Donne che parlano

Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni – per forza che siamo sognatrici.

Miriam Toews, nel nuovo libro “Donne che parlano” pubblicato come sempre da Marcos y Marcos nella cristallina traduzione di Maurizia Balmelli, prende un terribile fatto di cronaca: le ripetute violenze, sessuali e fisiche, subite dalle donne di una remota comunità mennonita boliviana, dal 2005 al 2009, mentre dormivano di notte, sedate con un potente anestetico veterinario, e accusate di essere indemoniate per le ferite e i segni che mostravano al mattino, e lo fa diventare emblema profondo della condizione della donna, disamina affilata del ruolo femminile nella società, grido di speranza e di battaglia insieme.

Come seguendo le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, la vicenda è vissuta quasi interamente in un unico spazio fisico, il fienile della stalla di un membro malato della comunità, in cui le donne si riuniscono per prendere una decisione fondamentale sul loro futuro, e in un tempo strettamente limitato: le donne hanno pochissimo tempo, due giorni soltanto, che intercorre tra il viaggio degli uomini in città per pagare la cauzione degli aggressori incarcerati e il loro ritorno, con gli stessi aguzzini, tutti uomini della colonia e parenti stretti delle vittime. Peters, il pastore onnipotente di Molotschna, che per lungo tempo, come gli altri uomini della colonia, non ha prestato fede né attenzione alle lamentele delle donne, che ogni mattina si svegliavano doloranti, stordite e spesso sanguinanti, imputando gli stupri a fantasmi, o Satana, presumibilmente quale punizione per i loro peccati, ha imposto che le donne dovranno perdonare i propri carnefici, se vorranno rimanere nella comunità, oppure uscire nel mondo, del quale non sanno nulla. Per questo un gruppo di otto donne, organizzate da Agata Friesen e Greta Loewen che sono i membri più anziani delle due famiglie, decidono di riunirsi per discutere il da farsi. Le altre donne della comunità hanno optato per la prima delle tre scelte: “Non fare niente”, “Restare e combattere”, “Andarsene”, e quindi non presenziano alla riunione:

la più esplicita delle sostenitrici del Non fare niente è Scarface Janz, membro devoto della colonia, aggiustaossa dei residenti nonché famosa per il suo occhio infallibile per le distanze. Una volta mi ha spiegato che, in quanto abitante di Molotschna, aveva tutto quello che voleva; doveva solo convincersi di volere pochissimo.

A prenderne parte come verbalizzante è August Epp, voce narrante di straniante potenza, il primo a sorprendersi del volere delle donne a un resoconto delle riunioni, visto che essendo analfabete non sono solo incapaci di verbalizzare da sé, ma anche di leggerlo. A chiederglielo è Ona, la figlia maggiore di Agata, alla quale August è legato da un’amicizia d’infanzia tenace e tenera, e da un silenzioso amore non corrisposto.

Miriam Toews libri

La voce di August serve a Toews per prendere le distanze dall’incandescenza dei discorsi delle donne, per osservare la vicenda e la difficile decisione che si trovano a fronteggiare con uno sguardo alieno perché maschile, ma nello stesso tempo accorato e partecipe, perché August Epp con la sua famiglia ha dovuto subire la scomunica e l’allontanamento dalla comunità, a cui ha fatto ritorno solo da sette mesi, considerato straniero e sospetto dagli uomini. Attraverso August, con il suo afflato filosofico e riflessivo, la sua modestia piena di sentimento, il suo essere quasi un fantasma nella colonia e per questo più vicino alle donne che agli uomini, non solo prendono consistenza e peso le parole delle donne, ma anche le loro reazioni e relazioni.

August diventa gli occhi e le orecchie del lettore, e di conseguenza il cuore e il cervello. Il risultato è di raffinata sottigliezza, perché affidando ad August la narrazione Miriam Toews ottiene una sovrapposizione di piani emotivi e sentimentali: la partecipazione tragica alla vicenda delle donne e la vicinanza al narratore, che non solo presta una testimonianza fedele della lunga riunione, ma crea un legame indissolubile con le donne e con il lettore, tanto che nelle ultime pagine sarà lui a disvelare lo scopo dei verbali, il senso profondo di umanità che nascondono, che travalica il documento in sé e diventa legame stretto di vicinanza ed empatia.

