Zazie nel metrò

L’invito che mi avrebbe rivolto Veronica Raimo, alla richiesta di poterci incontrare per chiacchierare di “Miden”, il nuovo romanzo edito da Mondadori, mette in luce la straordinaria generosità con cui la scrittrice non si è limitata a rispondere alle mie domande, ma mi ha permesso di entrare nel vivo del suo laboratorio creativo. Quindi scenario ideale di questa nostra chiacchierata letteraria non poteva che essere “la stanza tutta per sé”.

Ti avrei dato appuntamento a questo bar di Roma che si chiama “Zazie nel metrò”, a cui sono molto affezionata e dove vado a scrivere.

Anche voi immaginateci dunque lì, e anzi raggiungeteci che le cose da chiedere a Veronica Raimo e da sapere su “Miden” sono tante e tutte interessanti.

Clicca sulla copertina per accedere alla scheda sul sito della casa editrice Mondadori.
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In “Miden” dimostri una grande consapevolezza d’intenti. Sia nella scrittura che mira dritta all’obiettivo, frantumandosi in diverse personalità, la compagna e il compagno, vere voci narranti che si alternano nel romanzo, ma anche nel punto di vista della comunità attraverso i questionari e le lettere, che sanciscono la colpa del compagno nei confronti della ragazza; sia nello sguardo lucido e critico, fortemente problematico, mai apologetico né apodittico, con cui la violenza, il sesso, l’amore, le relazioni vengono osservati e analizzati. 

Miden è una città futuribile, in cui la parola d’ordine, interprete dello spirito del luogo, è “accogliente”, che si estende a un vasto e totalizzante raggio d’azione, fino ad arrivare al sesso.

Partirei proprio dal luogo che non è semplice sfondo ambientale della storia narrata, ma punto nevralgico e cruciale. Emblema e metafora nella sua indeterminatezza, geografica e temporale. 

Potremmo considerare Miden un luogo dell’anima, metastorico, in cui universalizzare gli elementi, i conflitti e le contraddizioni della contemporaneità?

raimo_feb18Potrebbe sembrare un limite di “messa a fuoco” da parte mia, ma in realtà hai colto un punto fondamentale quando parli di “indeterminatezza” rispetto a Miden. Il luogo che ho immaginato per me non rappresentava una predizione sul futuro, piuttosto funzionava – e non del tutto consapevolmente – come accumulo di diversi immaginari, anche dissonanti tra di loro. La sintesi se vuoi è arbitraria e contingente, mutuata da esperienze personali, e derivata quindi dal filtro che potevo applicare a questi immaginari. C’è dentro Berlino, i suoi quartieri sempre più gentrificati e customizzati per una borghesia ricca e progressista (anzi, progressista proprio perché ricca), c’è la Scandinavia con la sua attenzione linguistica al politicamente corretto e i suoi indici di benessere, che però spesso si rivelano solo parametri per nascondere il conflitto sociale, e ci sono i tentativi più o meno utopici di escapismo contemporaneo, lo scegliere una bolla di persone il più possibile uguale a noi, esperimenti di comunità come gli eco-villaggi. In questo senso non è sbagliato parlare di un luogo dell’anima, per quanto questa anima probabilmente si rivelerà più personale che universale. 

 

Ero al sesto mese quando è venuta a bussarmi la ragazza.

Questo l’incipit di “Miden”, in cui in una sola riga concentri le tre figure femminili più importanti del romanzo: le prime due visibili ed esplicite, la compagna che narra, e la ragazza di cui di lì a poche pagine apprenderemo la violenza subita dal compagno.

La terza figura femminile è implicita, ed è subito legata in maniera indissolubile, direi quasi dirimente, con lo stupro.

“Sono stata violentata dal professore” ha detto la ragazza.

Non ho idea di cosa voglia dire desiderare un figlio. Non credo di averlo desiderato; quando ho saputo di essere incinta, questo genere di pensieri aveva già perso di importanza. lui c’era, così come c’ero io. Esistevamo insieme. Era una sensazione più forte del desiderio.

