farfallario

Cara Giuditta, questa volta ti avrei dato appuntamento in un farfallario oppure in un ex manicomio. 

Non è la prima volta che incontro Fabio Stassi per chiacchierare di un suo libro e della sua scrittura, che ha sempre la capacità di toccare corde intime della mia anima di lettrice.

Anzi credo di non sbagliare, affermando che sia in assoluto lo scrittore più ricorrente nel blog.

La prima chiacchierata l’abbiamo fatta nel 2013 per “L’ultimo ballo di Charlot” (Sellerio) immaginando di incontrarci nella città universitaria romana della Sapienza; poi a piazza Santa Maria in Trastevere, sulle orme di Oscar e Soledad, i personaggi di “Come un respiro interrotto”, che proprio lì si sono dati appuntamento (QUI); per la terza volta del Chiacchierando eravamo tornati a Kalamet, dove Fabio Stassi ha ambientato il primo romanzo “Fumisteria”, ripubblicato pochi anni fa da Sellerio; e infine la volta precedente a questa Fabio Stassi mi diede appuntamento al museo delle marionette di Palermo per chiacchierare di “Angelica e le comete” (QUI).

Fabio Stassi

E adesso eccoci qui per chiacchierare non di un libro, ma di ben due titoli che si sono rincorsi nelle librerie: “Ogni coincidenza ha un anima” per Sellerio, e “Con in bocca il sapore del mondo” per minimum fax.

Leggere “Ogni coincidenza ha un’anima” (titolo estremamente poetico) in successione a “Con in bocca il sapore del mondo” è stato per me come prolungare un piacere assoluto. fabio-stassi-la-lettrice-scomparsaLa seconda avventura di Vince Corso è ancora più letteraria, nel senso pregnante del termine, della precedente raccontata in “La lettrice scomparsa”, in cui mi sembra che il tributo al genere fosse stato più incisivo. Questa volta invece Fabio Stassi si abbandona del tutto al piacere di raccontare la Letteratura e i nomi che l’hanno resa grande, come avviene in “Con in bocca il sapore del mondo” nello specifico per la Poesia.

Ci sono dei rimandi speculari tra le due opere come nel caso di Ungaretti e del concerto con Vinicius de Moraes e Chico Buarque al Teatro Argentina di Roma, raccontato in entrambi.

Cos’altro lega questi due libri all’apparenza così diversi, ma che nascondono un timbro della tua voce narrativa che mi sembra ti appartenga sempre di più e nella quale stai segnando un solco profondo?

Fabio stassiCarissima Giuditta, “Ogni coincidenza ha un’anima” e “Con in bocca il sapore del mondo” non sono soltanto le ultime tessere del domino che sto giocando, un libro dopo l’altro, ormai da molti anni, nella speranza che alla fine si intraveda una trama comune, ma anche le più vicine tra loro, in qualche modo le più affini. Si sono alimentati a vicenda, e li ho scritti quasi parallelamente. Si muovono tra gli stessi poli: la lingua, il ricordo, la follia. Soprattutto, per me, sono due libri in memoria della memoria, non saprei come spiegarlo per bene. Il racconto d’amore d’un demente, nell’ora degli spettri, per usare proprio dei versi di Ungaretti che, hai ragione, li lega come un ponte. Dei versi che valgono sia per un uomo a cui l’Alzheimer ha tolto il linguaggio che per dieci poeti scomparsi. Sono storie di fantasmi a cui ho cercato di restituire la voce che hanno perduto.

 

La mia memoria può ingannarmi, ma in un incontro della “scuderia” dei giallisti Sellerio a Più libri più liberi, la Fiera della media e piccola editoria che si tiene a Roma ogni anno a cavallo dell’8 dicembre, mi pare che accennasti a una “committenza” di Antonio Sellerio perché dopo Fumisteria, il tuo esordio, ritornassi a scrivere un giallo. Da quella “raccomandazione” nacque Vince Corso.

Anche per “Con in bocca il sapore del mondo” si potrebbe parlare di una “committenza”, forse, visto che nasce da una trasmissione televisiva. 

Che legame c’è tra quello che come raffinato intellettuale ti viene chiesto di scrivere e ciò che più profondamente ti sta a cuore? e allargando il passo del mio ragionamento: dieci poeti per “Con in bocca il sapore del mondo” e un nutrito e ricco, quanto variegato, elenco di titoli e autori per curare i diversi pazienti che si presentano dal biblioterapeuta oltre a quelli che servono a Vince per risolvere il mistero dei balbettii del sinologo malato di Alzheimer che sembrano alludere a un unico libro, come li hai scelti?

