di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

IL FIUME  È MEMORIA

Recensione al libro di HAROLDO CONTI, “Sudeste”

“Haroldo Conti conoce como pocos este mundo del Paranà. Sabe cuàles sono los buenos lugares  para pescar y cuàles los atajos y los rincones ignorados de las islas; conoce el pulso de las mareas y las vidas de cada pescador y cada bote, los secretos de la comarca y de la gente. Sabe andar por el delta como sabe viajar, cuando escribe, por les tùneles del tiempo. Vagabundea por los arroyos o navega dìas e noches por el rìo abierto, a la ventura, buscando aquel navìo fantasma en el que navegò  una vez allà en la infancia o en los suenos. Mentrias persigue lo que perdìo, va escuchando voces y contando historias a los hombres que se le parecen”.

“Haroldo Conti conosce come pochi questo mondo del Paranà. Sa quali sono i posti buoni per pescare e quali sono le scorciatoie e gli angoli ignorati delle isole; conosce il ritmo delle maree e la vita di ogni pescatore e ogni barca, i segreti della regione e della gente. Sa andare sul delta come sa viaggiare, quando scrive, attraverso i tunnel del tempo. Vagabonda tra i ruscelli o naviga giorno e notte sul fiume aperto, alla ventura, cercando quel vascello fantasma in cui navigò una volta là durante l’infanzia o nei sogni. Mentre insegue quello che perdette, va ascoltando voci e raccontando storie a gli uomini che gli si parano davanti ”.

Questa è la bellissima e poetica immagine che dà di Haroldo Conti  lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano nel suo libro “Dìas y noches de amor y de guerra”(Alianza Editorial 1978. Ma ho utilizzato l’edizione del 2004. La libera traduzione dallo spagnolo è mia. Pag. 143).  E coglie nel segno. Basterebbe leggere il racconto, che è anche il titolo della raccolta omonima, “Todos los Veranos”. In quel racconto il delta, il fiume, l’uomo del fiume, le stagioni della pesca, il susseguirsi delle stagioni sono minuziosamente descritte senza mai che Conti perda l’afflato poetico. Vi viene narrata con nostalgia la progressiva perdita del desiderio del protagonista per qualsiasi oggetto del fiume fino a che resta soltanto un desiderio senza oggetto, colmo di nostalgia. Un desiderio che sembra desiderare solo sé stesso, un desiderio per qualcosa di lontano e inafferrabile che, poco alla volta, sembra affievolirsi.

Ma chi era, chi è Haroldo Conti?

Haroldo-Conti.jpegHaroldo Conti è, è stato uno dei più grandi scrittori argentini, anche se poco conosciuto in Italia e molto poco tradotto.

Nato a Chacabuco, provincia di Buenos Aires il 25 maggio 1925, si dedicò a diverse attività: da quella di maestro, a quella di direttore teatrale, a pilota civile, a professore di filosofia. Nel 1960 fu premiato dalla rivista Life per il suo racconto “La causa”. Nel 1962 vinse il premio Fabril con il suo primo romanzo “Sudeste”, romanzo che verrà preso in esame in questa sede.  Divenne uomo di punta della “Generaciòn de Contorno”, quella generazione riunita intorno alla rivista Contorno che contava sulla collaborazione dei più importanti e innovativi scrittori argentini. Nel 1975, con il suo romanzo “Mascarò, el cazador americano” vinse il premio Casa de las Americas”. Fino ad oggi questo, con il titolo “Mascarò, il cacciatore americano” (Bompiani. 1983), era stato l’unico libro di Haroldo Conti pubblicato in Italia.

Di grande bellezza, tra le altre,  le sue raccolte di racconti “Todos los veranos” citata più sopra, “Con otra gente”, “La balada del àlamo Carolina”. Purtroppo nessuna tradotta in italiano.

