema” è il triangolo padre-figlio-nipote. Potente e ficcante il modo in cui lo intrecci con la malattia. 

“L’uomo che trema” è un libro sul padre o sul figlio?

PomellaLa letteratura, la religione, la psicanalisi ci hanno detto tutto del padre e poco del figlio. È soprattutto una questione di prospettiva, se non proprio un approccio culturale. La prodigiosa potenza di “Lettera al padre” di Kafka deriva dal fatto che ci parla del figlio, e solo di riflesso del padre, in un modo in cui non accadeva forse dal tempo dei Vangeli. Senza voler fare accostamenti spericolati, penso che anche “L’uomo che trema” sia fondamentalmente un libro sul figlio. Di norma il padre è colui che detta la legge, mentre il figlio è colui che obbedisce. Ma la storia che racconto è la storia di un figlio che impone una legge al padre, la legge del distacco, una legge contronatura che avrà per entrambi delle conseguenze nefaste. Ci sono anche momenti in cui il figlio del figlio, a sua volta, si prende cura del genitore, e lo fa quando lo vede distrutto dalla malattia psichica e incapace di muovere un muscolo, allora lo accudisce a modo suo, giocando su di lui con le minifigure Lego. Il rovesciamento dei ruoli in questa storia eterna del padre e del figlio è la cosa che più mi premeva mettere a fuoco.

Giuseppe Berto

Non so, Andrea, se ti farà piacere quello che sto per scrivere. Mi sono profondamente emozionata e commossa sulle pagine che hai dedicato al rapporto padre-figlio e c’è una scena, che non voglio svelare ai lettori futuri di “L’uomo che trema”, in cui gli occhi mi pungevano e un brivido mi teneva.

Arrivati all’ultima domanda, vorrei chiudere con l’omaggio a “Il male oscuro” di Giuseppe Berto che tu espliciti nel libro. Lo fai in un modo che mi è particolarmente congeniale, cioè passeggiando, e dunque conducendo il lettore, fino alla casa romana dello scrittore.

Perec va a cercare la memoria che galleggia nei luoghi. Io cerco i luoghi in cui galleggia la memoria di Berto, luoghi di per sé non particolarmente memorabili, luoghi privi di qualsiasi attrattiva. Che cosa sono venuto a cercare? Cerco le tracce di uno scrittore morto, le cerco nelle strade senza fascino, nei passanti senza mistero, cerco la più alta intuizione, un insieme di parole che formi il calligramma della mia vita corrente.

e cosa hai trovato quando hai raggiunto la palazzina che sorge 

in una strada privata intitolata a uno scrittore latino, un vicolo curvo senza uscita,

e insieme 

a uno studio di architettura, un bed and breakfast, 

hai scorto 

il nome che cercavo: BERTO?

PomellaPer molto tempo, quando uscivo per correre, prendevo come riferimento la casa di Berto. Andata e ritorno facevano esattamente dieci chilometri. Andare e tornare da casa Berto mi è sempre sembrata un’ottima metafora di qualcosa che aveva a che fare con la mia scrittura. La corsa oltretutto è un naturale inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina. Le mie corse verso la casa dell’autore de “Il male oscuro” erano parte di una terapia per difendermi dal mio male oscuro. Cosa ho trovato davanti a quella palazzina? In verità niente di particolare, una normalità che faceva a pugni col mito letterario. In questi anni ho girato spesso per le vie della Balduina in cerca di una traccia di Berto godendo inconsapevolmente del fatto che non ne trovassi. È una delle cose che più mi piace fare, osservare i quartieri, le strade, la realtà, concentrandomi su ciò che non accade. L’essenza vera dei luoghi sta nella loro ordinarietà, non nei fatti eccezionali. La letteratura cerca sempre di raccontare l’eccezionalità, non si nutre mai abbastanza della più banale consuetudine. Eppure la vita è composta per il novantanove per cento da consuetudine. Se vogliamo raccontare noi stessi dobbiamo iniziare raccontando la banalità dei nostri giorni. Ecco, davanti alla palazzina di Berto, questo forse ho trovato.

Chiacchierando (di nuovo) con… Andrea Pomella
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