Boccascena2

Per il luogo di incontro ho pensato al Boccascena Cafè, situato all’interno del Palazzo Litta in centro a Milano, adiacente alla sala teatro. Mi immagino i tavolini e poco più in là l’ingresso, il palcoscenico vuoto che vediamo in lontananza. 

Clicca sulla copertina per accedere alla scheda del libro sul sito della casa editrice Hacca.
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Siamo lì: io e Stefano Corbetta, che firma il secondo romanzo “Sonno bianco” nelle eleganti edizioni Hacca, con la copertina, come sempre icastica, di Maurizio Ceccato, su cui avremo modo di tornare nel corso della nostra chiacchierata per sovrapporci nell’interpretarla. Secondo indiscrezioni del Libraio.it il romanzo potrebbe essere tra i candidati al Premio Strega, quindi incrociamo le dita per lui e la casa editrice Hacca.

Prima di addentrarmi nella storia raccontata in “Sonno bianco”, vorrei soffermarmi preventivamente sul tema, in cui il romanzo è incistato.

Due gemelle, una gita scolastica, un tragico incidente: Bianca cade addormentata, Emma porta nella sua zoppia il segno indelebile di quello che è successo.

Madre, padre e sorella dovranno fare i conti con il sonno di Bianca, senza darsi pace. Fino a quando la scienza non riesce a proporre una soluzione.

Cosa ti ha spinto a cimentarti con il “sonno bianco”? c’è una presa di posizione alla base del romanzo, o invece è solo una traccia importante su cui fondare la tua narrazione?

Stefano CorbettaIl titolo, che potrebbe essere la didascalia dell’immagine da cui tutto è partito, ha una doppia valenza perché fa riferimento a entrambe le gemelle, e non solo a Bianca, come forse si potrebbe pensare. È stata una traccia, o forse, meglio, soltanto un seme che mi ha portato a capire cosa sarebbe diventata questa storia. Non avevo in mente nulla di programmatico, nessuna presa di posizione rispetto ad alcunché. C’è anche un silenzio apparente, che potrebbe evocare un “rumore bianco”, fenomeno fisico interessante perché legato a una particolare idea di tempo, o meglio alla sua assenza, che è l’atmosfera dentro cui volevo che la storia prendesse corpo. Da questo punto di vista credo che il fulcro di “Sonno bianco” sia il rapporto tra Emma e Bianca, apparentemente univoco, se pensiamo alla condizione di Bianca, ma che invece si rivela essere molto più dinamico di quanto si potrebbe credere e che svela un’idea semplice: tutto ciò che è nascosto esercita su di noi un potere molto più grande rispetto a ciò che è esplicito, visibile.

 

Emma e Bianca: la relazione che le due gemelle continuano a mantenere vigile e tenera è uno dei punti nodali, e a mio avviso più felici, del romanzo. C’è unicità, sovrapposizione, consapevolezza, anche sofferta da parte di Emma e non solo sua, di essere differenti. Emma sente da una parte il dovere di vivere la vita di Bianca, e dall’altra il desiderio di cercare la sua strada. Ed è negli altri, al di fuori del nucleo familiare che Emma cerca la propria identità, staccata da quella della gemella.

Il teatro mi sembra che condensi tutta la complessità del rapporto che lega le due sorelle, e ne diventa emblema e metafora.

Attraverso il teatro e l’esperienza di attrice, Emma si sente come Bianca e nello stesso tempo si riconosce pienamente se stessa.

È così?