Dopo il Golpe militare, il 5 maggio 1976 fu sequestrato dagli squadroni agli ordini di Videla e ogni tentativo di ritrovarlo fu vano. Si ipotizzò che fosse stato gettato in mare, nei voli della morte, dopo essere stato torturato. Anni dopo  lo stesso Videla confermò che aveva dato, personalmente, ordine di sequestrarlo.

I momenti drammatici del sequestro, quando gli uomini di Videla fanno irruzione nella casa in cui è presente anche la moglie Marta, sono descritti con grande partecipazione e commozione da Galeano nel suo libro :

“Hoy hace una semana que lo arrancaron de la casa. Le vendaron los ojos, y lo golpearon y se lo llevaron. Tenias armas con silienciadores. Dejaron la casa vacìa. Robaron todo, hasta la frazadas. Los diarios no pubblicaron lìnea sobre el secuestro de uno de los mejores novelistas argentinos. Las radios no dijeron nada. El diario de hoy trae la lista completa de las vìctimas del terremoto de Udine, in Italia.

Marta estaba ne la casa cuando ocurriò. Tambìen a ella le habìan vendado los ojos. La dejaron despedirse y se quedò con un gusto a sangre en los labios.

Hoy hace una semana que se lo llevaron y yo no tengo, còmo decirle que lo quiero y que nunca se lo dije por la verguenza o la pereza que me daba” (Ibidem. Pag.143)

Fornisco qui la bella traduzione che ne ha fatto il giornalista Flavio Fusi nel suo splendido libro “Cronache Infedeli” :

“Oggi è una settimana che lo hanno trascinato via di casa. Gli hanno bendato gli occhi , lo hanno picchiato e se lo sono portato via. Hanno lasciato la casa vuota. Hanno rubato tutto, anche le coperte. I giornali non pubblicano una riga sul sequestro di uno dei più grandi romanzieri argentini. Le radio non dicono nulla. Marta stava in casa quando è successo. Anche a lei hanno bendato gli occhi. Le hanno permesso di salutarlo, e lei è rimasta sola, con il sapore di sangue sulle labbra. Oggi è una settimana, e non so più come dirgli che gli voglio bene, e che mi spiace di non averglielo mai detto per pudore o per pigrizia” (Voland. 2017. Pag. 238 ).

Flavio Fusi racconta, inoltre, che non lontano dalla casa di Haroldo Conti, sul delta del Paranà, aveva vissuto un altro grande scrittore argentino, Rodolfo Walsh,  quel Rodolfo Walsh che aveva praticato el peligroso oficio de escribir, anche lui vittima della dittatura di Videla. Lascio ancora la parola a Flavio Fusi:

“E la casa di Haroldo Conti, poco lontano, sembra una fragile scialuppa di legno oltre la fitta cortina dei salici. Poche stanze modeste: quadri, libri, foto alle pareti, la cucina angusta, la disordinata scrivania dello scrittore” (ibidem. Pag. 238) .

Scrittori e giovani imprigionati, torturati, gettati in mare, vittime di una dittatura feroce e sanguinaria, una dittatura che ha sulla coscienza la cancellazione di una intera generazione. Una cancellazione con cui i sopravvissuti e la generazione che è seguita ha dovuto fare i conti mettendo in piedi iniziative che hanno lo scopo di non far cadere nell’oblio quanto è accaduto. Tra queste la celebrazione del  Dìa del escritor Bonaerense che s svolge ogni anno il 5 maggio, data del sequestro di Haroldo Conti: un modo per ricordarlo e rendergli omaggio.

Clicca sulla copertina per accedere alla scheda del libro sul sito della casa editrice Exòrma
Clicca sulla copertina per accedere alla scheda del libro sul sito della casa editrice Exòrma

Ma un altro modo, molto bello, di rendere omaggio alla memoria di Haroldo Conti è quello scelto dalla casa editrice Exòrma con la pubblicazione del romanzo che vinse il premio Fabril nel 1962, “Sudeste”  (Exòrma.2018). Valore aggiunto alla pubblicazione è la splendida traduzione di Marino Magliani sulla quale tornerò più avanti.

