di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

Essere Luogo e Contenitore di Belle Storie.

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Per un’ora e mezza una giovane ragazza preparata e competente incanta una intera libreria, piena fino all’inverosimile di facce belle, raccontando la Grande Letteratura e un grande personaggio del nostro Novecento: Primo Levi. In serate come questa capisci di essere molto fortunato a fare il libraio in una libreria come la nostra.
Prendo a prestito le parole di un post sui social della mia socia, Alice, che in poche battute spiega il senso di essere luogo e presidio culturale:

“L’incanto di perdersi ad ascoltare per oltre un’ora chi si dedica da anni allo studio storico letterario di Primo Levi capace di fornire non solo un approfondimento di alto livello sviluppato in studi critici come sul rapporto tra lo scrittore e i tedeschi e il racconto dell’Album Einaudi, ma di regalare un ritratto inedito. Quello, raccontato anche da Tesio, che richiama la dimensione privata di chi ha usato la scrittura come mezzo per raccontare la Storia sentendo su di sé il peso e il privilegio della responsabilità della testimonianza, portata per questo, sino agli ultimi anni di vita, anche nelle scuole. E vedere in tutto questo la propria libreria gremita ad ascoltare Mariolina Bertini e Martina Mengoni e terminare i libri disponibili significa che il senso di provare a dare forma a un presidio culturale va ben al di là di logiche, seppur primarie, di sopravvivenza commerciale. Significa essere luogo, e custodire storie per parlare di vera letteratura”.

Essere Luogo, e indipendente, ti permette di spaziare tra le forme più varie e proporre sempre serate dove, dal punto di vista qualitativo, si può volare altissimi e spaziare, passando con facilità, indifferentemente, dal Fumetto alla Grande Letteratura. L’importante è avere sempre la consapevolezza di regalare Belle Storie al lettore e farsi contenitore.

