di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Cuori cicatrizzati negli accadimenti nell’irrealtà immediata di Max Blecher

max blecher

I pesci nell’acquario dello studio del dottor Bertrand continuano impassibili la loro oscura migrazione mentre Emanuel apprende la notizia della malattia. È un giovane studente di Chimica quando scopre di essere affetto da tubercolosi ossea. Sono i primi decenni del Novecento e quel giovane, arrivato da solo in Francia dalla Romania, imparerà presto la distinzione sociale fondamentale tra essere sani e essere malati e la spietatezza inferta anche dalla guarigione. La notizia della malattia lo porta a guardare con occhi nuovi ciò che lo circonda, smarrito nella percezione di luoghi e persone che gli appaiono improvvisamente sconosciuti, anche se i loro contorni continuano a esistere.

Il nuovo quadro del suo quotidiano sarà il sanatorio di Berck, perso tra le dune di sabbia della costa Nord della Francia. Un luogo che prende presto sembianze grottesche in quella parvenza di villeggiatura scandita da uscite in calesse in spiaggia e momenti di convivialità. Tutte le persone che gravitano attorno al sanatorio, dagli inservienti ai segretari dei medici, sono ex malati e ormai incapaci di vivere in altri luoghi non riuscendo più a trovare un posto nella loro vita di prima. Quell’istituto diventa un microcosmo dominato da amori e disamori, gelosie e prevaricazioni. Come farà anche Thomas Mann scegliendo un sanatorio delle Alpi Svizzere per La montagna magica, anche Max Blecher con Cuori cicatrizzati (Keller, trad. Bruno Mazzoni) replica le dinamiche sociali di una comunità dei primi del secolo raccontando la realtà europea di inizio Novecento attraverso le storie di quei pazienti. L’aspetto di rilievo che contraddistingue la scrittura di Blecher è il rovesciamento del concetto di normalità, quell'”intelligenza delle cose” che porta il malato a porre un particolare sentimento della vita interiore su un piano diverso nel modo di esperire ciò che lo circonda.

Il filtro della malattia con cui ogni personaggio affronta la propria vita e si relaziona agli altri definisce un alibi che ogni personaggio impara presto a usare sapientemente per ottenere i propri scopi. Blecher scava nella psiche di un malato per raccontarne la paura del declino nella deriva inferta da una condizione inizialmente accolta come ozio e riposo, ma che prenderà le sembianze di una prigionia del corpo su una barella doccia. Anche il desiderio fisico, la passione, la ricerca di un congiungimento con l’altro devono piegarsi a quella condizione, nella frustrazione di gessi che si sfregano per placare solitudini.

Blecher conosce bene la condizione che descrive per i suoi protagonisti: ha diciannove anni quando si ammala di tubercolosi spinale e trascorrerà i successivi e ultimi dieci anni di vita disteso su un letto, immaginando storie e descrivendo tra quei cuori cicatrizzati anche il proprio. Racconta i turbamenti dell’innamoramento come una tortura secca e cocente, simile al gesso ma giusto all’incontrario, come lo definirà l’amico Ernest. E tra pulsioni sessuali imprigionate in quel carapace che lo tiene serrato ermeticamente, il protagonista mette in scena tentativi di corteggiamento sfruttando la propria condizione per muovere a commozione l’amata. Una volta ottenuto lo scopo, però, prenderà presto coscienza che quell’atto vivo e naturale non si ridurrà ad altro che a un simulacro pietoso.

Le descrizioni del sentimento amoroso tra tormenti e attese sono una costante nella scrittura di Blecher: già nel primo romanzo definirà quella passione tra il protagonista e la proprietaria di un negozio di macchine da cucire come qualcosa che sarebbe somigliato all’amore

“se non fosse stata una mera continuazione di una dolorosa impazienza.”

Le giornate di sole rendono ancor più cocente il dolore di un malato, acuiscono la consapevolezza della costrizione di un busto che immobilizza il corpo, rendono inutili e incomprensibili le cose che lo circondano.

“Cosa può fare un essere umano in mezzo alla chiarità del paesaggio? [..] Il mistero più sconvolgente è forse quello che ci appare nella più semplice evidenza.”

Attraverso una prosa densa di sintagmi francesi e creazioni lessicali romene che Blecher ha mutuato dalla lingua d’oltralpe e che il traduttore Bruno Mazzoni ha trasposto in italiano per il primo romanzo, la scrittura di Max Blecher si nutre di simbolismi nel descrivere la volubilità dell’animo umano ma è anche fortemente legata al realismo, come quella di Thomas Mann, nel descrivere il decadimento fisico generato dalla malattia. Richiama Franz Kafka nel modo di intessere storie dove i continui riferimenti al mondo animale personificano la percezione dell’uomo di essere intrappolato in una vita percepita improvvisamente come estranea quando la variazione di un evento, anche minimo, porta a uno sconvolgimento di prospettiva.