In “Sudeste” tornano e si sviluppano i temi che erano già apparsi in “Todos los veranos”. Si tratta di una vera e propria fenomenologia del fiume, dove il fiume, il delta, i canali, i torrenti assurgono a protagonisti del romanzo perché, come scriveva Conti in un altro suo racconto “Marcado”, “el rio es memoria”, il fiume è memoria. Memoria di ogni cosa che lo attraversa, memoria delle storie degli uomini che lo abitano, memoria delle correnti che lo percorrono e dei venti che lo accarezzano o lo schiaffeggiano, memoria degli animali che vivono fra i canneti o sugli alberi e dei pesci che lo abitano, memoria delle stagioni che si susseguono e dei desideri degli uomini che lo navigano.

Conti coglie del fiume ogni bisbiglio, sa che può provocare “una tristezza paciosa” , sa la solitudine che può causare in chi intrattiene rapporti con esso, sa che evoca nostalgia nella contemplazione delle lontananze. Ed ecco che nel lettore può insinuarsi una sorta di tristezza interiore, una nostalgia per qualcosa di indefinibile. La potremmo chiamare saudade? E’ come se il lettore fosse preso da incantamento quando Haroldo descrive il gioco di luci e di ombre, il volgere delle stagioni, i cambiamenti del fiume, l’arrivo del vento di sudest, quella vastità che dà nostalgia perché ricorda il mare e assomiglia all’eternità:

“Il fiume è splendido e l’uomo se ne sente misteriosamente attratto. Questo è tutto ciò che si può dire. L’uomo si trattiene vicino alle sue acque e osserva con una certa nostalgia quella sussurrante vastità, come se avesse perduto qualcosa di molto amato e assolutamente fondamentale in mezzo a questo fiume che somiglia all’eternità. Forse lo porta a pensare che il fiume sia buono” (pag.58).  

Gli uomini che lo abitano sono vecchi, distanti, solitari, di poche parole:

“La gente di questo fiume somiglia in tutto e per tutto all’uomo che sta osservando le acque con i suoi occhi da pesce moribondo, sospesi sulle acque come due lenti sospese nell’aria. Per questo gli uomini del fiume ancora sopravvivono. Per questo sembrano tanto vecchi, distanti, e solitari. Non che amino il fiume, ma non possono vivere senza. Sono lenti e instancabili come il fiume. Soprattutto sono indifferenti come il fiume. Sembra che capiscano di appartenere a un tutto inesorabile che avanza sotto l’impulso di una determina fatalità. E non si ribellano affatto. Neanche quando il fiume distrugge le loro capanne, le loro barche, e perfino loro stessi. Anche per questo sembrano cattivi”. (Pag.59).

Diverso è, poi, navigare nelle acque calme o in fiume aperto come ben sa il Boga, protagonista del romanzo:

“Dall’alba fino a un certo momento, l’instancabile rumore dell’acqua e del vento aveva continuato a ronzargli intorno agli orecchi come una girandola di api. Questo era stare nel fiume aperto: finché durava quel ronzìo si sarebbe sentito distante, quasi separato dalla costa, per quanto la vedesse lì accanto.

Ma improvvisamente tutto tacque quando entrò nelle acque calme. In un attimo il fiume aperto divenne lontano, infinitamente lontano: brillava dietro la poppa come se fosse formato da acque diverse. Almeno, coì pareva.

Qui l’acqua è molto più profonda e calma” (Pag,61).

Con grande lirismo Haroldo Conti descrive anche la differenza fra il fiume e le isole. A differenza del fiume le isole sembrano diverse in ogni stagione. In estate sono di un verde intenso, e in inverno si confondono con una nebbiosa lontananza apparendo e scomparendo all’improvviso. Allora

“le isole sono un profilo illusorio, un’ombra che oscilla verso ovest. Se finalmente  uno riesce ad avvicinarsi, gli sembrano anche più remote, abitate dal silenzio, dalla solitudine e da una tristezza senza rimedio.