Stefano CorbettaNon del tutto. Il rapporto tra Emma e Bianca è un non-luogo, perché rinchiuso in un passato che Emma non può cambiare, di cui lei è responsabile, e proiettato in un futuro che non può promettere il ritorno di Bianca; il teatro, per contro, è lo spazio che permette a Emma di ritrovarsi ogni volta. Se ci pensi è un ribaltamento: il palcoscenico, la finzione, svela e rivela, ti chiede di gettare la maschera per poter essere un personaggio, la vita reale può soffocare. Una cosa che ricordo sempre durante i training teatrali e che mi veniva detta continuamente, che ci chiedevano di ripetere a noi stessi come un mantra, era: non giudicatevi, quando siete qui, non giudicatevi. Il messaggio era semplice: accogliete i vostri errori e fatene la vostra forza, aprite le maglie, così che l’altro possa entrare, e allora i personaggi prenderanno vita. Emma sente così di potersi raccontare in quello spazio vuoto per quello che è, e nessuno, né sua madre, né suo padre, nemmeno sua sorella dal suo letto possono giudicarla e impedirle così di ricominciare a vivere davvero. In questo senso Emma, partendo da un desiderio imitativo verso sua sorella – Bianca avrebbe dovuto esser l’attrice, lei era la preferita di sua madre – capisce lentamente di  essere “altro”, e non soltanto la copia della gemella. Il che potrebbe apparire scontato, ma non lo è affatto, data la natura del rapporto gemellare e alla luce della colpa che Emma porta su di sé. Bianca tende infatti a occupare lo spazio mentale di Emma fino a trasformarsi in ossessione, arrivando a diventare “immagine” che accompagna Emma anche al di fuori dell’istituto in cui Bianca viene accudita, ma è proprio nello spazio teatrale che Emma inizia a capire di potersi affrancare dal suo doppio e vedere la vera immagine di sé.

 

Ma c’è anche un altro rapporto che in “Sonno bianco” tu indaghi con bisturi affilati che toccano nervi e visceri: quello, contraddittorio complesso complicato, che lega Emma alla madre, e quasi in controcanto con questo il legame, tenero e complice, che Emma condivide con il padre.

La madre è la grande assente nella vita di Emma, più ancora del sonno di Bianca e a causa di esso. Un rapporto indissolubile e insoluto, che nelle pagine cresce e si articola in tragicità e silenzi. Il padre sembra fare le spese, sia nei confronti di Emma, che come marito. 

La copertina con quella seggiola capovolta rende alla perfezione il senso di fragilità e manchevolezza che è alla base dei rapporti familiari che indaghi nel romanzo.

Chi era seduto su quella seggiola ribaltata dei quattro componenti?

Stefano CorbettaSai, è curioso come una stessa immagine possa trasmettere idee contrastanti ed è altrettanto interessante vedere come la nostra percezione possa mutare nel tempo. Io concordo con chi afferma che si comprenda davvero una storia e le ragioni che ci hanno portato a scriverla dopo averla scritta, o almeno, se non completamente, in buona parte. Non sto parlando di improvvisazione durante le stesure, questo no, dico solo che una storia spesso ci supera e quando questo accade significa che siamo di fronte a qualcosa di vitale. Intendo dire che quella sedia a terra è segno di fragilità, come dici tu, ma anche di forza, determinazione. Non posso svelare molto, ma posso dire che Maurizio Ceccato è riuscito a riassumere in una sola immagine ciò che io ho cercato di dire in quasi trecento pagine. Ricordo che stavo guidando, era notte fonda, e a un certo punto ho capito che la sedia a terra poteva essere di ognuno dei componenti della famiglia Vergani, e in questo modo il senso della storia si ampliava e ne veniva rafforzato. Era qualcosa che avevo sottopelle e che non avevo messo a fuoco, ma che pulsava chissà da quanto tempo. Così ho capito quale fosse l’idea centrale del romanzo, e cioè che ci sono rapporti che riescono a definirci soltanto in virtù della loro – apparente – assenza, come se alcune realtà possano raggiungere la loro completezza in un atto definitivo di sottrazione.

 

Sono tanti i colpi di scena che si avvicendano in “Sonno bianco”, e non ho nessuna intenzione di svelarli per rispetto dei lettori che seguiranno a questo Chiacchierando. Quello che mi ha colpita e convinta è che l’intrecciarsi della trama non è mai rincorsa con la ricerca di una suspense cinematografica, che a volte nei romanzi mi disturba e arriva quasi a irritarmi, nonostante i fatti si prestino particolarmente a essere trattati in quel modo. 

C’è una lentezza spessa nel tuo ritmo che si innesta perfettamente nelle vicende narrate, e lascia che il lettore si soffermi sulle vicende, abbia modo di comprenderle senza esserne travolto. È come se le vivesse istante per istante insieme ai personaggi. Li seguisse in ogni loro gesto, con attenzione ai dettagli introspettivi.

