di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

LA FELICITÀ INQUIETANTE DEL NAVIGARE

Recensione al libro di Julien Gracq

“Acque strette” (L’orma)

acque strette

Da bambini, qui, dalle parti di Parma, andavamo in uno stagno nel bosco molto vicino alla città che veniva chiamato “Il Maretto”, uno stagno che esiste tuttora. In quei tempi lontani ci si poteva andare a fare il bagno. Era chiamato così perché era il piccolo mare dei parmigiani che non potevano permettersi di andare in vacanza. Ci si andava a nuotare e a caccia di rane. Si andava lì e tutti noi sapevamo che un giorno di quel luogo avremmo avuto nostalgia perché lo avremmo identificato con la nostra infanzia e con la nostra adolescenza. Poi c’erano i fossi che dividevano la strada dai campi, ci si giocava facendo barchette di carta lasciandole navigare quando erano pieni d’acqua.

Era l’elemento acquatico quello che ci attirava, quello che mi attirava, elemento studiato in modo approfondito e poetico dal filosofo Gaston Bachelard, autore che, non a caso, è diventato uno dei miei imprescindibili punti di riferimento.

Queste rammemorazioni, questi ricordi d’infanzia sono letteralmente esplosi, richiamandosi l’un l’altro alla lettura di un libro (romanzo, memoir, autobiografia) che è un piccolo grande gioiello di uno dei più grandi scrittori francesi del novecento: Julien Gracq. Il libro è “Acque Strette” ed è stato stupendamente tradotto da Lorenzo Flabbi che ha saputo ricreare magistralmente l’atmosfera fortemente evocativa e, oserei dire, magica del testo, recentissimamente pubblicato dalla casa editrice L’orma (L’orma 2018). L’orma aveva già pubblicato un altro libro di Julien Gracq, che è un vero e proprio capolavoro: “ La riva delle Sirti” (QUI la lettura fatta da Andrea Cabassi). Julien_GracqEd è auspicabile che, in futuro, la casa editrice ci faccia altri bellissimi regali come questi perché Julien Gracq ha scritto tanti altri romanzi non ancora tradotti e i pochi tradotti sono quasi introvabili.

La trama è molto semplice: si tratta di una incursione in barca sul fiume Evre, un piccolo affluente della Loira e che scorre dalle parti di Saint-Florent-Le-Veil, dove lo scrittore abitava.

Leggi e ti sembra di sentire l’odore dell’acqua del fiume, di vedere i colori del cielo e delle piante, di sentire l’aroma dei fiori. Già dall’incipit siamo introdotti in questo mondo:

Per quale motivo si è presto radicata in me la sensazione che, se soltanto il viaggio – il viaggio che non preveda l’idea di un ritorno – è in grado di aprirci le porte e cambiarci davvero l’esistenza, un altro tipo di sortilegio, più nascosto, come originato da una bacchetta magica, si leghi invece alla passeggiata prediletta fra tutte, all’escursione senza avventure né imprevisti che dopo poche ore ci riconduce all’attracco da cui partimmo, alla cinta familiare di casa?… (Pag.7).

Un incipit magnifico che pone il problema del senso dell’escursione lungo il fiume. Incipit accompagnato da una sontuosa descrizione del paesaggio dove le acque del fiume, i riferimenti alla letteratura, alla vita, all’infanzia e all’adolescenza producono nel lettore cinestesie, tuffi in una infanzia, magari dimenticata, che riaffiora con immagini potenti e vivide, anticipazioni, come un’anteprima, del futuro che ci aspetta perché:

“… così tali luoghi sollevano enigmaticamente un velo sul futuro: offrono un anticipo, un’ anteprima, dei colori che assumerà la nostra vita; al contatto con questa terra che ci è stata in qualche maniera promessa, ogni nostra piega si distende come si dischiude nell’acqua un fiore giapponese: inspiegabilmente ci sentiamo in un territorio di conoscenza, come circondati da volti di una famiglia di là da venire” (Pag. 8).

Un luogo speciale, una riserva speciale perché la fonte e la foce del fiume non possono essere visitate, restano misteriose. Ed allora andare sulla Evre implica un cerimoniale che deve essere rispettato. Bisogna andare direttamente alle pagine di Gracq per comprendere appieno  questo cerimoniale descritto in maniera precisa e poetica allo stesso tempo.

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E, dopo di esso, si comincia a navigare. Ed è una navigazione che produce sentimenti ed emozioni del tutto particolari, intense, forti,  emozioni che hanno il sapore di una inquietante felicità:

“Tempo dopo, il cigno di Lohengrin, risalendo e poi discendendo sul palco dell’Opéra i tornanti del fiume, mi ha restituito ancora una volta, fuggitivamente, questa sensazione di felicità quasi inquietante che proviene – l’ho compreso solo allora – dall’impressione di una tenue quanto continua accelerazione procurata da una tale navigazione sovrannaturale”. (Pag. 12-13).