 

D’inverno la luce si rifugia in alto. Il mattino e la sera hanno origine nella zona più alta del cielo, molto lontano dalla terra. D’estate succede il contrario: la luce comincia a sbocciare proprio dalle isole e, spingendosi in fuori, dilaga nel resto del giorno. A metà mattino le isole sembrano chiatte che beccheggiano allegramente sull’acqua. Se uno naviga verso le isole, va verso il chiarore. E verso quello strano subbuglio che diventa sempre più intenso man mano che l’estate va maturando” (pag.47-8).

E’ sul fiume, nel delta, tra torrenti, canali, isole, giuncheti che si dipana la vicenda del Boga.

Dopo la morte del vecchio con il quale abitava insieme alla vecchia, il Boga leva l’ancora con la barca di Bastos che andrà ad abitare con la vecchia, quasi a sostituire il marito morto e il Boga che se ne va. Da quel momento inizia una flanerie del tutto particolare, una flanerie sull’acqua, lungo i fiumi che formano il delta. Sarà una navigazione in cui, al contrario di Ulisse, il ritorno a casa prenderà molto poco spazio nella mente del Boga. Il suo primo vero e proprio approdo sarà su una spiaggia del delta. Haroldo Conti la descrive con precisione, quasi la cartografa, coglie le luci e le ombre, i cambiamenti del cielo e delle acque da un momento della giornata all’altro. E’ in questa spiaggia che il Boga costruirà il suo primo vero e proprio accampamento. Anche se non vi metterà radici e sarà una Itaca provvisoria, molto precaria.  Sarà la sua base per le sue battute di pesca, sarà il luogo in cui deciderà di mettere a nuovo la barca che Bastos gli aveva dato e che era piuttosto malconcia, ma non così tanto come ad un primo sguardo poteva apparire.

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Ma è anche i luogo in cui scema il suo entusiasmo per la pesca:

“Ma in ogni caso, anche se aveva pescato un magnifico Salminus brevidens , quando tutto era finito e il pesce se ne moriva sul fondo della barca, lui non era così contento come ci sarebbe stato da credere. Semmai era triste.

Anche per questo seguitò a pescare con la stessa intensità ma con minore entusiasmo. E col tempo venne meno anche l’intensità. Non fu una cosa di quelle che capitano dalla sera alla mattina, ma un fastidio che andava crescendo progressivamente. Da ultimo, ormai vicino al nord, pescava solo per mangiare” (pag.82).

E’ come se una strana inquietudine e stanchezza, un non ben identificato male di vivere si impossessasse del Boga.  Un disinteresse per la pesca che, però, è intermittente.

Sono i primi segnali dell’inverno che lo spingono ad andarsene e a cercare un nuovo approdo in una vecchia casa rovinata sul torrente Riestra, vicino alla foce. Ancora una volta un’Itaca precaria dove non vi è nessun Telemaco ad attenderlo, nessuna Penelope.  Lì accenderà il primo fuoco d’inverno e lì incontrerà, non Telemaco o Penelope, ma l’omino Cabecita con il suo cane Capitàn, quell’omino che non si sa se è davvero il Cabecita, se è vivo o morto o resuscitato o l’insieme di queste tre condizioni. Quell’omino che sembra portare con sé

“qualcosa di oscuro e impreciso che attraversava l’inverno e si perdeva in lontananza, come un uccello che si libra nell’aria all’imbrunire” (Pag.115).

Della storia del Cabecita il Boga sa poco o nulla, del resto è il fiume che le conosce tutte e nel fiume convergono perché è il fiume a tessere le storie.