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Mercoledì 4 Aprile,in Libreria, Jacopo Masini ha presentato con l’amico di sempre, Ivano Porpora, il Fumetto della Collana The Real Cannibal: Ed Gein la madre di tutti i serial Killer.
Il nuovo volume, in uscita per Edizioni Inkiostro, con la firma di Jacopo Masini, Francesco Paciaroni, Rossano Piccioni, ci porta nei meandri oscuri della mente di uno dei personaggi più controversi del Novecento. Nella collana “The Real Cannibal”, dopo un excursus nelle vite e nelle menti di Andrej Cikatilo e Charles Manson, ora tocca a Ed Gein, il serial killer americano, le cui “gesta” hanno ispirato i registi di “Non aprite quella porta”, “Psyco” e “Il silenzio degli innocenti”.
Norman Bates in ‘Psycho’, Leatherface in ‘Non aprite quella porta’ e Buffalo Bill in ‘Il silenzio degli innocenti’ hanno popolato i nostri incubi ma pochi sanno che questi personaggi sono ispirati ad un unico killer, realmente esistito col nome appunto di Ed Gein, eccentrico scapolo del Wisconsin che commise indicibili crimini. Ognuno di questi personaggi ricorda Ed Gein, eppure le sue atrocità sono più efferate, più estreme e strane dei suoi omologhi dei film. La realtà in questo caso ha superato la finzione.
Edward Theodore “Ed” Gein era nato a La Crosse 27 agosto 1906
Dopo il suo arresto e la scoperta della collezione di teste nella sua fattoria fu denominato “Il macellaio di Plainfield”. Lavorava saltuariamente, anche come babysitter per i vicini, ed era figlio di un alcolizzato e di una fanatica luterana che lo picchiava con la Bibbia, lo educava sulla lascivia delle donne e lo metteva in guardia dagli altri, scoraggiando qualsiasi nuova amicizia. A sorpresa, Ed era bravo con i bambini e piaceva ai genitori. Era sempre educato, sempre attento, amato dai bambini con il quali aveva un ottimo rapporto, migliore che con le persone della sua età. Era un ottimo narratore, raccontava storie sui cannibali del Mari del Sud e i cacciatori di teste. Ne sapeva parecchio sull’argomento. Suo padre morì, e dieci anni dopo morì anche il suo caro fratello, in circostanze sospette. Dopo la morte del fratello, nel maggio 1944, Ed parlò di un incendio, ma Harry non aveva bruciature, anzi, presentava traumi alla testa, come se qualcuno l’avesse colpito con una pala. In seguito la madre morì per un ictus. Ed si consumò. Era distrutto dalla sua perdita. Iniziò a frequentare la taverna di Pine Grove, a sette miglia di distanza, gestita da Mary Hogan, una donna di mezza età che gli ricordava sua madre e che scatenò una strana attrazione nel solitario scapolo. Mary scomparve l’8 dicembre 1954, lasciando tracce di sangue nella taverna. Nessuno prestò attenzione alla battuta di Ed in quella circostanza: “L’ho caricata sul pickup e portata a casa”. Tre anni dopo a scomparire fu Bernice Worden, che il killer corteggiava insistentemente. Il figlio della donna trovò il negozio incustodito e scoprì che l’ultimo scontrino riguardava un acquisto di Gein. La polizia perquisì la sua fattoria e trovò di tutto: topi, blatte, sporcizia, resti umani, un cadavere sventrato e decapitato, appeso al soffitto per le caviglie. Era Bernice Worden. Uno degli agenti prese la ciotola da zuppa in cui c’erano ancora i resti congelati dell’ultimo pasto di Ed, e capì che si trattava di un teschio umano. Altri simili erano appesi sopra il letto come decorazione. In cucina trovarono sedie in pelle umana, una cintura realizzata con capezzoli e labbra femminili, un vestito di pelle umana composto da un paio di pantaloni e un top da cui spuntavano i seni insanguinati di una donna. La collezione comprendeva una scatola con nasi umani e una serie di maschere, ottenute dai volti delle vittime, quattro erano appese alle pareti. L’unica zona pulita e ordinata era la camera della madre del killer, una specie di santuario. La quantità di trofei umani trovati nella casa di Gein indicava che avesse ucciso molte più persone di quanto si pensasse. Fu dichiarato colpevole e morì a 78 anni nel manicomio criminale di Madison il 26 luglio 1984, sepolto nel cimitero di Plainfield accanto all’adorata madre, in una tomba senza nome. Divenuta di pubblico dominio dopo il suo arresto, la vicenda ha sconvolto l’opinione pubblica statunitense.

30261453_10216695847057224_4661007764997275648_nA trent’anni dalla scomparsa di Primo Levi, abbiamo deciso di proporre al nostro pubblico di lettori una serata su una tra le figure più complesse della letteratura e della cultura del Novecento. Sabato 7 Aprile, infatti, abbiamo fatto una presentazione del numero monografico dell’Indice dei Libri del mese su Primo Levi, anche con inediti e contributi, assieme a un’amica dei Diari, Mariolina Bertini e a Martina Mengoni.