La sensazione è che ci sia un forte richiamo, all’interno della tua storia, volutamente raccontata in soggettiva e da una focalizzazione non solo interna, ma personale e intima, tra la gravidanza, il desiderio e la violenza. Il passo citato mi sembra sia una spia di questo stridente connubio che tu crei tra i due temi: la gravidanza che segna la compagna, e la violenza che invece segna la ragazza. Di entrambe “responsabile” il compagno.

Senza voler svelare più del necessario, la decisione finale presa dalla compagna non è strettamente legata al suo stato? La violenza non assume un carattere ancora più stridente e tragico proprio perché la compagna è incinta del “Perpetratore”?

raimo_feb18Ammetto di non aver mai pensato prima di questa domanda al fatto che nella prima scena ci fosse virtualmente l’incontro tra le tre donne, e mi sembra una bella suggestione, per quanto inconsapevole da parte mia. Ciò che lega la violenza alla gravidanza – rispetto alla posizione dell’uomo e al suo grado di responsabilità – è il loro carattere iper-definito e chiuso nella visione che ne ha l’uomo stesso. Il modo in cui lui si rapporta prima alla Ragazza e poi alla Compagna tradisce un’ansia pragmatica, l’aspettativa che le due figure femminili aderiscano al suo spettro di desiderio presente. Per cui da un lato c’è la giovane amante, al tempo stesso sfrontata e succube, dall’altro la futura madre di suo figlio. Nel momento in cui le due figure femminili svicolano da questo pattern e lo mettono in crisi – la Ragazza sostiene che non era godimento ciò che ha provato, la Compagna vive con crescente angoscia la propria gravidanza – l’uomo, invece di tentare un’apertura verso pulsioni inaspettate, le giudica con una sorta di arroganza difensiva, come si trattasse di forme vanesie di insincerità. L’aspetto paradossale è che l’uomo rivendica per se stesso la possibilità di un narcisismo ancora più vanesio, di un desiderio non immediatamente conforme a uno scopo, ma lo delegittima se sono le due donne a provarlo, perché se ne sente escluso. E allora è come se la propria responsabilità avesse un deficit di pura onnipotenza e l’uomo si sentisse un mediocre, deprivato dalla capacità di esercitare il dominio e il controllo sul desiderio degli altri, nel caso specifico delle due donne.   

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Un pregio del tuo sguardo all’interno di “Miden” è che non prendi posizione. Sei agevolata dal racconto in prima persona alternato tra il compagno e la compagna, ma c’è qualcosa di più sottile e persistente. Non vuoi creare empatia con i tuoi personaggi, ma percepisco che nel patto con il lettore che ogni narratore propone nel momento in cui comincia a scrivere tu abbia alzato l’asticella.

Non ti interessa che noi lettori siamo dalla parte dell’una o dell’altra, né che condanniamo o difendiamo l’uomo. Con la distanza dai personaggi, che è cosa diversa dalla vicenda narrata in cui invece il lettore si sente coinvolto, è come se tu volessi spingerlo a mettersi in comunicazione con se stesso, a guardarsi direttamente allo specchio. Non come mi sarei comportato al posto di…, ma cosa avrei fatto io in quelle circostanze.

L’asetticità del linguaggio, la feroce puntualità della narrazione, la struttura composita e stratificata degli spazi narrativi, e infine la claustrofobia dell’ambiente costringono il lettore a mettersi allo specchio, piuttosto che nei panni dei personaggi: era questa una tua intenzione?