Fissò la pallina rossa al centro dei palmi, allungò un dito e la toccò. era morbida come quella mattina di febbraio, il tempo non l’aveva cambiata, soltanto un po’ sbiadita. poi tornò al letto. si chinò piano, le avvicinò la bocca all’orecchio e le disse qualcosa in tono gentile, poche parole in un soffio lieve. le toccò un braccio e sentì che era tiepido. accarezzò la pelle liscia, fece scorrere le dita lungo l’avambraccio, chiuse gli occhi e sorrise. la mano incominciò a salire verso la spalla e arrivò al collo. Appoggiò i polpastrelli sulla carotide e sentì il sangue fluire lungo l’arteria. Le pulsazioni erano basse, una vibrazione leggera che emergeva timida, come se quel corpo stesse parlando sottovoce, nella lingua arcaica di un mondo perduto.

Non vorrei essere fraintesa: il romanzo è molto coinvolgente, e ottiene la partecipazione del lettore con un ritmo proprio, che è perfettamente coerente e congeniale alle vicende narrate, che sono intime, sentite e sofferte dai personaggi. 

Chi ha dettato la “musica” di “Sonno bianco” la tua scrittura o la vicenda?

Stefano CorbettaSempre restando sulla metafora della partitura musicale, credo che il ritmo, e di conseguenza la scrittura, siano stati dettati dalle immagini. Scrivere “Sonno bianco” è stato come assistere a un film le cui scene si susseguivano giorno per giorno, rimanendo sospese quando interrompevo la scrittura, per poi riprendere nel momento in cui potevo rimettermi al computer. Quindi credo che sia stata la vicenda a dettare la struttura del romanzo – non è un caso che i capitoli siano piuttosto brevi, con cambi frequenti del punto di vista – e solo successivamente sono intervenuto per mettere meglio a fuoco alcuni personaggi e la cifra della loro relazione, trovando infine in Francesca Chiappa una editor di grande sensibilità. Le devo molto. 

 

C’è anche la musica, e non solo il teatro, in “Sonno bianco”, attraverso il personaggio di Lèon, l’insegnante di musica di Mattia, il figlio dei vicini a cui Emma fa da babysitter. L’unico che avrà il consenso di far visita a Bianca insieme con lei. La persona che l’aiuterà meglio a capire la propria identità e unicità.

Anche tu ti sei occupato di musica e di teatro. Quanto di te c’è dentro “Sonno bianco” attraverso la musica? e si potrebbe dire che il ritmo della tua scrittura familiarizza con il jazz? Da parte mia, se dovessi scegliere una musica di sottofondo da accompagnare alla lettura del romanzo, avrei scelto il jazz (e prima di leggere la quarta di copertina con le notizie biografiche che ti riguardano).

Stefano CorbettaChe bella domanda, grazie. La musica è sempre stata parte della mia vita, sia perché ho suonato jazz per diversi anni, sia perché adesso ho un figlio che studia pianoforte e che spesso accompagno in giro per l’Italia quando deve partecipare a concorsi o suonare concerti. I maestri che ho avuto, e sono stati tanti, mi hanno trasmesso un’idea precisa, declinata forse a volte in modi un po’ differenti, ma che alla fine si può riassumere così: less is more. Se suoni jazz, se ascolti alcuni grandi del passato, non tutti, perché poi ognuno ha scelto la propria poetica, ti accorgi che nella loro musica le pause, il silenzio, contano più delle note. Sono cresciuto cioè con l’idea, e questo credo sia entrato nel mio modo di scrivere, che è più importante nascondere che mostrare, che in un’immagine conta di più lo spazio vuoto attorno al soggetto che non il soggetto in sé e che può essere raccontato meglio e con più forza proprio da ciò che non si vede. Questo secondo me detta il ritmo.

C’è una cosa che Keith Jarrett disse nel 1974 a Perugia, durante i giorni di Umbria Jazz: “Il jazz è lasciare che la luce brilli, non cercare di accrescerla”. Ecco, se considero il ritmo della mia scrittura, credo che in buona parte sia influenzato da questa idea di improvvisazione, dal mio cercare di farmi da parte.

Sai: non ero riuscita ad articolare una domanda sul silenzio, che invece ritengo sia una nota felice di “Sonno bianco” e quindi la tua risposta è un regalo doppio.

Stefano CorbettaSono contento di averti risposto a una domanda non espressa. Il silenzio, l’ellissi, la scrittura che mostra un’immagine, ma non la sua didascalia, per me è centrale e credo che a oggi è forse l’unica ragione che mi spinge a scrivere e raccontare storie. Ragion per cui credo che non scriverò mai in senso autobiografico.

Chiacchierando con… Stefano Corbetta