Martina Mengoni, ricercatrice della Scuola Normale di Pisa è autrice di un libro dal titolo “Primo Levi e i tedeschi, pubblicato da Einaudi.
La voce del Primo Levi testimone, scrittore, uomo di scienza, intellettuale del suo e del nostro tempo, grazie alla pacata chiarezza delle sue parole, è divenuta un riferimento indispensabile e una presenza pienamente riconosciuta a livello internazionale. Martina Mengoni ci ha raccontato, con grande passione ed entusiasmo, ad esempio, dei molti tentativi compiuti da Levi nel corso degli anni per comprendere quei tedeschi che si erano macchiati in prima persona dei crimini di Auschwitz, o dei tantissimi altri rimasti “sordi, muti e ciechi” di fronte all’orrore.
L’edizione tedesca di “Se questo è un uomo” avviò una serie di contatti epistolari tra Primo Levi e i suoi lettori in Germania. Lo studio di Martina Mengoni li ricostruisce e ne fa emergere l’importanza.
Si è parlato del contratto stipulato nel 1959 con l’editore Fischer Verlag per la pubblicazione in Germania della prima edizione in tedesco di ”Se questo è un uomo”. E poi l’ uscita del libro nel 1961, destinata a suscitare in numerosi lettori l’impulso a comunicare allo scrittore le loro sensazioni e le loro riflessioni del dopo.
”Lettere di tedeschi” è anche il titolo dell’ ultimo capitolo de ”I sommersi e i salvati”, che nel 1986 darà conto di un dialogo difficile e dolorosamente inconcluso. “I Sommersi e i salvati” è il libro che, a fine serata, Martina consiglia agli insegnanti per iniziare un approccio col mondo di Levi e l’Olocausto nelle scuole.

In “Se questo è un uomo”, Primo Levi si descrive al cospetto del tedesco per antonomasia, che compendia tutti i tedeschi: il dottor Pannwitz, che «siede formidabilmente» dietro la sua «complicata scrivania». Sta per cominciare l’esame di chimica che gli può valere la sopravvivenza, e Levi dà voce al giudizio, sommario e inevitabile, su tutto un popolo:

«Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepí in quel momento in modo immediato. […] “Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono intrinsecamente malvagi. Nessuna comunicazione possibile”».

Oggi sappiamo che, più tardi e altrove, lontano da Auschwitz, la comunicazione poté riprendere, e riservò sorprese. Per fortuna di Primo Levi – e dei suoi lettori – la storia con «i tedeschi» non si bloccò ai due lati di quella «complicata scrivania».

La serata, molto elegante e raffinata, è stata condotta in un silenzio quasi irreali. La lettura di una missiva privata di Primo Levi, letta con la voce esile ma allo stesso tempo ferma di Mariolina Bertini, ha incantato ed emozionato tutti. Le due studiose si sono soffermate su vari testi di recente pubblicazione, oltre quello della stessa Mengonio, vale a dire “Io che vi parlo” – Conversazione con Giovanni Tesio, Einaudi, 2016; Domenico Scarpa, Roberta Mori “Album Primo Levi”, Einaudi, 2017.
Nello Zaino voglio inserire quella che è la conversazione inedita in cui l’uomo, il testimone, il chimico e lo scrittore si saldano insieme mirabilmente, componendo una preziosa autobiografia.
30264563_10216695846657214_1714072163083878400_nA sorpresa, quasi trent’anni dopo il suicidio, il piccolo, ma a suo modo essenziale e importante, libro di conversazioni con Primo Levi, “Io che vi parlo”, firmato da Giovanni Tesio, suo biografo, amico e critico dell’opera. Una fitta conversazione che Primo Levi ha intrecciato nei primi mesi del 1987 con Giovanni Tesio, in vista di una convenuta «biografia autorizzata» che lo stesso Tesio aveva proposto a Levi. Le conversazioni furono tre: l’ultima l’8 febbraio. E, nel congedarlo, contrariamente alla stretta di mano del saluto degli altri due incontri, Primo Levi lo abbracciò. Si erano messi d’accordo per continuare queste registrazioni. Un dialogo che si interruppe proprio prima di Auschwitz: interruzione dovuta alla morte tragica dello scrittore.