raimo_feb18Mi viene spesso detto che nella mia scrittura sono fredda, analitica, a volte algida. Sono parole che possono avere un senso sia positivo che negativo, quindi sono sia complimenti che critiche. Anche nei rapporti personali il mio grado di affezione alle persone si misura sul grado di analiticità che riesco a sviluppare, insomma è più raro che un amico mi cerchi per un’empatia immediata rispetto al bisogno di avere uno sguardo complesso sulla sua vita o su qualcosa di specifico. In parte è la stessa cosa che mi succede rispetto ai personaggi, la distanza è una forma di vicinanza per me. Non riesco a essere giudicante non perché sospenda il giudizio, ma perché qualsiasi giudizio è inquinato da una miriade di fattori e ribaltamenti di prospettiva. Non credo che esistano motivazioni univoche e inattaccabili nelle scelte che facciamo, ed è la cosa che mi interessa di più nella scrittura, provare a scandagliare l’auto-narrazione con cui cerchiamo di presentarci agli altri e poi l’auto-narrazione che facciamo di fronte allo specchio. E persino in quella, persino nei momenti di presunta nudità di fronte al nostro specchio di elezione, ci sono così tanti livelli di auto-inganno o di semplice inconsapevolezza per cui la sincerità è un abbaglio retorico e basta. Quindi sì, forse nelle intenzioni mi piacerebbe che il lettore fosse di fronte a uno specchio, ma credo che l’immagine riflessa resterebbe comunque opaca, contraddittoria. E in questo senso, anche la claustrofobia degli spazi, che dovrebbe aiutare a far risaltare i conflitti e i desideri, funziona da palcoscenico scarno in cui quegli stessi conflitti e desideri si ribaltano, si rimescolano, sembrano sul punto di solidificarsi per poi liquefarsi di nuovo e trasformarsi in altro.

 

L’amore e il sesso in “Miden” sono strettamente legati, e sembra prevalere il secondo rispetto al primo come collante e misura della relazione, o meglio delle relazioni. Mi sembra che questa supremazia del sesso sull’amore sia anche la radice della gelosia della compagna nei riguardi della ragazza. Nello stesso tempo la violenza è inversamente legata al piacere: questa mi sembra una criticità fondamentale del romanzo. C’è violenza, perché non c’è stato piacere, e la mancanza del piacere è connessa alla prevaricazione del compagno sulla ragazza. 

Amore, sesso, piacere: è un punto nodale della costruzione di Miden e anche un elemento potente di presa di posizione sulla contemporaneità e i recenti fatti legati al movimento di #Metoo?

raimo_feb18Parto dalla prima questione. Per me il sesso è sempre trasformativo, anche più dell’amore, forse per questo è anche così difficile scriverne bene. Ogni volta che si prova a scriverne c’è il rischio di una cristallizzazione e quindi di una banalizzazione. Non che il sesso non sia di per sé banale, ma nel suo essere trasformativo ciò che è interessante è proprio il processo: descrivere quel processo non è semplice. La gelosia della compagna rispetto alla ragazza deriva anche da questa specie di deficit, è come se lei sentisse che il sesso che ha avuto col suo compagno sia meno complesso e profondo di quello che lui ha avuto con la ragazza. In qualche modo invidia il processo trasformativo, e quindi anche creativo, che il sesso sembra aver operato sulla ragazza. Rispetto alla seconda questione, non c’è mai stata da parte mia la consapevolezza di prendere posizione rispetto al movimento del #metoo, anche perché sarebbe stato cronologicamente impossibile farlo, ho chiuso e consegnato questo libro svariati mesi prima che partissero le denunce legate al caso Weinstein. E in realtà sono contenta che non ci sia stata quell’influenza della contemporaneità in fase di scrittura, perché forse avrebbe potuto alterare certi equilibri, o meglio certi squilibri, del libro. Non ho scritto un romanzo a tesi, non ne sarei nemmeno capace, quello che mi interessava è capire come può mutare la percezione della violenza sia nel tempo sia all’interno di una relazione. Io vorrei che esistesse una dialettica sempre aperta rispetto a questo, perché l’idea di storicizzare e archiviare mi sembra non tenere conto di qualcosa di molto umano che è la possibilità di rileggere ciò che siamo stati e ciò che abbiamo provato nel passato. Non si tratta di un relativismo assoluto, ma di accettare questa possibilità e di essere disposti a considerare il cambiamento altrui come qualcosa di fertile e non come un assalto all’idea che ne avevamo noi e che vorremmo conservare per sempre come un cimelio.