Fabio stassiA volte i libri nascono da un’occasione, da un incontro, da una circostanza: l’importante è che non siano loro a essere occasionali. Ho sempre cercato di ascoltare ogni proposta, ma di accogliere soltanto quelle che trovano in me una risonanza particolare, come delle idee che aspettavano soltanto un pretesto per venire fuori. Per i poeti, è stato così. La scommessa di provare a scrivere una trasmissione televisiva è stata una grande opportunità. All’inizio ero sicuro che nessuno sarebbe stato così pazzo da produrre dei documentari sulla poesia, così ho subito pensato a questi testi come ai capitoli di un libro che avevo veramente molta voglia di scrivere. Appena terminato il primo racconto, ho capito che le storie di questi poeti le avrei scritte comunque, perché mi riguardavano profondamente. Così come mi riguardava molto da vicino la vicenda di “Ogni coincidenza ha un’anima”. Per riuscire a raccontare, ci devono essere sempre delle ragioni intime, che mi spingono a farlo. Delle ragioni nascoste, e personali. Senza di queste, è per me impossibile. Il resto, è come scalare una montagna. Il paesaggio si forma un passo dopo l’altro. E i libri che Vince Corso prescrive ai suoi pazienti e quelli in cui si imbatte durante la sua solitaria investigazione sul segreto dell’uomo malato di Alzheimer sono una parte di questo panorama: ognuno di loro è una collina, o un dirupo, una vertigine, un altopiano. Lo scenario naturale nel quale Corso si muove è fatto di romanzi, e i versi dei poeti a volte sono i sentieri di terra battuta più affidabili che si possano seguire.

Perdona, Giuditta, non sono però e non sarò mai un raffinato intellettuale. E neppure un intellettuale. Come diceva Ungaretti, vorrei essere soltanto un uomo che ha molto amato, molto sofferto, ma odiato mai.

 

Caro Fabio, io attribuisco alla parola intellettuale una caratteristica molto novecentesca. Per me intellettuali sono Pasolini, Calvino, Ginzburg, Morante e Moravia, solo per citare i nomi più cari e letterari. Io ti penso in mezzo a loro!

Nell’introduzione a “Con in bocca il sapore del mondo” scrivi:

La vita dei poeti somiglia a quella delle farfalle: hanno gli stessi traffici con l’effimero, la solitudine e la bellezza.

Potremmo dire che anche la vita di Vince Corso ha a che fare con gli stessi elementi: l’effimero, la solitudine e la bellezza. Equivarrebbe a dire che anche Vince Corso è un poeta? Dopotutto non l’ha fatto sperimentare anche ai suoi alunni, quando era un insegnante precario, con il caviardage?

Capivano da soli che ogni parola poteva essere decisiva per il nostro destino futuro. E non bisognava sprecarla. Così non avevo bisogno di dirgli che era questo ciò che fanno i poeti, perché l’avevano appena sperimentato.

Ma se i poeti sono coloro che si prendono cura delle parole, non fai lo stesso tu, Fabio, con la spericolata opera di finzione dei romanzi che hai scritto nella convinzione assurda che una singola sillaba possa spostare l’asse terrestre?

O invece qual è la differenza tra te, Vince Corso e i poeti a cui hai dato vita in “Con in bocca il sapore del mondo?

Fabio stassiSì, io ci credo davvero, che una sillaba possa spostare l’asse terrestre. Le parole sono la cosa più importante che abbiamo. Le parole ci salvano, come sostiene Eugenio Borgna che ha dedicato a questo tema dei libri molto belli. Ma le parole si ammalano anche: prendercene cura è il nostro compito.

Le parole dei poeti o quelle che insegue Vince Corso nelle sue indagini, però sono rivelative, non comunicative. Rivelano, non comunicano. La loro natura è antagonista al nostro tempo. Vanno alla ricerca di un senso, di coincidenze. Sono come le farfalle, con il loro impasto di fragilità, bellezza e solitudine. Se al linguaggio togliamo questa tensione verso il significato, consacrati alla divinità della comunicazione, come siamo, ho paura che finiremo per perdere quello che mi piace chiamare lo sguardo simbolico.  Molti filosofi ci hanno insegnato che l’uomo è innanzitutto un animale simbolico: ciò che lo distingue è il fatto che usa e produce segni. E i primi simboli, i più elementari, sono le lettere dell’alfabeto (anche per questo, numero in questo modo i capitoli di Vince). Se si perde questo sguardo, cioè lo sguardo dei poeti, non sapremo più leggere il mondo e di conseguenza tutto quello che ci capita. E questo è pericoloso, perché così si lascia ad altri l’opportunità di attribuire i significati dei segni e di semplificare, e a predominare saranno le forze irrazionali.

