di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

 

                                                        SBRICIOLARSI

Recensione al libro di MAX BLECHER “Cuori cicatrizzati”

(Keller)

“Ero rimasto scioccato. Dalla sua stroncatura di ‘Danubio’ di Claudio Magris, uno dei miei libri preferiti. Magris è un asburgico nostalgico, il suo ‘Danubio’ è tremendamente ingiusto nei confronti dei Balcani, più vi si inoltra meno dà informazioni. I primi mille chilometri del corso del fiume occupano più di due terzi del libro; appena lascia Budapest, non ha quasi niente da dire, dando l’impressione (contrariamente a ciò che annuncia nell’introduzione) che tutto il Sud est dell’Europa sia molto meno interessante, che lì non sia accaduto né si sia costruito niente di importante. E’ una visione della geografia culturale terribilmente ‘austrocentrica’, una negazione pressoché assoluta dell’identità dei Balcani, della Bulgaria, della Moldavia, della Romania e soprattutto della loro eredità ottomana” (Bussola. E/O. 2016. Pag.28).

Questo è il dialogo che possiamo leggere nelle pagine iniziali dello splendido libro di Mathias Enard, “Bussola”, Premio Goncourt 2015. Un incalzante dialogo tra i due protagonisti Franz e Sarah. Condivido il giudizio di Franz: “Danubio” (Garzanti. 1986) è uno dei miei libri preferiti. Lo lessi non appena uscì più di trent’anni fa e ne trassi un indelebile ricordo. Lo rilessi altre volte e, ogni volta, mi suscitò grandi emozioni. Eppure Sarah ha ragione e torto allo stesso tempo. Ha ragione perché, in effetti, il libro un po’ austrocentrico lo è. Ha torto perché Magris ha dedicato molte pagine ad autori provenienti dalla periferia dell’impero. Ha ancora ragione se pensiamo al campo dell’editoria in generale. Dove, spesso, gli autori della periferia dell’impero sono rimasti, appunto, periferici. Non è così per la casa editrice Keller che ha pubblicato due testi del grande scrittore rumeno Max Blecher, “Accadimenti nell’irrealtà immediata” (Keller. 2012) e “Cuori cicatrizzati” (Keller. 2017). Quest’ultimo, un piccolo grande capolavoro, viene pubblicato per la prima volta assoluta in Italia. Entrambi i testi sono tradotti con grande cura da Bruno Mazzoni.

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Max Blecher soffriva di una tubercolosi spinale che lo costrinse a passare dieci anni della sua vita immobile, a letto. Morì quando ne aveva 29.

“Cuori cicatrizzati”, un libro del 1937, riflette, almeno in parte, l’esperienza della malattia di Blecher ed è ambientato in un sanatorio della Francia del Nord, Berck.

Prima di analizzare le pagine del libro è necessario allargare il campo ad altri testi e fare, almeno, un cenno al rapporto malattia/letteratura che caratterizzò quella fase storica: un rapporto cruciale nella mitteleuropea absburgica e non solo. Basti pensare a Kafka che era gravemente malato di tubercolosi e che trascorse l’ultimo periodo della sua vita nel sanatorio di Kierling: la malattia gli dà la possibilità di penetrare tra le fessure delle cose e degli eventi e rende  particolarmente acuminata la sua scrittura; basti pensare allo Zeno di Svevo e al suo rapporto ambivalente con la psicoanalisi; basti pensare al sanatorio della Clessidra di Bruno Schulz, ma qui si dovrebbe aprire un altro  discorso perché è il grottesco che domina la scrittura; basti pensare, per uscire dalla mitteleuropa, a Proust e alla sua asma cronica inguaribile e al fatto che scrisse tutta la sua grande opera la notte in una stanza tappezzata di sughero. Infine, basti pensare a Thomas Mann e a “La montagna magica” , uscita con questo titolo, molto più corretto di quello precedente, per i Meridiani nel 2010 (Meridiani Mondadori 2010.)  E qui il paragone con Max Blecher diventa calzante. Nel suo articolo, apparso su “Repubblica” il 3 novembre 2010, intitolato “La nuova montagna di Thomas Mann da “incantata è diventata ‘magica’ ” Pietro Citati parla della fascinazione della malattia in quell’ epoca storica. Fascinazione della malattia che è, alla fine, fascinazione per la morte. Tra la morte e la malattia sta la scrittura, un ponte teso sull’abisso. “La Montagna magica” è, come “Cuori cicatrizzati”, ambientato in un sanatorio. In Mann nei Grigioni, in Blecher nella Francia del Nord. Come nel romanzo di Blecher, lo si vedrà più avanti, anche nel sanatorio descritto da Mann, si realizzano fenomeni di oblio, stordimento, deresponsabilizzazione, fascinazione per la malattia e i suoi effetti secondari. E’ un luogo dove nascono storie d’amore, dove il tempo vissuto all’interno del sanatorio è un tempo diverso da quello che scorre all’esterno.