In queste pagine, oltre alle citazioni letterarie sulle quali tornerò dopo, possiamo trovare una vera e propria fenomenologia dell’acqua che si rifà al grande libro di Gaston Bachelard “L’eau et le reves” (Corti 1965). Si leggono questi brani e si provano sensazioni indefinibili, ineffabili, inafferrabili, ti prende una dolce malinconia, ti si apre il cuore proprio come il battello apre le acque nella sua navigazione. E’ il potere evocativo delle immagini che provoca tutto ciò. Ancora una volta ci troviamo catapultati nei ricordi d’infanzia, nei canaletti, nei fossi, negli stagni, nelle esplorazioni in luoghi abbandonati nei giorni d’estate, riascoltiamo il rintocco delle campane che ci ricordano le nostre domeniche di allora, quando l’eco del loro suono risvegliava in noi malinconie indefinite, quelle malinconie e quelle domeniche così ben descritte da Jules Laforgue nella sua opera poetica (Mondadori 1971).

L’escursione lungo il fiume inizia dal ponte di pietra e attraversa la zona di  Le Marillais. E’ lì che si ode il languido rintocco delle campane, quel rintocco che risuona anche dentro di noi:

“… riecheggia da lontano nella memoria il trotto di un cavallo che nell’attraversare il ponte di pietra ne fa risuonare la volta, e il languido rintoccare l’ora del campanile di Le Marillais (sopra i canneti e i ciuffi di carice, girandosi, se ne vede spuntare la silhouette quadrangolare) rimbalza a lungo sulla distesa di acque morte”(Pag. 18-19).

C’è un punto in cui il fiume, laddove si restringe, diventa un corridoio oscuro. Dopo, il paesaggio cambia e, secondo Gracq, questo attraversamento è un vero e proprio rituale di iniziazione, come se il superamento di quel punto fosse lo scavalcare un ostacolo che ci rimette nella giusta carreggiata, ma più maturi, in vista del lavatoio e del maniero che, all’autore, fanno tornare alla mente Nerval e Balzac. Qui ci troviamo davanti ad uno snodo cruciale di “Acque strette”: la navigazione sul fiume è strettamente associata ai luoghi letterari, alla letteratura, agli autori amati da Gracq. Mentre la barca procede nel suo percorso scorrono davanti a noi le pagine di Nerval. Balzac, Devaulx, Poe, Bachelard e tanti altri. Questa del fiume con i grandi scrittori è una connessione a cui non bisogna opporre nessuna resistenza. Bisogna aprirsi ad essa e sapere che essa dà un senso profondo alla navigazione, la trasforma in energia poetica:

“… bizzarri stereotipi poetici che si coagulano alla rinfusa nell’immaginazione attorno a una visione dell’infanzia, frammenti di letteratura, pittura, musica. Per quanto a un primo sguardo queste costellazioni fisse possano apparire arbitrarie (ma per spiegarsele potrebbe essere utile investigare gli emblematici legami che, sin dalla fondazione di un casato, si formano tra il nome della famiglia e le sue armi, i suoi colori, il suo motto), esse svolgono il singolare ruolo di trasformatori d’energia poetica: è attraverso le loro interne concatenazioni che l’emozione nata da uno spettacolo naturale può connettersi in libertà alla rete spazio-plastica, poetica o musicale – che le permetterà di viaggiare più a lungo e con la minor perdita di energia” (pag. 27-8).

Sono snodi ricchi di immagini intessute tra di loro. I maggiori di Gracq, per usare una bella espressione di Norberto Bobbio, non sono solo evocati, ma anche commentati in profondità senza che il testo ne soffra. Emergono spontaneamente, come se emergessero dalle acque del fiume, rendendo compatta la narrazione perché la digressione è necessaria e ritorna sempre alla Evre.

Il viaggio prosegue e si approda all’acqua morta sotto lo strapiombo della Roccia che Beve non lontana dal Castello della Guérinière che a Gracq suscita il ricordo de “Les Chouans” di Balzac. E, mentre Gracq associa il castello a Balzac, le mie, di associazioni, mi portano al mistero:  cosa c’era oltre quel ponticello in legno che ci incuteva timore nella nostra infanzia,  che non aveva barriere ai lati e che attraversava un canale e portava in una boscaglia fitta, fitta? Una vegetazione selvaggia in cui, per molto tempo, noi ragazzini non osammo addentrarci. Ma un giorno oltrepassammo quel confine: giocavamo con spade di legno. Chi avrebbe vinto avrebbe avuto il diritto di liberare la donzella prigioniera in un fantomatico maniero collocato oltre il ponte e la boscaglia e che, nella mia fantasia di oggi, assomiglia tanto al Castello della Guérinière. Le battaglie erano feroci e le storie che ci inventavamo veri e propri romanzi d’amore e d’avventura, di cappa e spada. Scene che tornano dal passato leggendo del Castello di Guèrinière. Naturalmente, oltre la boscaglia, c’erano solo campi e neppure l’ombra di un maniero 