Il prof. Tesio, attualmente ordinario di letteratura italiana all’Università del Piemonte Orientale, ha tenuto per sé la registrazione di queste tre lunghe conversazioni. Tre dialoghi registrati in cassetta, poche settimane prima della morte, una forma d’implicita terapia, di “cura”, in un periodo in cui molti amici erano preoccupati per la sua condizione psicologica e lo stesso Tesio aveva “avvertito improvvisamente un’incrinatura”, cioè una forma latente di depressione. Ora si è deciso a pubblicarle. Da questa conversazione affiora un’immagine inedita dell’uomo, di uno dei testimoni più attendibili di Auschwitz, del chimico, dello scrittore: in fondo una preziosa autobiografia. La famiglia, l’infanzia, i parenti più antichi, i genitori, gli anni di formazione durante il fascismo, la scuola ma anche gli amici dell’adolescenza, le sue letture, la sua timidezza, la passione per la montagna. E ancora la guerra, il ritorno a casa e un mestiere quello di chimico

“che è poi un caso particolare, una versione più strenua del mestiere di vivere”.

Domande discrete e mai troppo incalzanti a cui Levi risponde con una disponibilità vigilata ma a tratti molto esplicita, che spariglia il risaputo, lasciando trasparire un lato di sé più intimo. E ci regala un dialogo intenso che corre sul filo della memoria, carico di vita, di storie e di Storia.
“Sicuramente ferito nello spirito e nella carne”, Levi accetta l’invito, “parco, sobrio, discreto, molto gentile”, si affida al rito della domanda e della risposta. Talora chiede di spegnere il registratore, quando si toccano argomenti troppo privati e talora è lo stesso intervistatore a farlo. Un patto sottoscritto anche tacitamente dai due interlocutori, dinanzi a fatti e ricordi che devono restare indicibili, non tutto si può e si deve dire, c’è un silenzio su cui solo la scrittura può interrogarsi.
Tesio confessa di essere stato colpito dalla

“indubbia capacità di comunicare con esattezza e asciuttezza di parola”

di Levi. Con quella stessa grana della voce parlante, antiretorica, ma non inerte, domestica ma quasi festiva,

“ monotonale ma capace di un suo scatto espressivo”,

egli racconta, a volte un po’ si ritrae, di certe profonde e laceranti emozioni dell’età più giovane, del rapporto di “timidezza quasi patologica” verso il mondo femminile, insegue il ricordo di una “diversità” riconosciuta in sé, nel suo essere ebreo, assai prima dell’esperienza del Lager.
Accenna all’amore tutto platonico per la compagna partigiana, poi finita nei forni crematori. Affiora un’emozione più forte di altre, quasi inestirpabile, un senso di colpa profondissimo, ineliminabile: la colpa di essere vivo, il tormento che gli farà scrivere “I sommersi e i salvati”, l’estrema impietosa interrogazione sulla memoria, sulla necessità di testimonianza opposta alla rassegnazione, all’inerte accettazione del Male.
Tre incontri pomeridiani il 12 e il 26 gennaio e l’8 febbraio 1987. Le conversazioni s’interrompono, “Io che vi parlo” termina senza nessuna conclusione, proprio prima di approdare presumibilmente ad Auschwitz. Una pausa prolungata e l’11 aprile Levi precipita dalle scale del palazzo dove abita.
Poche settimane prima aveva parlato a Tesio di un suo nonno, quello paterno.

“Non l’ho mai conosciuto. È morto suicida in condizioni che non so, non so se sia per ragioni di dissesto finanziario. Porto il suo nome, mi chiamo Michele come lui”.