La narrazione di Blecher affonda nelle descrizioni dei luoghi per raccontare la metamorfosi determinata dalla malattia: anche chi guarisce prenderà coscienza di essersi distaccato irreversibilmente da una parte della propria vita libera ed essenziale che non ritroverà più, neanche nella guarigione. L’immagine stessa del sanatorio perso tra le dune di sabbia racchiude questa consapevolezza: richiama la desolazione ineluttabile di chi ci vive. Emanuel cerca in fondo di ribellarsi a quella condizione e trova rifugio nei suoi posti segreti in spiaggia, nelle fughe in calesse, per poi capire che quella desolazione del paesaggio non è altro che il riflesso della sua esasperazione.

“Camminò per un po’ lungo la riva, caoticamente, al margine dell’immensa quiete, come nel deserto della propria tristezza.”

In fondo è un confine labile quello tra la realtà e l’irrealtà, e Blecher non fa che camminarci sopra come su un filo, intessendo storie di chi non ha altro mezzo per esperire l’esistenza che attraverso i libri e vaga, così, tra stanze e luoghi che non gli appartengono. E come nei tormenti che attanagliano il protagonista dei Canti di Maldoror di Lautréamont, Emanuel continuerà a cercare un senso al tempo nelle pagine di un poema capace di radunare la noia, la tristezza, il sogno e la bramosia di chi passa i giorni in un compromesso di vita.

E forse la vita non è altro che una somma di accadimenti nell’irrealtà immediata, come il titolo del primo romanzo dove Blecher attraverso i suoi protagonisti si interroga sul senso dell’individuo nel mondo. I luoghi anche qui diventano il riflesso delle proprie inquietudini e nascondono trappole invisibili, come il parco, dove il silenzio si depone denso sulle foglie polverose, o il corso del fiume, a pochi passi da una scarpata le cui crepe sono ai suoi occhi ferite mal cicatrizzate. Ogni spazio si trasforma prendendo di volta in volta sembianze grottesche o sublimi a seconda del sentimento di chi osserva. Solo le immagini, e non le parole, possono definire quelle crisi esistenziali:

“le parole abituali non hanno valore a certi livelli profondi dell’anima.”

In Accadimenti nell’irrealtà immediata Blecher usa la prospettiva di un bambino per raccontare quel mal di vivere che si placherà solo in adolescenza. Vede l’evoluzione dell’individuo come inversamente proporzionale alla sua crescita fisica, descrivendo attraverso il suo protagonista il passaggio all’età adulta come un rimpicciolimento del mondo in quella rassegna di rinunce e ribassi crudeli. Permane la costante convinzione della condizione naturale dell’inutilità del mondo, che descrive come un liquido che ne riempie le cavità spargendosi in tutte le direzioni mentre il cielo sopra di lui assume il colore della disperazione.

“In questa inuitlità che mi circonda e sotto questo cielo eternamente maledetto passeggio ancora oggi.”

In quella scrittura permeata di descrizioni di oggetti e di odori che sono malinconia dell’infanzia si ritrovano i temi dominanti dell’intera opera di Max Blecher: la riflessione sul senso dell’individuo nel mondo e quella sorta di carcerazione, subìta nel corpo e volontaria al tempo stesso, che diventa indispensabile nel trovare un senso alla propria indagine interiore. Guarda sé stesso attraverso i suoi personaggi Blecher, e ritrova quelle solitudini che attanagliano l’infanzia di chi percepisce di esistere solo come un vuoto che si sposta senza senso e osserva il mondo con distacco, come quel ragazzo della copertina della prima edizione illustrata di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne appoggiato all’oblò di un sommergibile per osservare le profondità dell’oceano.

Descrive ciò che la mente di un giovane uomo immagina nel fronteggiare il flusso di immagini e colori che si assommano nei pensieri, e ricorda gli appunti che settant’anni dopo annoterà Giovanni Cenacchi nel suo diario, poi pubblicato da Quodlibet, per descrivere la propria fine immaginandosi di camminare tra le ombre. Quelle stesse ombre che Blecher vede susseguirsi sulla terra, quelle dei battelli, instabili, che

“sembrano tristezze che vengono e passano”.

Le storie di Blecher raccontano i pianti asciutti rimasti nel fondo del petto, il gelo che si percepisce dentro di sé quando si prende consapevolezza di un’assenza ineluttabile: i cuori cicatrizzati dei suoi protagonisti sono rivestiti di quella stessa pelle livida e aggrinzita che si forma sopra una ferita rimarginata, uno strato quasi normale tranne che per il fatto di essere insensibile al freddo, al caldo e alle offese. La sua scrittura dirompe la rassegnazione di vivere. Lancia un monito al lettore da quel letto, il corpo è immobile, ma la mente è libera.

“Mi dimeno ora nella realtà, urlo, supplico di essere svegliato, che mi si svegli in un’altra vita, nella mia vita autentica.”

I Libri di Alice: Max Blecher
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