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La trama di “Cuori cicatrizzati” in poche parole. Dopo una visita specialistica in cui gli viene diagnosticata una vertebra rotta, Emanuel è inviato in un sanatorio della Francia del nord, a Berck. Qui tra permanenza e fughe, conoscerà altri ospiti, con alcuni farà amicizia, dovrà elaborare lutti, conoscerà l’amore e le modalità con cui si entra in relazione in una struttura così particolare come il sanatorio.

“Cuori cicatrizzati” è un libro di superamento di soglie. Già dalle prime pagine. L’incipit del romanzo è straordinario. Emanuel è in attesa di superare la soglia che lo porterà nel laboratorio dello specialista che lo visiterà. E’ ancora una soglia che divide l’essere sani dall’essere malati. Con tutta la tensione che questo determina, con tutti gli interrogativi che ci si pongono prima di un responso. L’attraversamento della soglia è un attraversamento fisico, psicologico, esistenziale. Oltre quella soglia e, nel momento del responso, tutto cambia. Anche le percezioni. Lo abbiamo provato tutti: anche quando ci viene fatta una diagnosi per una malattia non grave, il nostro modo di vedere le cose e il mondo circostante muta. E, per allargare il discorso, abbiamo provato tutti quello che si prova quando si ha un parente ammalato. Sembra che un vetro ci separi dagli altri. Un vetro così spesso che ci sembra impossibile identificarci con loro, un vetro così spesso che ci sembra di vivere in un mondo completamente diverso.

La comunicazione della diagnosi induce Emanuel a riflettere, in modo molto acuto e cupo, sulla malattia:

“avrebbe voluto chiedere molte altre cose: se non gli spezzerà la colonna vertebrale prima di arrivare alla pensione, se non crollerà per terra lungo la strada, se non gli cadrà la testa dal collo, rotolando giù sul marciapiede come una boccia da bowling. Da un po’ di minuti si sentiva come incollato assai maldestramente. Nelle fonderie dove si lavora il vetro gli operai si divertono a gettare in acqua pezzi di impasto fuso, che si induriscono e diventano più resistenti del vetro normale, tanto da poter essere persino colpiti col martello, se però un piccolo frammento si stacca tutta la massa si tramuta in polvere. Una sola vertebra sbriciolata, non era forse sufficiente a  trasformare in polvere l’intero corpo? Camminando per strada si sarebbe potuto staccare l’osso malato e allora Emanuel sarebbe cascato in terra, e di lui non sarebbe rimasto altro che un semplice mucchietto di cenere fumante” (pag.22-23).

Passare dall’altra parte, passare dalla parte della malattia significa percepire tutta la nostra fragilità, precarietà, la vulnerabilità del nostro corpo, vulnerabilità su cui ha scritto pagine stupende e drammatiche Jean Améry (pseudonimo di Hans Chaim Mayer) nella sua trilogia che comprende “Intellettuale ad Auschwitz” (Bollati.Boringhieri.1987), “Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare” (Bollati. Boringhieri. 1988), “Levar la mano su di sé” (Bollati. Boringhieri.1990). Améry, filosofo austriaco ebreo, torturato dai nazisti perché faceva parte della Resistenza, poi deportato in campo di concentramento, infine suicida nel 1978, parla, in questi libri, della tortura, dell’invecchiamento, della malattia, del suicidio. Riflette sulla vulnerabilità dei nostri corpi, sul fatto che la massima esplicitazione del Potere è quando l’Altro ha a completa sua disposizione il tuo corpo. Il tuo corpo può essere aggredito, violato, devastato. Può essere aggredito anche dall’invecchiamento e dalla malattia. Fino a che non sovvenga la morte. Per designare il corpo, in tedesco, esistono due termini Korper e Leib. Korper è il corpo fisico. Leib è il corpo vissuto. In Améry il corpo fisico e il corpo vissuto diventano unica cosa. Entrambi soggetti alla sofferenza, entrambi soggetti al decadimento a causa del Potere che l’Altro può esercitarvi, a causa della precarietà del nostro essere nel mondo. 