Miriam Toews ha da sempre la capacità di disegnare personaggi femminili di bellezza insolita e inconsueta, così queste otto donne, diverse ferite fragili e durissime, aggressive e protettive, pronte a graffiarsi e ad abbracciarsi, riconoscendosi le une nelle altre. Su tutte spicca Ona, indimenticabile:

Una breve considerazione su Ona Friesen: Ona di distingue dalle altre donne per i capelli tirati indietro morbidamente anziché costretti dalla nuda forza di un arnese dall’aspetto primitivo. La maggior parte dei coloni la considerano una natura sensibile e inadatta a funzionare nel mondo reale (per quel che può valere, a Molotschna, questo argomento). È una zitella. E le è concessa una certa libertà di dire quello che pensa perché le sue parole e i suoi pensieri sono percepiti come insensati, anche se ciò non le ha evitato ripetute aggressioni. Era un bersaglio sicuro perché dormiva in una stanza da sola invece che con il marito che non ha. O che non vuole, a quanto pare.

Ona la sognatrice, perché senza sogni non si è vivi; Ona che porta in grembo il figlio della tragicità della sua condizione, agguerrita a tenerlo senza un marito; Ona dalle domande scomode e dalle riflessioni rivoluzionare; Ona che è capace di guardare dentro e nel profondo; Ona che è irredimibile per via del suo Narfa che l’ha resa incapace di ragionare; Ona che sa trascendere e proporre implicazioni; Ona che ama tutti, compreso August ma che parte ridendo alle sue promesse d’amore e non facendosi vedere.

Di cosa parlano le donne? Della decisione da prendere, certo, che però si allarga a una visione esistenziale di sé e dell’essere donna che preme con sempre maggiore irruenza contro le sbarre anguste e claustrofobiche della comunità. La grandezza della Toews è di rendere la marginalità e l’isolamento delle donne mennonite emblema universale, di partire da un dato oggettivo, lo stupro in una comunità maschilista e retrograda, per trascendere a una riflessione generale sul ruolo delle donne, il loro valore, i loro sogni e la loro libertà. Via via che le otto donne, chiuse in un fienile, prendono consapevolezza di sé e delle proprie esigenze anche il lettore acquista, insieme a loro, la certezza che è in gioco qualcosa di fondamentale, di cui le otto donne sono testimoni e vittime insieme. Non c’è nessun sentimento egoistico a muovere i loro passi e a spingere le loro decisioni, anche la rivalsa aggressiva istintiva in alcune di loro è stata messa a tacere, ma sono motivate unicamente dalla persuasione sempre più netta che si tratti di un bene essenziale da perseguire con tutte le proprie forze ed energie:

per cui, di nuovo, rieccoci alle nostre tre ragioni per andarcene, e sono tutte valide. Vogliamo che i nostri figli siano al sicuro. Vogliamo conservare la nostra fede. E vogliamo pensare.

La loro non è una fuga, ma una partenza. Miriam Toews ci porta alla finestra, accanto ad August: tremiamo e siamo felici per loro, sappiamo che non avevano scelte e siamo fieri del loro coraggio. Ci sentiamo umani e vivi, consapevoli e atterriti, lucidi e sconfortati. Perché con Miriam Toews è sempre così. La sua scrittura sa immergersi in temi roventi, con grazia ed eleganza senza pari, con un senso pieno di umanità, regalandoci figure amiche che entrano per sempre a far parte del nostro universo emozionale e affettivo. E ancora, la scrittrice canadese sa spiegare quel sentimento complesso e inafferrabile che è l’amicizia, nel suo senso più puro che include anche le relazioni famigliari, e spiegarlo con la forza icastica di un gesto (che ha suggerito la splendida immagine di copertina di Laura Fanelli):

Autje e Netje, noto, si sono tolte i fazzoletti e hanno intrecciato i rispettivi capelli in un’unica lunga treccia che le unisce.

Donne che parlano trecce

Che siano proprio le due donne più giovani delle due famiglie, Loewen e Friesen, non è casuale, e cova l’anelito alla libertà, al pensiero, all’autodeterminazione che serpeggia nelle pagine, per poi essere afferrato dalle otto donne, senza più remore e tentennamenti:

Agata prende la mano di Ona che prende la mano di Salomè che prende la mano di Mejal che prende la mano di Neitje che prende la mano di Autje che prende la mano di Mariche che prende la mano di Greta che prende la mano di Agata.

Le immaginiamo così, versione narrativa di La Danza di Matisse, e se le tratteniamo nel cuore, con la mente le lasciamo andare, ponendoci accanto ad August, nella consapevolezza che questa storia ci ha cambiato, nella percezione del sé e del mondo, sia quello in cui viviamo che quello in cui vorremmo vivere:

Che fienile silenzioso. Le donne se ne sono andate. Mi sono messo davanti alla finestra e le ho guardate partire. Ho pensato: Molotschna per me era l’ultima risorsa, sono venuto qui in cerca di pace e di uno scopo, e le donne hanno lasciato Molotschna per le stesse ragioni.

Donne che parlano