 

Nel leggere “Con in bocca il sapore del mondo” mi sono lasciata prendere per mano da te, senza cercare di scoprire prima l’identità del poeta ma aspettare che fossi tu a svelarla nelle pagine (che non sono mai le prime), mettendo alla prova me stessa. A volte, confesso, è stato facile come con D’Annunzio o Saba o Ungaretti o Montale, altre più difficili. Con Cardarelli impossibile: infatti è un poeta che conosco poco, e che grazie alle tue pagine sono andata a leggere e ad apprezzare.

Ho notato che anche nell’indice i nomi dei poeti non sono indicati, con spazio solo ai bellissimi titoli di ogni biografia.

Era voluta da parte tua l’idea che per ogni lettore l’identità del poeta fosse oggetto di una piccola indagine tra i suoi pensieri? O invece hai dato per scontato che fossero immediatamente riconoscibili?

Come riscontro da lettrice, l’accorgimento di lasciare che il nome affiorasse durante la narrazione ha reso molto affascinante la lettura e più coinvolgente.

Insieme senza dubbio al pronome “io” con cui hai deciso di raccontarli: una bella responsabilità far parlare direttamente i poeti, che per la tua estrema e profonda sensibilità ha avuto un risultato di rendere questi uomini (e una sola donna) vivi e veri, assolutamente autentici e straordinariamente umani.

Dire “io” al posto loro che impatto ha avuto sulla tua scrittura?

Fabio stassiSì, l’idea di rivelare gradualmente l’identità del poeta che parla, volta per volta, in questi monologhi era voluta. E anzi, In qualche caso avrei dovuto celarla meglio. Non soltanto per gioco o per creare una complicità con il lettore. Ma perché ho imparato, in tutti questi anni, che scrivere o raccontare vuol dire soprattutto saper nascondere le informazioni.

Insieme a Vince Corso, anch’io continuo a pensare che non ci sia mistero più grande della vita e della voce delle persone: le ragioni della gioia e dell’infelicità, il soprassalto dell’amore, l’atteggiamento di fronte alla morte, i fallimenti e i colpi di fortuna, il manifestarsi del talento… volevo indagare tutti questi aspetti della vita umana studiando dall’interno degli esemplari così particolari come i poeti. Come ho scritto all’inizio, questo libro è davvero per me un manuale di zoologia fantastica. Oltretutto, non dichiarando subito l’identità, mi è parso di estenderla anche a me che scrivevo per conto loro, e a chi avrebbe letto o leggerà queste pagine. Ma per ottenere il massimo coinvolgimento dovevo rischiare la prima persona.

L’avevo tentata la prima volta nel dizionario dei personaggi letterari del secondo Novecento. A quel libro ci ho lavorato per anni, nei miei viaggi quotidiani in treno, ed è stato lì forse che ho acquisito quest’abitudine di parlare a nome di altri. Per esercitarmi, ho avuto a disposizione un’intera anagrafe immaginaria (il commissario Ingravallo, Aureliano Buendia, il Barone rampante, Mardou Fox, Lolita…), eppure tra le sue righe inserii già alcuni uomini e scrittori realmente esistiti, come Antonio Gramsci, Primo Levi, Elias Canetti. Il secondo salto lo feci con Charlie Chaplin, passando alla misura del romanzo e osando addirittura un’autobiografia apocrifa.

Con questi poeti, mi è venuto quasi naturale. E’ stata un’esperienza di irripetibile felicità. E in qualche passaggio (in Alda Merini, in Gozzano, in Cardarelli, che è il più leopardiano di tutti) mi è parso di avere trovato la mia voce, come forse non mi era mai accaduto prima. E questo mi ha aiutato anche per definire il tono che volevo avesse “Ogni coincidenza ha un’anima”.

 

Siamo all’ultima domanda e con te mi sembra che arrivi sempre troppo presto. Ogni tua risposta mi lascia sempre con il fiato sospeso dalla meraviglia e dalla bellezza.