Anche per Max Blecher corpo fisico e corpo vissuto sono una unica cosa. Unico antidoto, come forse lo fu anche per Kafka e Proust, resta la scrittura. La scrittura che nasce dalla malattia e dalla sua fascinazione, dalla fascinazione della morte ma che, paradossalmente, alla malattia e alla morte si oppone, esorcizzandole.

L’altra soglia che Emanuel deve attraversare è quella del sanatorio. Quando vi arriverà troverà un mondo che ha le sue regole, che ha ospiti che ragionano in un modo del tutto particolare, che ha una temporalità che sembra essere diversa dalla temporalità che vi è all’esterno. Nel sanatorio imperano la deresponsabilizzazione, l’oblio, il desiderio di non uscire. Il beneficio secondario della malattia, per usare un termine di Freud, è questo non assumersi responsabilità, è questo farsi coccolare come quando -ognuno di noi lo ricorderà- ci si ammala e si resta a casa da scuola e si sta bene nel caldo del letto. Riflette Emanuel, mentre è in attese del calesse su cui lo caricheranno:

“ ‘Ho sempre avuto in me un fondo di pigrizia che si ritrova ora pienamente soddisfatto’ continuò. ‘Allungo le ossa sulla barella, mi riposo a meraviglia, mi sento benissimo…’ ”

Una specie di vacanza, una vacanza dalla vita, da quella vita vissuta tutti i giorni all’esterno. È esplicito Ernest, uno dei primi amici di Emanuel nel sanatorio e ormai guarito:

“Berck è una cosa diversa da una città di malati. E’ un veleno assai insidioso. Entra direttamente nel sangue. Chi ha vissuto qui non si trova da nessuna altra parte. Lo avvertirai anche tu ad un certo punto. Tutti i commercianti, tutti i medici di qui, i farmacisti, persino i lettighieri… sono tutti ex malati, che non sono riusciti a vivere da altre parti”(pag.86).

Malgrado il gesso, malgrado le sofferenze, malgrado i lutti sembra che il sanatorio,  per chi vi è ospite, sia l’unica patria possibile. Malgrado

“questo contrasto tra l’essere una persona come le altre e comunque essere imprigionato dentro un gesso, con le ossa rotte dalla tubercolosi…” (pag. 55).

Un altro ospite, Quitonce, che poi morirà dopo un ennesimo intervento, ragiona sulla malattia e la morte e su cosa significhi essere ospiti in sanatorio:

“ ‘Ho fatto di tutto in vita mia’ disse di nuovo Quitonce, ‘ho provato l’intera gamma delle sofferenze fino alle… stavo per dire voluttà… fino alle stupidaggini…Accendi un po’ la luce!’ ” (pag. 96).

E si ritorna alla voluttà, voluttà della malattia, voluttà della morte.  La voluttà, la vacanza dalla vita sono gli estremi meccanismi di difesa che vengono messi in atto per difendersi dalla sofferenza, quella sofferenza che pervade molte pagine del libro anche laddove non sembra. Non sembra che ci sia sofferenza quando alcuni degli ospiti del sanatorio, Roger Torno, la signora Waleska, Valentin, Tonio, Katty, Zeta, Solange, si trovano nella stanza di Ernest per fare un festa dove alcuni di loro si ubriacheranno, dove ci sarà persino un tiro a segno contro un lampione fuori nella strada. Alla fine resterà nel lettore, ma anche nell’animo di Emanuel, un senso di vuoto, di colpa, di inutilità, la consapevolezza dell’inautenticità di quella festa. Sarà, però, durante quella festa che inizierà la storia d’amore di Emanuel con Solange.

Altre soglie, altri attraversamenti. Ad un certo punto del romanzo, in un anelito di libertà Emanuel, andrà a vivere, per un certo periodo, dalla signora Tils, un’americana che ha una casa da quelle parti e che ha avuto il marito ospite del sanatorio dove  è morto. Un soggiorno non lungo perché, dopo un periodo di vacanza, la signora Tils ritornerà negli Stati Uniti e Emanuel rientrerà in sanatorio, anche se per un breve periodo.

La storia d’amore tra Emanuel e Solange è molto importante per l’economia del romanzo. Solange è una di quelle ospiti che, guarita, potrebbe andarsene, ma è come se fosse attratta dal sanatorio.

Si tratta di una storia d’ amore complessa e piena di sfumature, di chiaroscuri che lascio al lettore scoprire. Qui è importante sottolineare quanto, agli inizi, il gesso indossato da Emanuel abbia un valore simbolico. Esso, almeno inizialmente, è la metafora di una divisione: quella fra malattia e sanità. Ma è anche un dato reale perché impedisce a Emanuel di muoversi liberamente, è come se il gesso fosse un destino, altra soglia da attraversare, involucro in cui il corpo è trattenuto e con il quale il corpo deve, necessariamente, fare i conti. Poco alla volta l’ostacolo sarà superato e i movimenti d’amore sempre meno impacciati. E saranno quelli i momenti in cui anche il paesaggio, con la sua bellezza, sembrerà partecipare all’idillio. Mentre, nei momenti di crisi del rapporto o nei momenti tragici che attraverseranno la vita del sanatorio, il paesaggio sembrerà essere, leopardianamente. indifferente o inutile.

La storia d’amore con Solange terminerà perché Emanuel sentirà, in quel rapporto, una costrizione della sua libertà, Forse perché Solange, sana, libera di muoversi, rimanda a Emanuel, come in uno specchio deformato, la sua costrizione. O forse perché è arrivata Isa, una nuova ospite del sanatorio.

Il momento cruciale della crisi è anticipato da un biglietto di Solange, fatto recapitare a Emanuel nella casa della signora Tils, che potrebbe essere interpretato come l’annuncio di un suicidio e che mette in ambasce Emanuel a cui un unico pensiero riesce a dargli ristoro:

“ ‘È impossibile che accada qualcosa che si attende con estrema inquietudine ‘ si disse. ‘L’intensità la scaccia via come un vortice d’acqua che getta all’esterno tutti gli oggetti che capitano nel suo moto rotatorio… Finché non mi acquieterò, non ritorneranno’ ” (pag.193-94).

È come una specie di esorcismo e credo che, almeno, una volta nella vita sia capitato anche a noi, nella nostra esperienza personale. Ci sono intuizioni che ci attraversano e poi dimentichiamo. Ce le troviamo davanti a noi, in tutta la loro drammaticità, quando meno ce lo aspettiamo e siamo, spesso, impreparati ad affrontarle. È come se il perturbante descritto da Freud fosse in azione nella sua maniera più incisiva. Unico antidoto sembrerebbe quello descritto da Blecher: non lasciare che l’intuizione ci attraversi, fermare e sostare nell’inquietudine.

La vicenda raggiunge il suo culmine in una indimenticabile scena dal sapore gotico in cui Solange, in una notte di tregenda, si presenta a lui con un aspetto da accattona folle:

“Soltanto quando lei entrò nella stanza, scorse nelle sue mani gli oggetti orrendi che portava con sé, raccolti di sicuro in qualche spiazzo desolato. In una mano teneva una vecchia ghetta, lacera e putrida, nell’altra un uccello morto, col collo spezzato, senza piume, orribile” (pag. 197).

Siamo qui nelle zone più prossime alla follia, quella follia che ci fa venire alla mente l’Adele Hugo così ben descritta da Francois Truffaut nel suo film sulla follia della figlia del poeta francese.

Alla fine del romanzo si è presi da una profonda malinconia: molti dei personaggi che abbiamo conosciuto se ne sono andati per sempre, altri sono usciti dal sanatorio. Sappiamo, e lo vediamo dalla minuziosa descrizione che Blecher fa delle cure a cui sono sottoposti gli ospiti del sanatorio, che Blecher visse in prima persona la malattia che lo immobilizzò per dieci anni e che lo portò a morire a ventinove. Di lui restano i libri, questa sua scrittura precisa, asciutta e tersa, questa scrittura palpitante di vita, una scrittura che lo differenzia dal Mann de “La montagna magica “ in cui c’è una sovrabbondanza di riflessioni filosofiche e dove la vita, spesso, sembra soccombere a questo riflettere perché, come scrive Pietro Citati nell’ articolo comparso su Repubblica cui ho fatto riferimento più sopra:

“Non amo il falsetto della sua prosa, né le innumerevoli nozioni e idee che la sua regale cornucopia rovescia sopra il nostro capo indifeso”.

Vorrei concludere con quanto afferma Isa, l’ultima arrivata al sanatorio di Berck:

“ ‘Sai cos’è che si definisce in medicina ‘tessuto cicatrizzato’? È quella pelle livida e aggrinzita che si forma sopra una ferita rimarginata. È una pelle quasi normale tranne per il fatto che è insensibile al freddo, al caldo, o alle offese…’… quindi riprese sottovoce. ‘Vedi, i muscoli cardiaci dei malati hanno ricevuto nel corso della vita così tante ferite da taglio che si sono trasformati in tessuto cicatrizzato… Insensibili al freddo… al caldo… alla sofferenza… Insensibili e illividiti dalla crudeltà…”.

Lo Scaffale di Andrea: Cuori cicatrizzati
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