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Sulla sovraccoperta del libro l’immagine è molto suggestiva: nuvole minacciose all’orizzonte che si specchiano sul pavimento lucido, quasi a dare l’impressione che cielo e terra, alto e basso si confondano nella dimensione di un paradiso livido. Ma se il paradiso è un giardino, nell’immagine invece la vegetazione è ridotta a quadrati striminziti su cui giganteggiano dei cactus fallici, che danno l’impressione di un rinsecchimento per il colore non verdeggiante, e che richiamano le scure montagne rocciose, anch’esse prive di verde, che si stagliano minacciose a delimitare l’orizzonte. A netto contrasto con la tranquillità desolante del luogo, la bambina, vestita di bianco, angelica nel biondo dell’acconciatura, con una corda in mano e fermata nell’attimo sospeso di giocare. Non guarda il lettore, ma nella stessa direzione del lettore, quell’orizzonte lontano che non sembra presagire nulla di buono, nonostante il roseo che sembra farsi strada a striare le nubi più basse.

Cosa racconta di “Miden” questa immagine? Ritrovi le tue intenzioni in essa? e quali in particolare?

La copertina è un’immagine di Superstudio, un gruppo di architetti degli anni ’70 che amo molto sia per la loro radicalità, sia per la loro visionarietà, sia per la loro ironia. C’erano anche altre immagini di Superstudio che avrei voluto per la copertina, ma poi questa – più di altre – condensava una serie di elementi di “Miden”. Il paesaggio artico artificiale, un certo rigore nordico e minimale squassato da elementi (come il cactus) apparentemente spuri che giocavano appunto su questa idea di natura innestata, e quindi di artificio (a Miden a un certo punto si parla di abeti che hanno le ciliegie). E poi sì, c’è la bambina e il suo sguardo direzionato verso un punto che sembra un traguardo, è una bambina all’apparenza calma eppure trasmette un’infinita inquietudine, quasi un qualcosa di perturbante da potenziale horror (“Miden” non è un horror, ovviamente, ma per me ci sono delle cose che potrebbero aprire squarci in quella direzione, anche se poi di base non accade nulla). Una delle cose più belle che mi è successa dopo l’uscita di “Miden” è stato ricevere una lettera scritta a mano da Adolfo Natalini, uno degli architetti di Superstudio (quello a cui avevo chiesto i diritti dell’immagine), in cui mi parlava del mio libro e poi della copertina. Copio qui parte della lettera perché davvero – aldilà del fatto che riguardi qualcosa a cui tengo molto – credo sia una lettere bellissima. 

Una ragazza inglese che si chiamava Frances Ruth Anne Brunton leggeva una rivista (inglese) che si chiamava “Nova”. Il suo compagno, un giovane architetto, ne raccoglieva pagine che gli piacevano – a volte ne ritagliava figure che incollava su fogli di carta insieme ad altri. A volte i fondi di carta venivano disegnati con trame geometriche, a volte venivano colorati con le matite o con l’aerografo. Ne venivano fuori figure e paesaggi di uno strano mondo, ne scaturivano storie che volevano dare un senso a quel mondo. Una volta molte di queste storie vennero messe insieme per formare un film di animazione che venne intitolato “Vita (o dell’immagine pubblica dell’architettura veramente moderna): superficie (un modello di vita alternativa sulla terra)”

Un film del Superstudio, 35 mm, colore, sonoro, per la mostra “Italy the new domestic landscape” al museum of modern art di New York nel 1972. Il film faceva parte di una serie intitolata: “Atti fondamentali: vita, educazione, cerimonia, amore, morte”. 

Che cos’è che metteva insieme una ragazza in bianco, i cactus, la montagna, la superficie quadrettata e il cielo? e cosa aveva messo insieme la ragazza inglese e il giovane architetto tra il 1961 e il 2008? e cosa aveva messo insieme i cinque del Superstudio tra il 1966 e il 1978? o secondo altri tra il 1966 e il 1986? forse era stato qualche evento solo nominato ma mai raccontato come il Crollo che ha messo insieme il compagno e la compagna… forse non c’è una ragione negli eventi, né nelle cose – come nell’immagine della ragazza in bianco e tutto il resto, c’è solo la colla. L’immagine infatti è un collage.

Chiacchierando con… Veronica Raimo