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Da pochi giorni in Libreria tra gli scaffali dei Diari una nuova casa editrice : Racconti Edizioni.
Nuova casa editrice che pubblica soltanto short stories, nasce a Roma nel 2016 da un’idea di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco. Del progetto fa parte anche la rivista culturale “Altri Animalia” cura di Leonardo Neri.
I primi titoli sono stati «Appunti da un bordello turco» e «Lezioni di nuoto».
“Il vizio di smettere” di Michele Orti Manara è una delle ultime novità e da questa splendida raccolta di racconti, illustrata da Francesca Protopapa, voglio partire per raccontare questa casa editrice.
Qualche tempo fa l’autore di questo libro si è chiesto a chi assomigliassero i propri personaggi. Quale carattere fosse possibile tratteggiare oltre le loro differenze di genere, età, orientamento sessuale e modo di raccontarsi. Intravedeva qualcosa, un’immagine composita. Alcuni di loro risultavano irretiti in grattacapi che l’autore stesso non avrebbe mai saputo risolvere, mentre altri sembravano annegare in un bicchier d’acqua: era possibile che, pur ricamando diverse sintassi, componessero un’unica trama?
Perché a sentire di una madre intenta a tappare ogni spiraglio di luce per far dormire il figlio, e di una donna braccata dal proprio assicuratore, si era pronti a ipotizzare la stessa categoria d’ossessione. La stessa materia oscura a tenere unite le confidenze di un adolescente in attesa del migliore amico e la parabola di Wali Gupta, il colpevole uomo delle pulizie in attesa dei padroni di casa. Di cosa era fatto questo collante, una comune diffidenza nei confronti del futuro? Forse, si è risposto l’autore, o forse quel leggero panico che ci prende quando crediamo ci sia qualcuno a scrivere i nostri passi, come un assassino inseguito dalla propria missione. È qualcosa di indefinibile, per cui si finisce sempre sul bancone del bar a prestare l’orecchio ai deliri di una vecchia, o sul divano di casa a dar retta a un gatto smorfioso. Un po’ come tifare per la tartaruga, e quella sua cocciuta lotta contro Achille.L’autore se l’è chiesto varie volte chi o cosa fosse questo volto nascosto, e ogni tanto ha pensato di aver riconosciuto qualcuno. Dopo un po’, però, non sapendo bene come porre la questione, ha deciso di smetterla con questo vizio di farsi domande, e si è rimesso a scrivere.
Michele Orti Manara (Verona, 1979) coltivatore di nepente e di un blog che si chiama nepente, dopo essere stato ghostwriter di un ghostwriter è adesso social media manager di una delle più importanti case editrici milanesi. I suoi racconti sono apparsi su “Cadillac”, “Inutile”, l’”Inquieto”, mentre il suo esordio “Topeca” è stato pubblicato da Antonio Tombolini Editore.
30515580_10216695847137226_1260007357262331904_nArrivato in libreria, da pochissimo, il libro “Bestiario sentimentale”, una sorprendente raccolta di racconti che indaga il rapporto uomo/animale della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, edito da La Nuova Frontiera. La traduzione italiana è di Federica Niola.

“Il vincolo tra animali ed esseri umani può essere complesso tanto quanto quello che ci lega ad altre persone. Alcuni intrattengono con i loro animali domestici un rapporto di espansività contenuta. Li nutrono, se è necessario li portano a passeggio, ma di rado ci parlano se non per reprimerli o “educarli”. C’è chi, al contrario, trasforma una tartaruga nel suo più intimo confidente. Ogni sera si china sull’acquario e le racconta le esperienze che ha vissuto al lavoro, il confronto rinviato con il capo, i dubbi e le speranze amorose”.

Nei cinque racconti di Bestiario sentimentale la vita degli animali, governata dagli istinti e dalle leggi implacabili della natura, si fa specchio delle relazioni tra esseri umani.
Così, osservando la silenziosa esistenza dei pesci combattenti, una donna si trova a fare i conti con la crudeltà che nasce in un rapporto di coppia agli sgoccioli. Una casa nei quartieri bene di Città del Messico invasa dagli scarafaggi, diventa teatro di una guerra tra specie in cui si rispecchiano i conflitti familiari. Una gatta e la sua cucciolata offrono l’occasione per riflettere sulla maternità, quando è desiderata e quando no lo è. Un fungo e una vipera svelano rispettivamente il misterioso legame che unisce due amanti e il dolore di una passione impossibile.
Attraverso le storie dei loro animali, Guadalupe Nettel, racconta in maniera magistrale la vita di uomini e donne fragili, consumati da amori non corrisposti, colti nei momenti più importanti e delicati della vita in cui decisioni irrevocabili possono cambiare il corso di un’esistenza: mancarsi per un soffio, ritrovarsi o perdersi per sempre.
Guadalupe Nettel è nata a Città del Messico nel 1973. È autrice di quattro raccolte di racconti tra cui “Pétalos y otras historias incómodas” (2008) e “El matrimonio de los peces rojos” (2013); e di un romanzo: “El huésped” (2006). Ha ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio franco-messicano Antonin Artaud (2008), il premio tedesco Anna Seghers (2009) e il Premio de narrativa breve Ribera del Duero (2013).
“Il corpo in cui sono nata” (Einaudi 2014) è stato il suo primo libro tradotto in italiano. Sempre per Einaudi, ha pubblicato nel 2016 “Quando finisce l’inverno”.