Anche da questo luogo il Boga partirà per le sue battute di pesca, per vendere cose, per il solo piacere di navigare. Lo farà fino a quando non scorgerà la sagoma di quello che gli sembrerà un veliero incagliato oltre la foce del Chanà:

“ Sembrava un veliero. E in effetti si trattava proprio di uno yatch…”.  Sarà quella la sua nuova “abitazione”, lo yatch Aleluya. Andrà ad abitarvi con il cane e il Cabecita. Andrà ad abitarvi perché era “ciò che aveva cercato per tutto quel tempo. L’estate lo aveva fatto maturare quel mite e ostinato desiderio di un veliero e poi lo aveva condotto a quello yatch. Qui, nella solitudine di questo fiume, cos’altro può desiderare un uomo?” (Pag.136).

Come si diceva sopra vi andrà ad abitare con il Cabecita e il cane Capitàn.

Si resta colpiti da come viene descritto il rapporto tra cane, omino e Cabecita: a volte con rudezza, altre con tenerezza infinita. Sono questi i sentimenti che si alternano nell’animo del Boga che oscilla tra rifiuto, accettazione, tentativi di comprendere meglio chi sono e da dove vengono il Cabecita e il cane.

E’ dal momento che i tre cominciano ad abitare lo yatch che il romanzo diventa sempre più movimentato. Lo è fino al finale con un crescendo di suspense. Potrebbe sembrare strano parlare di suspense in un libro che, in gran parte, è dedicato alle piccole grandi cose quotidiane del navigare e della pesca. Ma è proprio così. Nella seconda parte accadono tante cose. Lascio al lettore il piacere di scoprire quali sono le avventure che il Boga, insieme ai suoi inseparabili compagni, vivrà lasciandosi accompagnare, in un fatalismo sui generis, dalla corrente dei fiumi.

Qualche altro breve commento: anche se le descrizioni sono, spesso, liriche, non c’è un momento in cui Haroldo Conti cada nel sentimentalismo. Anche i sentimenti degli uomini, tutti poco loquaci e di cui non conosciamo le storie, sono descritti nell’essenziale. Penetriamo nel mondo interiore del Boga attraverso la straordinaria descrizione dei paesaggi e del rapporto che egli intrattiene con essi; il narratore è un narratore del tutto particolare. Ci sono momenti-quelli in cui ci ragguaglia sui venti, sulla pesca, sugli oggetti della pesca o sui pesci stessi-che Haroldo Conti sembra un documentarista. Riesce ad essere preciso e lirico allo stesso tempo realizzando, forse, l’utopia di Robert Musil che ne “L’uomo senza qualità” avrebbe voluto conciliare anima ed esattezza. Riesce ad esserlo anche quando la suspense raggiunge il suo acme, nella seconda parte del libro. Precisione e lirismo: un ossimoro. E sta in questo ossimoro una delle ragioni della magia della scrittura di Conti. E qui magia non significa realismo magico, ma proprio quella magia che ti incanta, quella magia della parole nelle cui reti ti impigli, in cui, ben volentieri, ti lasci impigliare.

Vorrei spendere alcune parole sulla splendida traduzione di Marino Magliani. Per chi avesse avuto le ventura di leggere questo singolare, bellissimo romanzo in originale (Compania General Fabril Editora, 1962)  o ne avesse letto, sempre in originale, dei frammenti (ne sono disponibili moltissimi in rete), leggendo la traduzione italiana si renderà conto di come Magliani sia riuscito a rendere  il ritmo, le atmosfere nostalgiche che si respirano sul fiume, la precisione di Conti, insomma di come sia riuscito a tradurre con grande efficacia precisione e lirismo. Ha reso un grande servizio a uno dei più grandi narratori argentini del novecento e, purtroppo, tra i meno conosciuti in Italia.

Non ci resta che ringraziarlo e ringraziare la casa editrice Exòrma.

Con la speranza che seguano tante altre sue bellissime traduzioni di Haroldo Conti.

Lo Scaffale di Andrea: “Sudeste”