Alla Roccia che Beve l’immagine dell’acqua sembra confondersi con l’immagine del fuoco. A questo proposito viene citato un altro dei maggiori di Gracq, Marcel Proust. Sia per prendere una qualche distanza, sia per condividerne le riflessioni:

“Il nome di Proust è legato alla resurrezione di un soppresso frammento del passato grazie al ritrovamento di un oggetto che funge da intermediario: il ricordo, all’improvviso, spezza le catene di un genio imprigionato nella materia, come quegli spiritelli rinchiusi in una bottiglia dal maleficio di una strega. Questa inattesa liberazione è, credo, assai più spesso motore e principio di una febbrile e vivace fuga piuttosto che del quietismo dell’illuminazione proustiana: alla sua ravvivata scintilla, le care e a lungo oscurate immagini – tutte le immagini- si infiammano e si accendono l’un l’altra; un tracciato pirotecnico zigzaga come un lampo attraverso il mondo assopito, ne segue le segrete fenditure, gli spigoli, le crepe, tutte le fratture che, anno dopo anno – da un’esperienza all’altra, da una lettura all’altra, da un incontro fondamentale all’altro – , l’hanno solcato per me rendendolo irrimediabilmente mio. E’ questa la virtù dell’unico vero, ritrovato contatto con ciò che un tempo mi ha in qualche maniera avvinto, rapito; rianimare, risvegliare e congiungere attraverso un percorso di fulmine tutto ciò che ho mai amato” (pag. 42-43).

Un altro snodo cruciale è proprio in queste pagine. Se procedere nella navigazione produce una inquieta felicità, anche il riconnettersi delle cose della vita, dell’arte, della letteratura producono, malgrado la sua precarietà, una inquieta felicità perché è come se si avesse la sensazione di poter bloccare, seppure per un attimo, il tempo irreversibile. C’è una bellissima digressione in cui Gracq ci parla delle sue passeggiate nelle terre bretoni:

“Qui, da tempo, non è cambiato nulla; i secoli sono evaporati senza lasciare tracce o conseguenze, come l’ombra delle nubi: ben più che l’aura di un’antica leggenda, ciò che avvolge questa valle abbandonata, questa desolazione di sterpi, è l’immediata sensazione che a esercitarvi un incontrastato dominio sia il sortilegio fondamentale, ossia la reversibilità del Tempo” (Pag.59). 

Quel sortilegio che passa dalla natura, alla vita e che trova la sua completa realizzazione nell’arte.

Alla fine della lettura di questo straordinario testo si prova una sensazione molto strana: quella di una triste felicità. E’ la felicità che sai che dura un istante, che dura nel tempo in cui sei immerso nella lettura. Come se il resto, il mondo, almeno per il tempo che dura la lettura,  fosse messo tra parentesi in una compiuta e riuscita epochè. Miracoli dell’arte, della lettura, della scrittura, della letteratura.

E’ una strana felicità del tutto simile a quella che sorprende il Narratore ne “Il tempo ritrovato”, quando, nella biblioteca dei Guermantes, attende che termini l’esecuzione di un brano musicale per poter poi entrare nel salotto. In questa lunga attesa il fenomeno della memoria involontaria si ripete come mai era successo in tutta la Recherche: prima è il rumore di un cucchiaio su un piatto che riporta il Narratore al ricordo di un martello che un ferroviere sbatteva su una ruota e a tutta l’associazione di pensieri e rammemorazioni che ne conseguono, poi è un tovagliolo offertogli da un cameriere che gli ricorda gli stessi tovaglioli che usava nelle vacanze della sua giovinezza a Balbec. Ancora l’immagine di Balbec gli riporta alla mente i segnali delle imbarcazioni che uscivano ed entravano in porto e le fanciulle in fiore che aveva frequentato allora. Infine, quando il suo sguardo si posa sui libri della biblioteca e scorge “François le Champi” di George Sand, è il ricordo della madre, che gli leggeva quel medesimo libro, lui bambino, che affiora. Fenomeni della memoria involontaria che si susseguono a raffica e che provocano una, forse, inattesa felicità. Perché felicità? Perché come scrive Alberto Beretta Anguissola in “Proust: guida alla Recherche (Carocci. 2018. Pag. 70)

“… la felicità associata alle memorie involontarie nasce dall’identità tra la sensazione presente e quella passata, identità che annulla il tempo e permette di entrare in un’anticipazione di eternità. Si tratta quindi di una vera vittoria sulla morte… Solo le arti, la musica e la letteratura possono illuminare il mistero, dire l’ineffabile ed esprimere l’inesprimibile”.

Lo Scaffale di Andrea: “Acque strette”