Aspettando il 16 aprile con “Salvare le ossa” di Jesmyn Ward non possiamo non consigliare l’ultimo nato in casa NN Editore dal titolo “Preludio a un bacio” di Tony Laudadio.
30412638_10216695848337256_7749271267240312832_nTony Laudadio, formatosi alla Bottega di Gassman, è attore di teatro e di cinema (Risi, Moretti, Sorrentino) ed è autore di testi teatrali e di opere letterarie.
I suoi romanzi, “Esco” (2012) e “Come un chiodo nel muro” (2013) sono editi da Bompiani.
“Preludio ad un bacio” è la storia di Emanuele, un senzatetto, un musicista che suona agli angoli delle strade. Ha rinunciato a ogni affetto e contatto umano, tranne quello di Maria, che lavora in un bar e si prende cura di lui. Finché un giorno, dopo un’aggressione, Emanuele si risveglia in ospedale e si accorge d’un tratto che la sua apatia è scomparsa: persone e cose brillano di una nuova luce, spingendolo ad agire per rimediare agli errori di un passato sprecato.
Non solo un romanzo, ma un monologo su carta, ambientato in un teatro fatto di jazz, ricordi e rimpianti; Tony Laudadio ci consegna una storia colorata come una processione lungo le strade di una città di provincia, popolare e anche un po’ kitsch, emozionante come il brivido che ci coglie quando ritroviamo frammenti di fiaba nella vita di tutti i giorni.
Preludio a un bacio è la storia di una rinascita in crescendo, in corsa verso una felicità inafferrabile, ma comunque capace di dare senso a una vita intera. Questo libro è per chi cerca la divinazione della giornata in libreria, per chi rincorre profumi e colori sulle strade, per chi ascolta tutto l’anno le canzoni di Natale, e per chi si è trovato a piangere lacrime in bianco e nero per la sua vita non vissuta, per poi scoprire che in quello spazio bianco si sono decise le sorti della sua dannata felicità.
Per NNE è già stato pubblicato nella serie ViceVersa il libro “L’uomo che non riusciva a morire”.
All’inizio si presenta come un raffreddore, forse un’allergia. Ma poi la malattia entra nella vita del protagonista travolgendone il ritmo e il respiro. Lui la combatte con ogni mezzo, con la voglia di vivere e di curarsi e con le armi della lucidità e dell’ironia che gli sono consuete. E capisce che a volte è il malato stesso a doversi prendere cura dei suoi cari e non viceversa. In questo romanzo, Tony Laudadio ci conduce come sempre sul filo del realismo e del tragico quotidiano. Ma spingendosi nel paradosso della vita che non ha mai fine, ci porta in un luogo diverso, spesso disabitato dai libri, dove la commozione è semplicemente quella della vita vera. Questo libro è per chi tiene sul comodino “Una breve storia del tempo” di Stephen Hawking e le poesie di Caproni, per chi vorrebbe lasciare tutto e partire per il Nepal, e per chi vorrebbe l’olfatto di un elefante per sentire tutti i profumi del mondo.

Nello Zaino di Antonello: Essere Luogo e Contenitore di Belle Storie.