Quanto sono pieni intrinsecamente di poesia entrambi i titoli dei tuoi libri: “Ogni coincidenza ha un’anima” e “Con in bocca il sapore del mondo”, ai quali unirei “Come un respiro interrotto” per afflato poetico già nel titolo.

Come appendice a “Ogni coincidenza ha un’anima” troviamo i consigli di lettura di Vince, preceduti da un esergo che è una riflessione di Manganelli: La letteratura è nevrosi e per questo è così essenziale alla cultura moderna perché è il suo sogno, il suo sintomo, la sua malattia.

Eppure Vince vuole curare con i libri. 

È in contraddizione con Manganelli la sua attività di biblioterapeuta, o c’è un nesso tra la cura di Vince e la nevrosi di Manganelli?

Di sicuro possiamo dire, dopo aver letto “Con in bocca il sapore del mondo”, che la poesia è essenziale alla cultura odierna: dove sono andati a finire i poeti rispetto a certe brutture che anche Vince è costretto a vedere tra le strade della città sotto i suoi occhi?

Che sapore ha il mondo di “Ogni coincidenza ha un’anima”?

Fabio stassiSarebbe bello se i titoli dei libri, disposti tutti in fila, formassero a loro volta l’incipit finale dell’unico romanzo che si sarebbe voluto scrivere. Di sicuro, questi tre sono legati tra loro, e hanno un suono comune. Riassumono dei temi di cui finisco sempre per parlare: le interruzioni, le coincidenze e, in fondo, un certo entusiasmo per la vita.  Credo che in tutto quello che si scrive ci sia una coerenza interna da scoprire, un senso che ci sfugge. Penso spesso che questa parola, Coerenza, doveva essere il titolo dell’ultima lezione americana di Calvino, quella che non riuscì purtroppo neppure a cominciare.

Sono certo anche che la letteratura sia una forma di nevrosi, e che Vince Corso sia il primo ad avere bisogno di una cura. E’ il paziente dei suoi pazienti. Più che con i rimedi, ha dimestichezza con i malanni. Ma è forse proprio quest’empatia con la fragilità, e la sua diffidenza verso ogni sfoggio di robustezza, a renderlo quasi involontariamente terapeutico per gli altri. In fondo, credo che sia anche questo il meccanismo per il quale la lettura di alcuni romanzi sia medicamentosa, perché esprime e condivide le nostre stesse sofferenze. La sensibilità è sempre una forma dell’immaginazione.

Della poesia ce ne sarà sempre bisogno. Sono convinto che tornerà, perché ci serve così come ci serve l’energia, e la poesia è la più sostenibile e rinnovabile di tutte. Protegge la nostra umanità. Ci è indispensabile. I poeti continuano a lavorare di notte, come dice Alda Merini. Siamo noi che non li sentiamo più. Ma presto li rivedremo nelle piazze, come pupari o contastorie, come dei ciechi nelle metropolitane, con le loro fisarmoniche.

Il mondo di “Ogni coincidenza ha un’anima” ha il sapore degli appuntamenti mancati, degli acrobati che non afferrano il trapezio, dei conti con la propria solitudine e con i propri fantasmi, ma anche della memoria e degli amori che sopravvivono al dolore e all’oblio, delle parole salvate come una crisalide e spedite a un indirizzo nuovo perché, da qualche parte, un destinatario sconosciuto possa indovinare il disegno che portano sulle ali.

A Fabio sarebbe piaciuto inserire in questa chiacchierata un passaggio, che ha messo in bocca ad Alda Merini, perché lega molte cose insieme. A me è sembrato che potesse essere la giusta conclusione di questo nostro incontro: 

“La verità è che il dolore è l’unica terraferma che abbiamo. Non possiamo contare su nient’altro perché soltanto il dolore ci appartiene. La gioia è infedele e più girovaga della gente del circo. Ogni tanto arriva, monta il suo tendone di stelle colorate, inscena uno spettacolo, il tempo di un applauso, di una risata, di una lacrima, poi se ne riparte, lasciando soltanto l’impronta di un cerchio sulla sabbia. Ma è così. Per evolversi la vita deve fare male. Si nasce e si muore soffrendo, e la maternità più difficile è quella che riguarda il poeta. Perché il dolore ci sfigura, come ci sfigura la materia, come ci sfigura la vergogna di fronte a un figlio.

Ma anche se sono stata una poetessa della sventura, è con gioia che ho cercato di vivere.”

Chiacchierando (per la quinta volta) con… Fabio Stassi
Tag: